Ogni curriculum ha bisogno di una presentazione. Non è facile presentare se stessi attraverso le normali strutture dell'argomentazione perché generalmente s'incorre in due pericoli opposti: da una parte quello di dare un'immagine irreale di se, fantasiosa, che, oltretutto finirebbe per non chiarire nulla del fine professionale dello scritto in quanto ausilio al curriculum, dall’altra quello di ricercare una sorta di obiettività, una verità assoluta la quale, soprattutto se il soggetto è al contempo l’ oggetto del racconto, si rivela sempre inattingibile. Io credo poi che, nell’era della comunicazione mediale, non si possa fare a meno della presenza fisica dell’interlocutore, il cui linguaggio, il linguaggio del corpo intendo, ha forse una più densa rilevanza espressiva di quanto non abbiano le parole, se non altro perché utilizza quelle codificazioni inconsce che sono patrimonio  collettivo sviluppato dall’umanità lungo i labirinti del tempo.

Sono nato a Casalecchio di Reno, Bologna, il 2 Novembre alla fine degli anni '50. A seconda delle credenze antropologiche c’è chi considera questo giorno che segna ufficialmente la morte della natura nelle culture antiche, fausto o infausto. Tra i vari complessi di inferiorità che ho volentieri coltivato negli anni può essere annoverato anche questo: essere nato il giorno dei morti. In realtà, oltre il problema delle credenze, sono grato a queste debolezze, e anche a coloro che sadicamente le hanno create,  perché mi hanno motivato a ricercare quella indipendenza dal giudizio altrui che considero la principale conquista della personalità umana, la sostanza vera ed il fondamento della sua libertà.

Sano abbastanza da superare con relativa tranquillità le minacce alla salute dei primi anni di vita, in anni in cui la sanità non aveva ancora fatto passi da gigante, ciò che ritorna di quel periodo sono i luoghi. Abitavamo in una piccola casa con giardino alle porte della città e nelle afose domeniche d’estate si mangiava all’aperto, sotto un pergolato d’uva e un fico che producevano un ombra assai piacevole. Ricordo quando mio padre mi sollevava in alto perché cogliessi i primi chicchi maturi, o quando mia mamma, con modo spiccio, mi infilava a fare il bagno dentro una tinozza di metallo usata altrimenti per il bucato. L’acqua mi piace, non mi fa paura;  pare sia dominante anche nella mia configurazione astrologica. Mi piacque anche quella volta, all’età di quattro anni, quando finii per ruzzolare vestito dentro un canale  che costeggiava la casa. Un canale dove le donne della zona, in ordine su gradoni di pietra, andavano a lavare i panni. Per fortuna due buoni uomini si buttarono prontamente e mi ripescarono dai flutti avvolgenti. Me la cavai bene, se si esclude lo spavento della mamma ed un interrogativo che non mi ha abbandonato: cosa cercavo, cosa chiedevo all’acqua?

Nulla. Forse, semplicemente, avevo calcolato male i passi per via di uno strabismo congenito che modificava la mia percezione visiva. Vedevo male. Fu il mio primo intervento chirurgico, nel ’63, all’età di sei anni. L’Italia seguiva costernata le notizie della tragedia del Vajont ed io soffrivo per una bendatura forzata di sei lunghissimi giorni immobile su un lettino presso la clinica oculistica del Sant’Orsola di Bologna. Il risultato clinico dell’intervento fu scarso. Non corresse lo strabismo e da quel momento cominciai a portare gli occhiali, a frequentare centri di ortottica.  Riuscii a superare il trauma un po’ con l’esercizio, un po’ con la consolazione, sostenuta dalle mie compagne di classe, che si trattasse di uno strabismo venusiano.  Intanto dei negozi di occhiali ero diventato uno dei migliori clienti. Inoltre, giocando a calcio, non passava mese senza che una pallonata li mandasse in frantumi. Ero abbonato.

Per fortuna esisteva la Mutua che si assumeva le spese terapeutiche. Stava vicino casa e si facevano delle file interminabili per adirvi; anche mezze giornate. L’unica volta che non feci fila fu quando un medico cane, con due coltellacci, mi strappò di gola le tonsille. Non si faceva che una debole anestesia locale a quei tempi e come anestetico per i bambini, ma  solo per loro, c’era un gelato. Si mandava giù panna e sangue raggrumato: una vera novità commerciale.

I miei lavoravano tutto il giorno in fabbrica, ed io passavo la maggior parte del tempo in cortile con gli amici o dal nonno. Quartieri popolari, in periferia, che crescevano in groppa ad un paesaggio dolce ed ondulato. Un piccolo mondo antico, proprio vicino a casa, che se ne andava mentre si edificava l’autostrada Bologna- Firenze. Un pezzo della quale fecero passare proprio nel giardino della bellissima villa Marullina, una villa del ‘700 ancora abitata dai suoi discendenti nobili, i quali quasi non avevano alzato la voce per protestare lo scempio: era una grande arteria vitale alla salute della nazione. Un mondo che moriva. A quel tempo le nevicate erano copiose e le strade ne risultavano coperte anche per mesi. Io andavo con i calzoni corti”a fare le palate”con gli altri e ce ne tiravamo certe ghiacciate che facevano male. Sebbene non li veda più da anni i miei amici prediletti restano loro: Lorenzo, Enzo e Massimo.

Eravamo nati tutti nello stesso anno, nel giro di una stessa settimana ed eravamo molto affiatati. Certo, non mancava competizione, invidia, gelosia, ma tutto si svolgeva in un gioco circolare che comprendeva anche la riconciliazione, le scuse e la promessa di non ripetere il peggio. Mi ricordo anche dei loro genitori e delle merende che si facevano in casa dell’uno, dell’altro, sempre attorcigliati da una fame divorante. Dato che i miei lavoravano in fabbrica, passavo la maggior parte del tempo in solitudine, e facevo volentieri la parte del bambino orfano bisognoso d’affetto. Per la ricorrenza del primo dell’anno si andava a fare gli auguri nelle case del quartiere. O meglio, a scassare i campanelli delle persone ancora addormentate che avevano passato la nottata in festa. Alcuni ti salutavano di buon grado, perché era considerato di buon auspicio l’augurio di un bambino. Si riceveva la ricompensa di cinque o dieci lire e si mettevano tutti da parte in un libretto in banca. Formiche si nasce…ed arrabbiate si diventa. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo l’ingegnere navale. Forse era un mestiere che avevo sentito pronunciare alla TV con particolare cerimonia. Io credo però che sia un ricordo di una vita passata. I significati psico - simbolici connessi sono l’interpretazione che preferisco.

Del periodo delle elementari ricordo il maestro Zoli, un tipo entusiasmante. Sapeva raccontare la storia del Risorgimento italiano come non l’ho sentito fare all’Università. Ci metteva l’anima, ti faceva sentire carbonaro, ti leggeva il libro Cuore con voce accorata, autorevole, da grande istrione e gli austriaci erano nemici che volevano impadronirsi proprio del tuo mondo. Io sentivo una affinità particolare per i rivoluzionari, per i sognatori in generale, mi identificavo nelle loro sofferenze, nelle loro speranze, forse perché uno dei pochi libri che adornavano la mia povera libreria era Le mie prigioni di Silvio Pellico, un libro che leggiucchiavo di tanto in tanto e che ci avevano imprestato assieme a Guerra e Pace di Tolstoj. Edizioni Mondadori in caratteri bodoniani e bella carta color crema, spessa e resistente. I libri mi piaceva toccarli se non leggerli, erano come belle donne al tatto. Allora andavo sempre a casa della zia Adolfa ( povera zia, con un nome così ) che faceva una piccola attività per conto di altri e nel frattempo mi faceva fare i compiti, mi insegnava a scrivere, a parlare. Aveva una figlia, Elena, che faceva le scuole medie, ed era bella e brava. Mi piaceva, ma non glie l’ho mai confessato. Lo saprà oggi, ma non sarà uno scandalo, perché comunque lei non ci pensava, impegnata com’era nella pratica di guardarsi allo specchio e di trovarsi fenomenale.

 Alle scuole Medie, in seconda, venni rimandato in Scienze. Non avendo soldi per lezioni private trovammo un doposcuola presso un servizio sociale del Comune che era tenuto da studenti universitari. Alla mattina loro andavano a farsi spaccare la testa nelle manifestazioni operaie che si svolgevano in piazza mentre al pomeriggio, ancora tutti fasciati e sanguinanti, facevano ripetizioni. Tra manifesti del Che ed inni alla rivoluzione gli insegnanti intrecciavano amori e a volte capitava di dover andare a far giri nel parco in attesa che i lavori in corso terminassero. A Settembre feci un figurone all’esame, e la Prof. di Matematica e Scienze quasi piangeva per i progressi che avevo riportato. Delle Medie indimenticabile era il Prof. Rocca, di Educazione Artistica. Era simpaticissimo e soprattutto mi teneva in considerazione. Apprezzava i miei cartelloni pubblicitari, le mie terrecotte, il mio stile: sentivo, forse per la prima volta, che qualcosa, frutto del lavoro della mia propria anima, veniva apprezzato. C’era poi quella di Italiano, una bella donna che non si era sposata la quale, nei momenti di pausa, ci spiegava come dovesse essere preparato il sugo alla bolognese. Doveva bollire a fuoco lento non meno di tre ore. Quando, all’età di trent’anni, provai a mettere quei consigli in pratica, mi ritrovai con un pastone bruciacchiato e con il fondo della pentola definitivamente compromesso. Forse non avevo seguito attentamente la procedura, distratto com’ero dalle ragazze.

 Ce n’erano di carine nella nostra classe ed il principale esercizio erotico, oltre a quello praticato in solitudine privata, era il palpare. Durante l’intervallo, i più arditi, svolgevano dei veri e propri assalti. Le spingevano contro i cappotti allineati sugli attaccapanni e recitavano scene erotiche fantastiche tra grida di terrore o risatine compiaciute di quelle più emancipate. Un bidello dalla testa calva, che aveva fatto il militare in epoca fascista, interveniva a riportare l’ordine ma certe volte non disdegnava di allungare le mani, sempre però nell’ottica dell’ordine da restaurare. All’età di quattordici anni cominciai a fumare. Comprai un pacchetto di Presidente dal distributore automatico e assieme al mio amico Roberto, detto Aguirre, Furore di Dio, ci facemmo una capanna di sterpi in mezzo ai campi e lì andavamo a fumare. Non c’erano divieti, anche i miei zii fumavano, ma quando mio padre scoprì un pacchetto di MS da dieci nascosto in garage mi diede un paio di sberle. Da quel giorno non ha smesso di tormentarmi come una tortura cinese. Io solo oggi, che ho quarantatre anni, sono sul punto di cedere. Hai vinto, babbo.

Quando venne il momento di decidere la scuola superiore da intraprendere, i miei mi mandarono ad un istituto tecnico, come del resto tutti gli altri. Era il suggerimento degli insegnanti della Media, anche se ogni ordine era aperto alla scelta personale. Forse il Prof. Rocca non era intervenuto, forse il fatto che le industrie locali erano le principali committenti di personale, venni indirizzato alla Meccanica. La scuola è sempre stata in mano a deficenti, nulla è cambiato. Perché non  si guarda in faccia alle persone? Quell’estate conobbi Lorena. Era una bambina di quattordici anni, graziosa, bionda, con gli occhi azzurri, con un sorriso lucente stampato sul volto, un volto radioso, chiaro, di pesca. Era cliente della macelleria dove quell’estate andai a fare il garzone. Il pomeriggio ci incontravamo in piscina ed io facevo un po’ il bulletto sul mio Mister College Prototipo, un motorino che mi aveva regalato la mamma. Non credo di averla nemmeno baciata; certo mi sembrava impossibile che una ragazza potesse essere interessata alla mia persona ed io sinceramente non sapevo da dove cominciasse l’amore. La storia finì alla ripresa scolastica tra emozioni e improvvisi rossori, ma il bel ricordo non è mai cessato.

Le scuole superiori erano un altro mondo, erano le scuole di città, con gente proveniente da i più diversi posti, dalle storie più disparate. Casalecchio era abitata da gente proveniente, più o meno, dallo stesso ambiente sociale. Era gente di montagna, di campagna, uomini e donne che si erano trasferiti in città al termine della guerra in cerca di lavoro in una delle fabbriche che stavano nascendo. Era gente che aveva patito la fame, la miseria più nera, la perdita dei propri cari durante il conflitto, gente che parlava il dialetto e che non aveva studiato e non possedeva ne la televisione, ne il telefono. Si acquistava a rate la prima cinquecento e la domenica andavamo a trovare i parenti.

Alle scuole di città, del centro, il mare si allargava. Potevi incontrare figli di emigrati meridionali, stranieri, gente di colore diverso dal tuo, potevi incontrare i rampolli della borghesia bolognese, ragazzetti tutti strafottenti e azzimati, pieni di fisime che ti guardavano dall’alto al basso come se fossi sudicio. Veramente loro non facevano le scuole tecniche, ma venivano indirizzati al Liceo. Ma i nostri padri, in risposta responsabile e ponderata, dicevano che a fare il Liceo si perdevano cinque anni di tempo a studiare Latino e Greco, Matematica e Scienze, mentre invece era molto meglio imparare un mestiere o fare un corso di Libri Paga…La nostra inferiorità si esprimeva anche nelle nostre scelte.In un ambiente relativamente asfittico, si cresceva, si giocava a calcio, si sognava, si osservava gli altri più svegli e ci si adeguava.

Mi piaceva vestire alla moda, con jeans Sisley, con le “fanghe”di Franco, e mi atteggiavo anch’io a fare il”fighetto”. Andavo in discoteca al Ciak e compravo Uomo Vogue ; nei momenti di tristezza leggevo i fotoromanzi di Franco Gasparri e volevo diventare bello come lui per avere molte donne. Al Bar, chi aveva provato la sensazione di un rapporto sessuale completo con una ragazza raccontava meraviglie, e c’era anche chi di donne ne prendeva magicamente una via l’altra. Dei veri fenomeni che mi incantavano e che mi sembra, se frugo nella memoria, distinguere ancora oggi. Mi sembra di vederli col loro fare un po’ donchisciottesco, quell’aria da marionette che attraversano il tempo nel gesto di una posa ossificata, nello svolgimento esclusivo di una direzione.Si nutrivano di liquori, di sigarette, di pomeriggi al Bar, di sfottimenti, di fantasiose cacce, di prestazioni eccezionali, di gioco del biliardo, di noiosissime partite a carte. Le spose con le tette all’aria negli assolati paludamenti d’estate, le spose emiliane, passavano sculettando davanti alla schiera dei vitelloni al bar, e ridacchiavano sotto i baffi mentre rifilavano splendidi scapaccioni ai figli un po’ tonti ed imbranati che portavano lenti spesse e venivano rimandati in Applicazioni Tecniche. ….

Per mantenere queste vanità modaiole, il sabato e la domenica cominciai a lavorare  presso l’ambiente un po’ esclusivo del circolo del Tiro a Volo. Era frequentato da ricconi con il ventre debordante e da nuovi ricchi che il recente risveglio economico aveva beneficato. C’erano nobili, professionisti di vaglia, professori universitari. Facevo i lavoretti che fa un piccolo servitore, andavo a raccattare piccioni morti, caricavo pile di piattelli, verniciavo cassette. Col tempo sono diventato uno speaker delle gare molto bravo e lavorai anche ai Campionati Mondiali . Quel piccolo mondo a parte fatto di maggiordomi, di automobili luccicanti, di partite a canasta e di splendide donne sofisticate,  rispetto al mio piccolissimo, aveva il vantaggio di insegnarti alcune cose della vita che è sempre meglio sapere. Entravano in scena dei veri ricchi e, a volte, indulgevi a specchiarli, li ponevi a modello. Allora il sentimento della vita, sollevato dalle necessità economiche primarie, si faceva quasi più metafisico, acquisiva un valenza esistenziale. Mah..!

In questo periodo la mamma si ammalò. Una malattia grave, per cui si temette anche per la sua vita. Con le cure che si praticavano in quel periodo trovò un sollievo, ma il male doveva ritornare più avanti. Per fortuna si è risolto tutto bene. Tocchiamo ferro. Comunque nessuno di noi pensava che la mamma  se ne potesse andare. Era al centro delle nostre necessità, la loro fonte primaria di soddisfazione. Benedetta sia anche la vocazione che l’ha voluta a condividere la nostra esistenza come la più cara delle madri. E in bocca al lupo.

A scuola si perdeva tempo, non c’erano soddisfazioni personali, non c’era creatività, non si prendevano decisioni, non si produceva nulla di buono. Inoltre forti tensioni sociali percorrevano il corpo cittadino e scolastico. Nella mia scuola si lanciavano le cattedre dalle finestre, si bruciavano i registri, si distruggevano i laboratori. Io andavo alle manifestazioni di piazza con gli operai, con gli studenti universitari e i bersagli dei nostri insulti, nel nome di un comunismo utopico, erano gli eterni governi democristiani, Cossiga, Andreotti. Oltre alle manifestazioni politiche, Lotta Continua, Potere Operaio, non disdegnavo le partite di biliardo, così che obiettivamente il tempo trascorso in classe era scarso. Fui bocciato in terza, giustamente. Per la Meccanica non avevo che un debole interesse.

 Una risposta al disagio di quegli anni non venne dalla politica, bensì dalla discoteca. Stava partendo il cosiddetto riflusso dalla partecipazione politica, e le persone si rifugiavano nel privato dei loro interessi semplici come risposta alla crisi del sociale. Non sono sicuro di ricordare bene ma mi sembra che l’inflazione avesse raggiunto il livello del venti percento e l’economia fosse attraversata dai grandi scandali delle industrie statali ed anche dal tentativo di colpo di Stato del Gen. De Lorenzo denunciato da Eugenio Scalfari. Camilla Cederna costringeva alle dimissioni il Presidente della Repubblica ed io andavo al Ciak con i ragazzi della compagnia della baracchina.

La febbre del sabato sera si curava al Ciak. C’erano le ragazze più belle di Bologna, la musica d’importazione direttamente dagli Stati Uniti d’America, luci sofisticate, tecniche di diffusione sonora all’avanguardia. Un altro mondo, dove si poteva fumare in pace, baciare le ragazze arrotolandosi dentro cascanti tende di velluto, guardare pettinature, scarpe, vestiti, sparare malignità e farsi guardare. La musica alta, oltre a fare barriera per rifugio di nuove sensualità, non consentiva molto altro, e del resto noi non avevamo granché da dire. Inizia un periodo di allegra illusione, di sorridente e sorda ignoranza, la città dell’anima viene esplorata partendo dalla sua periferia anonima e industriale, ma di ciò avrò coscienza solo più tardi.

La musica da discoteca mi piaceva veramente. Acquistavo le ultime novità e restavo sveglio alla notte per ascoltare le trasmissioni musicali dei più famosi disc-jockey a Radio Montecarlo, a Radio Lussemburgo, alla Rai, e ne scimmiottavo la voce, il gergo, gli atteggiamenti. Quasi clandestine, nascevano allora le prime radio private o, come si diceva, libere. Libertà veramente non praticata, perché, a parte il caso di Radio Alice che si spingeva a raccontare gli spostamenti della Polizia durante le manifestazioni, o le imprese degli alternativi mentre praticavano coiti in diretta, le altre imitavano il modello della radiodiffusione pubblica; e le copie che ne risultavano erano deprimenti. Al bar, dove trascorrevo la maggior parte del tempo, conobbi Stefano Scandolara, un tipo simpatico che scriveva canzoni per Mina, la Vanoni, il quale mi fece conoscere Tarantini, un radioamatore solitario e ingegnoso, che aveva installato un’antenna e trasmetteva musica balcanica da un vecchia villa diroccata sulle colline della Croara, a Bologna. Cercavano gente giovane per fare nuovi programmi. La chiamavano la casa degli spiriti: indizi di messe nere e pratiche religiose proibite spuntavano bruciacchiate tra i ruderi e le erbacce: era la casa di Radio Bologna Notizie.

Una svolta alla mia vita impresse quell’incontro. Tutti i complessi di inferiorità, le debolezze, le ignoranze, i lacrimanti bisogni che avevano contristato il mio passato, ripiegavano nell’ombra. Ero un disc-jockey. Sul palco, sotto l’occhio brillante del riflettore, c’era la mia nuova voce, calda, sensuale anche se un po’ fessa, che metteva in scena una bonarietà sempliciotta, facilona, che faceva l’americana, la spigliata sorridente, ma soprattutto c’era la disco-dance, leggera e spensierata come una frizzante coppa di Champagne, c’era un nuovo ottimismo. Ricevevo letterine di ammiratrici, attestazioni di stima inaspettate, avevo spasimanti bellissime che, altrimenti, non avrei mai saputo conquistare. Ogni giorno si facevano nuove conoscenze, ogni giorno c’era una città da far divertire, da far giocare, da rilassare, da innamorare con la musica giusta e la giusta situazione. Conobbi tanti artisti che diventarono famosi o si dannavano per diventarlo proprio in quegli anni: Gianna Nannini, Vasco Rossi, Umberto Tozzi, Renato Zero; ogni tanto passava da noi Lucio Dalla, e ci divertivamo sempre moltissimo con Giancarlo e Miki, i disc-jokey del Ciak, che mi avevano introdotto nel mondo delle discoteche e mi facevano fare delle serate retribuite.

Dopo Radio Bologna Notizie lavorai a TeleRadio Bologna e a Punto Radio. Mi ubriacai di quel mondo, ne ero come drogato, tra le paludi della identità era affondata una nave ed io ero quel relitto. Quando si è giovani bisogna studiare molto, faticare, aprirsi all’esperienza e superare ogni genere di difficoltà per fortificarsi, per crescere sani e robusti. Io diventavo ogni giorno più fragile, molle, prigioniero di quel fallace successo pubblico, chiuso in un narcisismo vacuo. Mi ero lanciato come Icaro in una impresa empia, quella di fare piazza pulita di tutte le ombre dell’anima, attratto dalla bellezza del Sole, ma ora le mie ali si scioglievano, ora, a terra disteso, bevevo da una fonte velenosa; avevo acquisito una falsa percezione di me stesso che presto sarebbe sbocciata in crisi.

Non grave, ma crisi autentica. A una scuola privata, per puro caso, riuscii a diplomarmi geometra assicurando la commissione esaminatrice che mai e poi mai avrei fatto quel mestiere. Bisognava pensare al futuro. I miei compagni, giudiziosi e determinati, interrogavano i parroci e sceglievano le strade della professione, si fidanzavano con le ragazze che io scartavo in discoteca e prolificavano. Io interrogai una maga e, quando mi disse che il mio futuro sarebbe stato nel cinema, le credetti.

Primo: per fare cinema come lo intendo io bisogna essere colti, avere senso estetico, intelligenza acuta, bisognava saper recitare e scrivere, dirigere attori. Io abitavo agli antipodi: non avevo letto che un paio di romanzi in vita mia, non ero molto intelligente e che avessi un minimo di senso estetico era da dimostrare. Però amavo il cinema. A Ottobre mi iscrissi alla Facoltà di Lettere incurante delle conseguenze che una scelta del genere, se portata a compimento, poteva comportare. Giusta la profezia, volevo diventare un grande regista ma prima bisognava debellare l’ignoranza con solidi studi. Iniziò così un periodo di studio matto e disperato. Avevo lasciato le discoteche e mi ero ritirato in un luogo romito, nutrendomi solo di bacche e latte di capra;  la mia sola ossessione era il cinema, e una fame divorante, onnivora, di sapere, di cultura. Io che sapevo appena la grammatica, quando non leggevo i classici della letteratura frequentavo malinconici cineclub.. Mi piacevano Fellini, Antonioni, Bergman, Visconti, Fassbinder, Moretti: certe volte parlavo con loro di notte in sogno, ma volentieri anche di giorno, da solo, in strada. Verso Febbraio dell’anno successivo chiesi aiuto all’analista.

Dall’analista non persi molto tempo. Era bravo e, invece di ricorrere ai farmaci, mi insegnò il training autogeno, la pratica respiratoria che aiuta a rilassarsi e a ritrovare la concentrazione. Inoltre mi aiutavo con letture di libri di psicologia e, dunque, oltre a quel bravo dottore, va a Carl Gustav Jung il merito di avermi salvato da certe fobie. In quel periodo ebbi anche una storia d’amore che durò più a lungo del solito, con la presentazione ufficiale ai genitori di lei, le visite ai parenti, i regalini..quando vi sposate, quando avrete dei figli..io mi sentivo single nell’anima anche se sapevo amare, provare il fuoco della passione, soffrire. Mi dispiace Patri, ma non so che dire. Gli esami all’Università, pur con la fatica di dover fare ogni volta tutte le cose partendo dall’inizio, procedevano. Avevo fatto la conoscenza di un gruppo di amici molto studiosi e brillanti. Assieme a Paolo, Gabri, Chiara, Giuseppe, Caterina, Andrea, Teresa stavamo bene e andavamo alle conferenze, ai concerti, ai musei, al cinema. Non perdevamo una lezione di Raimondi, il nostro maestro, ma anche di Volpe, Guinzburg, Traina, Eco. L’Università non costruiva solo una professione, ma diventava anche una avventura dell’intelletto,una impresa conoscitiva che dava un possibile senso alla nostra crescita e, in generale, alla nostra vita.

Mi sono laureato in Letteratura Umanistica con l’ottimo Prof. Gian Mario Anselmi discutendo una tesi sulla Cronica di Anonimo Romano, un testo del trecento molto interessante nel quale si narravano, tra l’altro, le imprese di Cola di Rienzo, in una lingua volgare medio - centrale molto vivace e colorita. Ricordo la tesi come la cosa più interessante di quel periodo. Frequentavo le biblioteche d’Italia, scrivevo, facevo ricerche che non erano state tentate prima, insomma cominciavo a mettere all’opera il duro lavoro dell’apprendimento compiuto. Il risultato fu soddisfacente e mi laureai il 25 novembre 1983 con 110/110. Potevo dirmi soddisfatto, congratulare me stesso oltre agli amici che mi hanno aiutato a superare le difficoltà, perché alla partenza del percorso universitario mi ero presentato come un assoluto novellino. Ora sapevo la Grammatica, la Poetica, la Retorica e un claudicante Latino. Subito dopo la tesi ebbi anche la possibilità di collaborare ad una importante pubblicanda Storia del Cinema. Facevo delle schede di autori, compilavo delle bibliografie, andavo al cinema. La vita cominciava a prendere forma.Ma mi chiamarono a fare il servizio militare dopo appena un mese. Avevo ventisei anni. Destinazione Albenga, Centro Addestramento Reclute Bersaglieri.

Il servizio militare così come l’ho fatto non è servito assolutamente a nulla. Mi avessero insegnato la nobile arte della guerra, le armi, le tecniche, le strategie, direi diversamente, ma fatto come si faceva in quel periodo, da soldato semplice, non serviva assolutamente a nulla. Una grave perdita di tempo: marce, vuote giornate a guardare il nulla, nonnismo. Dopo Albenga venni inviato in Friuli a Sequals: peggio che peggio. Qui venni raggiunto dalla notizia della morte di mio nonno, la persona che aveva guidato, accompagnato con amore e affetto tutta la mia infanzia, la mia giovinezza. Provo ancora oggi un groppo allo stomaco mentre lo saluto. Dopo un mese fui trasferito ad una caserma di Bologna dove più agevolmente cercai di organizzarmi. Ebbi modo di conoscere il Generale Marchi, Comandante di Brigata, un grande uomo, che mi diede la possibilità di dedicarmi agli studi e di svolgere una attività più consona al mio curriculum. Mi aiutò anche a lavorare nel giornalismo. Non si è fatto nulla, ma lo ringrazio sentitamente.

Al termine del servizio militare feci qualche articolo per “Il Resto del Carlino”, il quotidiano nazionale, ma sinceramente non mi vedevo nella parte. Il giornale trombetta compiacente, riverente, mieloso non fa per me. Io credo che oggi ci sia il problema dell’informazione e mi piacerebbe offrire il mio contributo, ma le scuole di giornalismo, le redazioni, lo stesso Ordine dei giornalisti sono come fortini asserragliati nel deserto, come ignari di una realtà molto più sorprendente e complessa di quanto loro siano in grado di raccontare. Certo il controllo dell’informazione vuol dire anche potere, la politica, il governo della polis, ma io credo che l’unica città che valga la pena di governare sia quella dell’anima e su questo territorio, se Dio vuole, fino ad oggi non s’è visto nessuno che possa dirsi signore. Anche perché nessuno, per citare un saggio greco, conosce i confini dell’anima, sia quelli che si estendono nello spazio, che quelli nel tempo o chissà quale altra dimensione.

Dato che non mi andava di fare l’insegnante volli provare in Rai. Allora la Rai sosteneva artisti, scrittori, registi, sceneggiatori, era un centro di produzione dove transitavano tante belle teste e tutto ciò poteva servire al mio fine. La televisione mi piace; è fenomenale nel fare realismo, nel raccontare lo sport, è stata la mia balia da bambino. Nella nostra famiglia era sempre accesa e la nonna addirittura teneva una conversazione tutta personale con Emilio Fede. Parlava con lui mentre presentava il telegiornale cosicché non si capiva mai niente. Quando mi presentai all’ingresso della sede locale di Via Alessandrini un corpulento usciere mi fece compilare un modulo e, in tutta confidenza, accennò al fatto che occorreva essere raccomandati, avere padrini politici, altrimenti la pratica sarebbe caduta nel vuoto. Nel vuoto caddi lo stesso, nel vuoto caddi cercando un padrino politico.

Era l’onorevole XXXXX, democristiano, amico di amici, in passato anche consigliere di amministrazione Rai. Mi indirizzò al suo amico capo struttura, socialista, il dottor YYYYY, il quale dopo un breve colloquio mi fece stendere il progetto di alcuni possibili programmi radiofonici. Ne scelse uno sulla vita notturna bolognese. Il titolo si ispirava ad un film di Iosseliani: I Favoriti della Luna: dovevo fare una inchiesta in tredici puntate sulla dolce vita a Bologna. Iniziai a Maggio. Lavorai sodo per un mese. Il programma era carino. Lo conservano le teche. Bello il palcoscenico. Belli gli applausi. La struttura programmi della sede regionale chiuse dopo un mese. A Bologna restava una redazione giornalistica ma non un centro di produzione. Sfiga.

Nei due anni successivi feci il supplente di Italiano e Latino, sognai, scrissi molte cose che non pubblicai e mandai una mia opera, un raccontino giallo di quindici cartelle al Concorso del MystFest di Cattolica, dove si teneva un festival dedicato al genere giallo, al mistero. Non vinsi. Si intitolava La Regina delle Nevi e raccontava di un giovane scrittore narcisista e talentuoso e di un ragazza che non riusciva a smettere di drogarsi. Un po’ di confusione, ma c’era qualcosa di buono e i miei amici lo trovarono non male come prima prova. Provai anche con il teatro.

Era una piccola compagnia di ragazzi diretta da una mia amica. Facemmo delle piccole cose shakespeareane e le presentammo alle Feste Medievali di Brisighella. Teatro in piazza, tra la gente, sulle panche dei banchetti, sui bordi delle fontane. Benino, applausi. Il teatro è un’arte perfetta ed è un peccato che sia tenuto così in discredito nel gusto collettivo italico. Bisogna insegnarlo a scuola, così anche i ragazzi più reticenti bevono la medicina a volte amara della Letteratura. Il teatro è letteratura pura.

In questo periodo feci anche una interessante esperienza di venditore porta a porta per la Vorwerk Folletto, aspirapolvere, scope elettriche etc. Molte porte sbattute in faccia senza ragione, molta rabbia, poco denaro, ma esperienza importante. Bisognava vendere la propria credibilità nei primi venti secondi di contatto con le persone, bisognava mostrarsi la persona giusta al momento giusto in grado di risolvere il loro problema terribilmente importante. Bisognava interpretare una parte e fare un lavoro su di sé del tutto simile a quello di Stanislavskij. Dopo due mesi di recita sempre uguale mi stancai. Vieni, vieni, vieni via con me - una voce mi diceva…andiamo a Roma, cerchiamo una vita migliore…

A Roma non avevo nessuno, non avevo amici, ma mi tuffai nel gran mare senza troppo pensare. Gli unici contatti che avevo erano quelli con Pupi Avati, il regista, al quale avevo mandato il mio raccontino giallo ottenendone un complimento di risposta, ed il capostruttura Rai di Bologna, che era stato trasferito nella capitale e impacchettato in un ufficietto grigio e sordido di Viale Mazzini. Con mia sorpresa mi ricevette, scoprii che mi stimava e mi aiutò a trovare posto alla Radio, Radio Due, ma a partire da settembre; eravamo solo a marzo. Per riempire quel buco frequentai un corso di sceneggiatura diretto da Ugo Pirro presso la celebre libreria dello Spettacolo in via di Monte Brianzo. Un ambiente stimolante, si parlava di cinema, si scriveva, conoscevo della gente finalmente, dopo un lungo e triste vagare tra camerette in affitto e noiose passeggiate solitarie nella foresta urbana. Qui conobbi Gabri, una bella ragazza di Cagliari, fuggita di casa, che, dopo aver fatto tutti i mestieri e girato l’Europa, si era trasferita a Roma. Ci mettemmo assieme e passammo dei bellissimi momenti. Aveva una sensibilità alla vita tutta particolare; non ne ho più incontrate di donne così, capaci di costruire un mondo a partire dal proprio se; quasi tutte fanno il contrario, fanno le concubine in ambienti costruiti da altri. Ciao bella…

A Radio Due lavorai al programma di cronaca “Il Pomeriggio”, un cosiddetto contenitore di notizie varie, di cronache e rubriche che andava sulle onde medie per tre ore il pomeriggio. Al di la dell’ignoranza del capostruttura che lo progettava e della caporedattrice che ne eseguiva i comandi, coi quali purtroppo mi trovai subito in contrasto ( ma, devo ammettere, per presunzione mia ) , era piacevole andare in giro per l’Italia a farsi raccontare fatti ed eventi che sfuggivano all’occhio ciclopico dei grandi mediatori nazionali. Prendevamo le notizie dai giornali locali ed avevamo un occhio di riguardo alle curiosità, ai problemi ambientali, ai fatti di cultura non specialistica. Assieme a Gian Luigi Rondi, che teneva una rubrica di critica cinematografica, mi occupai inoltre di cinema e insomma cominciavo a stendere quei fili per organizzare il futuro che una tempesta, di li a poco, avrebbe distrutto.

Era una domenica del dicembre ’88. Largo di Santa Susanna, vicino alla Fontana dei Tre Fiumi. Attraversai la strada ed un auto, guidata da un ragazzo che aveva preso la patente da appena una settimana, mi investì. Fui sbalzato in alto per una decina di metri oltre un marciapiede  che partisce le due corsie e caddi a terra come un corpo morto cade. Non davo segni di vita. Poi ripresi conoscenza. Il braccio sinistro mi faceva male, era immobile, tutto scavallato. Frattura scomposta all’omero. Il resto, per fortuna, a parte qualche escoriazione, andava bene. Al Policlinico mi consigliarono di ritornarmene a Bologna, all’Istituto Rizzoli, dove mi avrebbero curato bene. Io avevo un biglietto aereo per Bologna prenotato per il giorno successivo, dove avrei dovuto fare un paio di servizi. Passai una notte insonne da Gabri, poi la mattina ritornai a casa. Restai con il braccio immobile due mesi e altro tempo impiegai per le necessarie cure. Proprio mentre stavo iniziando a fare qualcosa veniva una tempesta a scompaginare i miei progetti.

Le difficoltà, se ragiono con la mente oggi, sono il motore della vita, le difficoltà sono occasioni in cui provare la nostra nobiltà, per dirla con Dante. Io, allora, in seguito a quell’incidente, entrai in crisi…ero bravo, facevo dei buoni servizi, scrivevo delle belle cose, ma in Rai ognuno coltiva il proprio orticello e, se vuoi lavorare, devi conoscere le persone che comandano, le quali a loro volta cambiano con il mutare delle condizioni politiche. Non si ragiona con spirito d’azienda. Tante belle persone, intelligenze, si sono perse, è andato perduto il loro talento perché non c’era nessuno che avesse voglia di valutarlo, di farlo crescere…..

Di nuovo a Roma dopo sei mesi, riuscii a trovare un contrattino di programmista-regista presso Radio Uno, in un programma che si chiamava “Saper dovreste” e che trattava di musica lirica. Lunghe giornate strascicate a scaldare scrivanie, a ripetere banalità al telefono, agli amici. Al termine del contratto cercai di trovarne un’altro presso la Rai Corporation di New York. Volevo emigrare, rilanciare la posta in gioco della vita, dare un senso all’esistenza. Volevo fare un corso di regia al prestigioso Film Institute della New York University ma non conclusi nulla, anzi fui blandito inutilmente dai miei stessi protettori che non mantennero le promesse e mi fecero perdere tempo. Che andassero al diavolo…per giunta l’assicurazione che doveva risarcirmi il sinistro fece un ricorso, fece sostenere al mio investitore tante false ragioni ed il processo a distanza di tredici anni dura ancora. Non avendo denaro ed essendomi stufato di una grande città come Roma ritornai a Bologna.

Da un lavoretto all’altro, ma ormai scaltrito su come funzionavano le cose della vita, trovai una strada in politica. L’on. Gian Carlo Tesini, democristiano, era stato fatto Ministro dei Trasporti e della Marina Mercantile nel primo Governo Amato e stava cercando collaboratori. Era un momento difficile per l’Italia perché era scoppiato lo scandalo di tangentopoli che metteva sotto accusa una intera classe politica. Accettai un impiego a tempo determinato presso la segreteria bolognese anche perché lo stesso Ministro mi promise un costruttivo interessamento per un futuro in Rai. Ragionando con Machiavelli adattai i mezzi ai fini e accettai l’incarico turandomi il naso. Il mio senso della verità, verità liberale democratica e dunque sostanzialmente in linea con la politica dell’onorevole, doveva pazientare ancora poco, ma prima o poi, mi illudevo, sarebbe arrivato il suo momento. Mi disposi umilmente a quel servizio di pubbliche relazioni, di chiacchiere e menzogne come un servitore egizio dentro la tomba di un faraone. Quando il governo Amato cadde, nel fuggi fuggi generale, scoprii di essere stato preso in giro un’altra volta.

I governi democratici si reggono sulla retorica, sull’arte della parola, sulla dialettica e anche sulla menzogna….io muto servitore egizio, io bisognoso bimbo bulgaro, mi trovai spaesato. Ma dovevo rispondere alla sorte. Sentivo un confuso impulso a rafforzarmi, dovevo pensare anche a fare denaro, cercare di avviare una attività imprenditoriale, mettere su qualcosa di mio. Feci un corso per Agenti – Rappresentanti alla Camera di Commercio, poi partecipai ad una selezione presso Programma Italia, la società finanziaria del gruppo Fininvest e venni assunto come praticante Promotore Finanziario. Passavo le giornate al telefono cercando di vendere pensioni integrative ed altri prodotti finanziari. Facevo corsi, riunioni, meeting; studiavo per fare l’esame di promotore finanziario. Era un mondo nuovo, per certi versi noioso, per altri entusiasmante. Poi un giorno litigai col mio capo e rassegnai le dimissioni. Aveva ragione lui a dire che dovevo cambiare il mio atteggiamento verso quella attività, dovevo dedicarmi totalmente ad essa. Io del resto pensavo al cinema, alle sceneggiature e comunque, non me lo volevo sentir dire, o meglio non accettavo quel tono insultante da padrone che mi diceva quello che dovevo fare, anche se si trattava di verità. La dignità, l’onore, vogliono il loro credito.

Nello stesso anno tentai un corso in Regione assieme a circa tremila altre persone. C’erano dieci posti di lavoro in palio. Mi classificai entro i primi cento ma giurai a me stesso che in futuro avrei cercato di combattere questo modo sindacale di intendere il lavoro. Il lavoro non può essere considerato una variabile a se stante dell’agire umano, ma va visto come variabile della personalità. La persona umana non può essere oggetto di contrattazione nelle mani di un coglione sindacalista. Viva la libertà, viva la diversità delle persone, le loro debolezze, le loro incredibili qualità… che vanno valutate attentamente e non scannerizzate con quiz imbecilli e di dubbia scientificità. Il lavoro, il fare ci miglioreranno, ma i tempi ed i modi non li stabilirete, non li pianificherete collettivamente voi, diobono.

Rispondendo ad un annuncio sul giornale trovai impiego presso l’Ufficio stampa di una associazione di produttori di GPL, il gas di petrolio liquefatto che di tanto in tanto, si legge sul giornale, fa saltare in aria qualche garage o il serbatoio di qualche automobile. Trascorrevo tutto il tempo a scrivere articoli, comunicati stampa, redigere questionari. Una meraviglia per me iniziare la giornata al computer e terminarla la sera non ancora esausto rovistando tra le parole, provando le idee, sperimentando i concetti, anche se si trattava di un mondo diverso dal  mio. Inoltre c’erano diverse belle ragazze in quell’ufficio, e la cosa non guasta.

Dato che si trattava di un contratto a tempo determinato fui felice quando, ormai al termine, il mio amico Alessandro Cogolo, da Roma,  Rai Tre, mi disse che era riuscito a trovarmene uno presso la redazione di un programma di imminente partenza. Era “Qualcuno mi può giudicare” di Caterina Caselli. Contratto abbastanza breve come programmista – regista ma con la possibilità di scrivere testi. Con tutto il corredo degli scenari possibili infarcivo il futuro. Allettante la prospettiva di ritornare a Roma, di riprovare. In realtà fui impiegato alle pubbliche relazioni, io dico a fare, sia detto con tutto il rispetto, la segretaria. Inoltre mi trovai a disagio con alcune persone che dovevano guidare il team e non sapevano nemmeno controllare se stesse. Il programma è andato male. Costava ottocento milioni circa a puntata, gli autori ed i dirigenti gente da carcerare e io sinceramente mi sono rotto le scatole.

Sempre più in balia dei venti di un destino al quale mi sentivo estraneo, ma al quale mi sottomettevo con pazienza, ritornai a Bologna, a fare il rappresentante e lavorai come agente presso una ditta che produceva Software per commercianti e collegamenti in rete, e per un'altra che vendeva spazi pubblicitari su guide della città. Attività alimentari, per tirare avanti, ma con deboli prospettive per il futuro. Feci domande alle scuole private, mandai in giro o portai personalmente, non so quanti curricola. Ad anno scolastico iniziato l’Istituto Professionale per Odontotecnici “Leone Dehon” mi chiamò a sostituire un professore di Italiano e Storia che se ne era andato. Siamo nel Ottobre 1998. Un sospiro di sollievo.

Insegnare non è facile; è un mestiere pericoloso. Se è vero che il nostro studente preferito è lo studente che siamo stati, la sua proiezione, nella quale anche misuriamo l’efficacia di un relazione didattica, è altrettanto vero che ogni insegnante, se non vuole restare schiacciato, chiuso in questo ruolo, deve sforzarsi di oltrepassare questo castello, per orientarsi verso le infinite varietà dell’umana percezione con spirito dialogante e apertura educativa. L’esperienza al Dehon mi ha insegnato che occorrono tanti stili didattici quanti sono gli studenti e che l’insegnante comunque non può essere un giudice con la spada in mano. Mestiere non facile. Ricco di sfumature. Si guadagna poco. Non male. Oggi l’istituto professionale per odontotecnici ha chiuso. I frati dehoniani hanno intrapreso un altro orientamento e hanno chiuso la nostra scuola. Mi trovavo bene con gli insegnanti, con un Preside di vaglia come Dario De Tomasi. Peccato. Le cose belle non durano: è la lezione di questo mio percorso, no?

Con la chiusura della scuola avvenuta il luglio scorso termina anche questa piccola autobiografia. Tra qualche mese compirò quarantaquattro anni, e, sinceramente non mi riesce di capire cosa farò in futuro. Passo le giornate a dipingere, la mia passione preferita…e fumo sigari toscani incantato dal silenzio mistico di questo ferragosto in città. Se guardo indietro, se ripenso al ritratto che ho dato di me stesso in queste pagine o quello che potrei fare con il pennello ed i colori,  insomma se guardo oggi al passato vedo un uomo in grigio che attraversato la vita nel silenzio, nell’ombra, un uomo con una valigia carica di tante amarezze, malinconie, paure, dubbi, impedimenti. Certo, da qualche angolo del paesaggio vengono luci brillanti, sfavillanti bagliori, momenti di gioia, attimi di felicità, la meraviglia dell’amore, ma nel complesso il quadro che mi riguarda e intinto nei colori bruni dell’ombra, della tristezza. Io credo, giusto il mito, che con la nascita abbiamo perduto il nostro stato di perfezione, che siamo angeli caduti dall’eterno e ancora lunga e faticosa è la strada per la nostra redenzione. Tuttavia, per quanto infelice e gonfio di nostalgia possa essere il percorso varrà sempre la pena di averlo vissuto, di viverlo, di sperimentarne le mutevoli possibilità avventurandosi nel suo labirinto, perché tanto maggiore sarà la ricompensa se non ci sottrarremo al nostro compito e sapremo sciogliere i mille nodi in cui si contorce il nostro bene.  Mi auguro che domani il dolore non ci trovi più come muti suoi alleati.

 

Fine