VIVERE LA SAGGEZZA

 

GLI AFORISMI DI SCHOPENHAUER

 

 MAURO CONTI

 

 

 

Facere docet philosophia, non dicere.

 

Seneca, Ep. 20, 2

 

 

 

Rileggere gli Aforismi di Schopenhauer oggi, a circa cento cinquant’anni dalla loro pubblicazione, quando vennero raccolti all’interno del volume Parerga e Paralipomena, potrebbe risultare pleonastico, inutile o – peggio – una concessione tutt’altro che saggia a una tendenza, a un modus del presente. Di consigli per il bene vivere sono stracolmi gli scaffali della nostra esperienza, così come le pagine dei giornali che ci rubano tempo sui crocicchi polverosi e semaforati della quotidianità. Se tuttavia l’avventurato lettore sarà così tenace da non scoraggiarsi di fronte a una così disancorata proliferazione di suggestioni vaporose e ingombranti, per lui si potrebbe aprire una nuova esperienza, e un nuovo grado della riflessione potrebbe dischiudersi in direzione della saggezza, della prova del vivere saggio.

 

Vivere la saggezza è un progetto che, prima o poi, va concepito nel percorso esistenziale di ogni essere umano, è un sentiero che chiede di essere illuminato accanto a quelli pur legittimi e immaginosi che guidano, a volte languidamente, i pensieri di tutti. Abitare la saggezza significa essere il gesto che illumina i luoghi dolorosi della nostra soggettività, significa identificarsi empaticamente con la sapienza del mondo e con la salute che scaturisce dal contatto.

 

Del resto, considerare la saggezza come una costruzione da compiersi, un percorso da misurare e dunque intendere la filosofia come pratica di vita quotidiana risulta, ad esempio, costantemente nell’opera di un insigne storico della filosofia antica, Pierre Hadot[1]. In generale, si può dire che codesto soggetto rappresenta il tema operativo dominante che sorge con l’apparire della coscienza nell’umano, e non c’è individuo che non ne abbia sentito l’attrazione o non ne abbia ripercorso le problematiche, pure attraverso quelle mediazioni “d’autore” – di esso, com’è noto, si sono occupati tutti i filosofi maggiori – che sono poi passate nella mentalità collettiva.

 

La consuetudine di Arthur Schopenhauer con i temi della meditazione sulla felicità, sulla saggezza del vivere era di lunga data. Già a partire dal 1814 si trovano diverse annotazioni al riguardo[2] e, fra le molteplici carte inedite che rappresentano un lascito decisivo dello scrittore, nonché nel vasto materiale di quaderni, fascicoli e appunti sparsi, vergati in una grafia non sempre comprensibile anche dagli specialisti, siffatta problematica ricorre con una certa insistenza. Insomma, il filosofo del pessimismo, della finitudine umana oscillante tra noia e dolore, riteneva che, comunque, con gli strumenti dell’intelligenza, prezioso dono della Natura, l’uomo potesse di fatto lenire la sofferenza, e così conciliarsi nell’assenza di dolore. «Dal momento che solo l’intuire rende felici – scriveva il filosofo, allora ventiseienne – e tutto il tormento sta nel volere (ma, tuttavia, fino a che il corpo vive è impossibile un totale non volere), la vera saggezza di vita è che si rifletta su quale debba essere la quantità indispensabile di volere, se non si vuole cercare di raggiungere l’ascetismo supremo, che è la morte per fame: tanto più il confine è stretto, tanto più si è veri e liberi; che inoltre si soddisfaccia questo volere limitato, ma oltre a ciò non ci si consenta desiderio alcuno e si passi liberamente la maggior parte del tempo della vita come puro soggetto conoscente»[3]. 

 

La pratica della sapienza e della saggezza dunque consente una sorta di purificazione per l’uomo, lo avvia sulla strada di una liberazione interiore che è una salvezza dal dolore del mondo, il dolore causato dalla volontà. Non sembra esserci altra via d’uscita alla tristezza del pensiero, alla malinconia dell’essere nel mondo che la meditazione, sull’esempio dei grandi uomini di pensiero del passato. Quale significato sia da attribuirsi al termine saggezza è lo stesso Schopenhauer a dichiararlo con la consueta, severa limpidezza di stile: «Vi sono alcuni concetti che assai raramente si trovano in una qualche mente ben chiari e definiti, ma, invece, protraggono la loro esistenza unicamente grazie al nome, il quale, allora, in realtà, indica soltanto il posto di un simile concetto; ma senza questo nome tali concetti andrebbero del tutto perduti. Di questo genere è, per esempio, il concetto di saggezza. Quanto vago è esso in quasi tutte le teste! Si vedano le spiegazioni dei filosofi. Saggezza mi pare voglia significare la perfezione non soltanto teoretica, ma altresì pratica. Io la definirei come la conoscenza compiuta e giusta delle cose in generale e nella loro totalità, che ha talmente compenetrato l’uomo da rivelarsi anche nelle sue azioni, poiché essa guida ovunque il suo operare»[4].

 

Forzando un poco il suo pensiero, si potrebbe dire che la saggezza viene intesa, al modo dei greci, e, per il mondo latino, di Seneca, come virtù generatrice di felicità, una felicità che consiste nel far crescere il daimon, nel dar voce ed ascolto al proprio demone, nell’attendere, nel coincidere con esso e dar corpo all’arte di essere felici, alla pratica della eudemonologia. Certo, Schopenhauer per primo, nella storia filosofica occidentale, avverte la crisi della ragione come rimedio all’angoscia del divenire, o, per dirla con altri termini, misura la distanza che si è aperta tra nomos e phisis[5]. E sosteneva a giusto titolo Giorgio Colli che, in Schopenhauer, «la ragione, anzi, non è che un aspetto del suo più vasto concetto di rappresentazione, e in esso va inclusa»[6]. La ragione umana non è più il riparo contro la sofferenza: ogni vita individuata è sofferenza, guerra, lotta infinita, e il soggetto conoscente è voluto dalla Volontà, è il prodotto della Volontà e, rispetto ad essa, non ha alcuna autonomia. Insomma, l’esperienza nella sua globalità è espressione della Volontà, e il mondo come rappresentazione, l’intera vita, sono fenomeno di una Volontà che eccede la ragione, sta al di là e al di fuori delle spiegazioni razionali. La Volontà non segue alcuna legge, non ha una origine, né orientamento, né fine. La Volontà è un infinito tendere, ed ogni meta che raggiungiamo è, a sua volta, il principio di un nuovo, faticoso cammino. Per l’uomo non c’è mai soddisfazione, e la Volontà è in sé una specie di tendere insoddisfatto, d’inappagato operare che produce soltanto dolore e sofferenza. E viene alla mente la “strage delle illusioni” di leopardiana memoria, quando Schopenhauer afferma, nell’opus magnum, che i nostri desideri «ci illudono sempre, mostrandoci il loro compimento come fine supremo del volere, ma, non appena raggiunti non sembrano più gli stessi, e quindi, subito dimenticati, invecchiati, vengono sempre messi da parte come miraggi svaniti»[7].

 

Rebus sic stantibus, una via d’uscita può ritrovarsi nella negazione in sé della Volontà. Se l’ostacolo, la causa prima del dolore è la Volontà, l’energia prorompente della vita che tutto informa, allora una redenzione non può essere immaginata senza una completa negazione della Volontà. La saggezza di vivere sta nella libera autonegazione della Volontà, nel distacco dal ciclo della vita, nello svelamento di Maja, ossia dell’illusione, della fenomenologia della vita entro cui tutti ci consumiamo, bruciamo, ci struggiamo. A parere del Nostro, siamo deboli fiammelle, pallide ombre, e i nostri godimenti e le nostre gioie si disperdono nel nulla. Ogni cosa, platonicamente, emerge dal nulla e ritorna al nulla, in una sorta di danza ove è la Volontà a scandire il ritmo. Per diventar partecipi della pace di Dio, perché sorga la coscienza migliore che nasce dalla pratica e dall’esercizio dell’arte della felicità, «bisogna che l’uomo, quest’essere caduco, finito, nullo, sia qualcosa di totalmente diverso, che non sia più nient’affatto uomo, ma che divenga consapevole di sé come qualcosa di totalmente diverso. In quanto vive, in quanto è uomo, non è soltanto consegnato al peccato e alla morte, ma anche alla illusione, e quest’illusione è reale quanto la vita, il mondo stesso dei sensi, anzi è tutt’uno con essi (la Maya degli indiani): su di essa si fondano tutti i nostri desideri e brame, che a loro volta non sono che l’espressione della vita come la vita non è che l’espressione dell’illusione. […] Per trovar quiete, felicità, pace, bisogna rinunciare all’illusione, e per far questo bisogna rinunciare alla vita»[8].

 

Rinunzia di Sé, rinunzia del frutto dei propri atti: c’è in Schopenhauer una specie di orrore per l’essenza della Volontà, a cui occorre porre rimedio tuffandosi nel nulla, sì, il nulla del nostro universo, con i soli e le galassie, la vastità degli spazi siderali, in una sorta di estatica contemplazione che ricorda Plotino, ma forse anche Meister Eckhardt: il divino è colto alla fine di tutte le voci, come puro limite di tutte le risonanze, sottrazione, metafisico silenzio che pervade il territorio del nulla.

 

Ma qui entriamo in un ambito teologico forse estraneo a Schopenhauer, anche se è egli stesso a dichiarare, in un frammento del 1858: «Buddha, Eckhardt ed io insegniamo nella sostanza la stessa cosa – Eckhardt entro i vincoli della sua mitologia cristiana. Il Buddhismo contiene i medesimi pensieri, non contaminati da tale mitologia, ed è quindi semplice e chiaro, per quanto una religione possa essere chiara. Io ho raggiunto la chiarezza completa. Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhardt e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo»[9].

 

Non bisogna tuttavia dimenticare che se c’è un pensatore antimetafisico e antiteologico questi è proprio il filosofo di Danzica. E su codesti presupposti Nietzsche fonderà le sue qualità di educatore[10], la sua virilità eroica di pensatore che vuol cessare d’essere giocattolo del divenire, che chiede l’oblio del sé per intraprendere la ricerca del Vero. E in India, nel Brahmanesimo e nel Buddismo, egli aveva trovato quella profonda saggezza del vivere, quell’umana dottrina che né l’Islamismo, né l’Ebraismo avevano potuto soddisfare. In effetti, tutte le religioni mediterranee, così come i fondamenti della sapienza greco-romana, non sono altro – sosteneva – che un mero riflesso di una luce originaria proveniente dall’India[11]. Schopenhauer leggeva le Upanishad nella traduzione latina di Anquetil Duperron, il quale si era basato su un esemplare in persiano che risaliva al 1656. Nonostante la scarsa attendibilità filologica e lessicale dei testi disponibili, egli considerava le Upanishad la consolazione più preziosa della sua vita, ed era solito chinarsi su quei testi dell’antica sapienza indiana ogni sera, prima di coricarsi.

 

Ma in che cosa consiste realmente, secondo Schopenhauer, la Volontà di vita negli uomini? Ogni volere, ogni istanza di vita, ogni istinto che la propaga erompe impetuosamente da una sofferenza, da uno stato di prostrazione: se la vita di ogni uomo è necessariamente un volere, allo stesso tempo è anche una sofferenza. Si potrebbe dire, in termini virgiliani, una cupiditas, una dira lubido: «La pulsione sessuale è di per sé il nocciolo della volontà di vita e, da un punto di vista esterno, per come si dà all’apparenza, è ciò che perpetua e tiene unito il mondo delle apparenze. Se mi si domandasse dove è possibile acquisire la conoscenza più intima dell’essenza interna del mondo, di quella cosa in sé che chiamo volontà di vita, o dove tale essenza diventi cosciente con la massima evidenza, o ancora dove riveli se stessa nel modo più puro, dovrei indicare la voluttà nell’atto della copulazione. Non v’è alcun dubbio»[12]. Oggi è ben noto quanto vasto e profondo sia stato l’influsso di queste posizioni “forti” sulle origini e sugli sviluppi della psicoanalisi freudiana, adleriana e junghiana nonché, più in generale, su una parte oltremodo cospicua della cultura otto-novecentesca.

 

Per quanto riguarda gli Aforismi, bisogna dire che un testo soprattutto appare la fonte ispiratrice, il modello della sua riflessione: l’Oráculo manual y arte de prudencia di Baltasar Gracián. Sin dal 1825, Schopenhauer aveva intrapreso lo studio della lingua spagnola e delle opere dei protagonisti del Siglo de oro: Calderón de la Barca, Lope de Vega e, naturalmente, Miguel de Cervantes; ma è soprattutto il Gracián moralista, col suo pessimismo scevro d’illusioni, a delineare, per lui, un nuovo quadro di riferimento morale. In breve tempo, leggerà l’Oráculo e ne produrrà una traduzione in tedesco, che peraltro stentò lungamente a trovare un editore[13].

 

Secondo Franco Volpi – lo studioso italiano che ha saputo scandagliare in maniera più puntuale e convincente i manoscritti inediti di Schopenhauer conservati nell’omonimo archivio presso la Biblioteca di Francoforte [14] –, fu proprio la lettura del gesuita spagnolo a sollecitare la stesura di quell’eudemonologia geniale che costituisce il fondamento degli Aforismi sulla saggezza della vita: più precisamente, gli aforismi che vediamo qui ordinati, il cui fine precipuo – giova ricordarlo – è quello di spalancare le porte alla serenità, abbattere il pregiudizio che ne ostacola la fruizione, risalirebbero ad un manoscritto In-folio del 1826 ripreso nel ’28, quando la sua frequentazione della cultura iberica dell’età barocca era molto intensa.

 

Certo, a lato dei testi e delle letture, era sempre un’esperienza personale, fatta di amarezze e incomprensioni profondissime, a scatenare la stesura degli appunti rapidi, così come delle pacate riflessioni, che ritroviamo negli Aforismi. A leggerli con attenzione, emerge con rara chiarezza il tema della conoscenza di sé, tipico di una filosofia che aspiri ad essere, in primis, cura dell’anima[15]. Invero, si tratta di esercizi, regole ed esempi che orientano verso una filosofia pratica, che propongono una filosofia concepita come arte di vivere, ma altresì come arte tout court: c’è infatti un’estetica dell’esistenza negli Aforismi e, in fondo, l’arte di essere felici prefigura, nei suoi risvolti squisitamente sapienziali, l’eroismo estetico di certe meditazioni nietzschiane.

 

Ma pare opportuno, a questo punto, offrire una breve biografia intellettuale del nostro autore, specie al fine d’inquadrare a livello storico-culturale il testo che ci apprestiamo a considerare.

 

Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 Febbraio 1788, da Heinrich Floris Schopenhauer e Johanna Henriette Trosiener. Il padre era un facoltoso commerciante e la madre una donna vivace e colta, che ebbe anche una discreta fama in campo letterario come autrice di romanzi. Il nome di Arthur venne scelto dal padre perché suonava uguale nelle principali lingue europee (inglese, francese, tedesco), e fu quasi un auspicio di quel cosmopolitismo che sarà tratto originale del suo pensiero ed anche degli Aforismi.

 

Quando Danzica entrò a far parte dello stato prussiano, anzi della Confederazione tedesca, il padre, che era di idee liberali e mal sopportava il retaggio del dispotismo di matrice fredericiana, si trasferì con la famiglia ad Amburgo, la ricca città-stato sulle rive dell’Elba che da secoli era un importante centro commerciale. Qui la famiglia ebbe modo d’intrattenere relazioni con le personalità più in vista dell’epoca, dal poeta Klopstock al pittore Tishbein e al filosofo Reimarus. All’età di nove anni, Arthur fece un viaggio in Francia con il padre e si stabilì a Le Havre, dove, presso la casa di un corrispondente della famiglia, si fermerà per due anni ed avrà modo di imparare perfettamente il francese, oltre ad esplorare i primi rudimenti di latino. Di ritorno ad Amburgo, il suo curriculum scolastico si orientò verso l’Istituto Runge, una scuola tecnica e commerciale che però non soddisfaceva appieno i suoi interessi.

 

Durante le vacanze estive, assieme alla famiglia nella magnifica città di

Weimar, il giovane Schopenhauer ebbe modo di conoscere Friedrich Schiller: fu un incontro capitale, che avrà grande influenza anche sull’orientamento del suo sistema concettuale. Ma i suoi interessi prettamente umanistici covavano, potentissimi, sotto la cenere, e furono soltanto rimandati. Tra il 1803 e il 1804 viaggiò con la famiglia in Gran Bretagna, Olanda, Belgio, e ancora in Francia. Nel corso di tali soggiorni, ebbe modo di conoscere, fra l’altro, le opere di Shakespeare, Byron, Sterne e Scott, nonché la grande letteratura francese: grazie a siffatte letture, acquisì dunque basi eccellenti per affrontare tutti i fondamenti della cultura europea.

 

Il 1805 fu un anno funesto e cruciale per il giovane Arthur: il padre venne trovato morto. Molte voci sostenevano ch’egli si fosse suicidato e, tra le ragioni possibili, vennero addotte un dissesto di carattere economico e una certa indifferenza da parte della giovane moglie. Difficile trarre dalle carte conclusioni univoche, ma forse la seconda ipotesi potrebbe far luce sulle ragioni di quella grave e talora asperrima incomprensione con la madre che accompagnerà il filosofo per tutta la vita. D’altronde, non bisogna dimenticare che, nel ramo paterno della famiglia, diversi erano stati i casi psicopatologicamente rilevanti.

 

Quando, l’anno successivo, la madre si trasferì a Weimar ove, con fascino ed eleganza, aprì un salotto poi frequentato da molti dei più importanti artisti e intellettuali dell’epoca (fra cui Goethe e i fratelli Schlegel), Arthur, anche a seguito di una promessa solenne fatta al padre, rimase ad Amburgo per curarne gli interessi. Questo periodo, tuttavia, lo trovò diviso tra l’amore per gli studi umanistici, la ricerca filosofica e le preoccupazioni per l’amministrazione del patrimonio di famiglia, che richiedeva non poco impegno e cura. Fu l’amico e storico Fernow ad aiutarlo a sciogliere il dilemma, indirizzandolo verso i classici antichi e lo studio della lingua latina: il periodo dell’apprendimento di quest’ultima si compirà, dopo il trasferimento a Gotha, sotto la guida del celebre latinista Doering.

 

Qualche tempo dopo, però, nauseato dall’ambiente intellettuale della città che, per giunta, riuscirà ad inimicarsi dopo la pubblicazione di alcune satire, Schopenhauer, verso la fine del 1807, si recò a Weimar, ove risiedeva la madre, pur rinunciando a trasferirsi presso di lei. Sotto la guida del grecista Passow, compì intensi studi del greco antico, ma, in questa congiuntura, scoprì pure la cultura italiana, e in particolare il Petrarca, poeta e cultore della sapienza classica che segnerà indelebilmente il suo sviluppo spirituale. All’età di ventun anni, il giovane Schopenhauer ha una brillante vita sociale: frequenta concerti e spettacoli teatrali, e intesse altresì una relazione con Karoline Jagermann, un’attrice cui dedica alcune poesie. Inoltre, riceve una cospicua somma in eredità come parte del lascito paterno.

 

Libero da questioni materiali, il periodo tra il 1809 e il 1811 è nutrito d’intensi studi presso la facoltà di medicina della rinomata Università di Gottinga, ove seguì, fra l’altro, corsi di fisiologia, anatomia, matematica e – con una tensione affatto enciclopedica, un’eclettica aspirazione conoscitiva caratteristica delle migliori menti dell’epoca – anche di fisica, chimica e botanica. Saranno poi l’approfondimento delle discipline storiche, della psicologia e della metafisica a spingerlo a lasciare gli studi di medicina per orientarlo verso la filosofia. Sotto la guida di un maestro di tendenze scettiche come Gottlieb Ernst Schulze, Schopenhauer prese a studiare attentamente le opere di Leibnitz, Wolff, Hume, ma soprattutto di Platone e Kant, le cui idee innervano la totalità dei suoi scritti.

 

Nell’ottobre del 1812 si reca a Berlino per ascoltare le lezioni di Johann Gottlieb Fichte, ma ben presto, nei confronti del fondatore dell’idealismo tedesco, egli sviluppa una vera e propria ostilità, stemperata soltanto dallo studio delle scienze, da quell’amore disinteressato per il sapere e la ricerca empirica che lo porterà ad esplorare anche gli ambiti dell’elettromagnetismo, dell’astronomia e della zoologia. In questo periodo segue pure, con sete intellettuale sorprendente, corsi di archeologia e letteratura greca, nonché di poesia nordica. Un altro termine di confronto e, perché no, scontro, dell’università berlinese è rappresentato dalle lezioni di Friedrich Schleiermacher (oggi considerato uno dei capostipiti dell’ermeneutica), le cui posizioni riguardo alla coincidenza fra religione e filosofia trovano subito ostile il nostro, il quale, perentorio, considera le religioni una sorta di stampella per spiriti fiacchi.

 

Fra gli ultimi mesi del 1813 e la primavera del ’14, mentre infuriano le ultime campagne napoleoniche, Schopenhauer abbandonò Berlino e ritornò a Weimar, ove ebbe modo d’approfondire lo studio di Spinoza, un altro dei filosofi che avranno grande influenza sul suo sistema. Ma in questo periodo spicca la redazione di un testo quanto mai rilevante e decisivo, fra l’altro, per comprendere gli sviluppi della filosofia schopenhaueriana: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, un trattato ch’egli spedirà all’Università di Jena e col quale, in absentia, otterrà la laurea in filosofia.

 

Cos’è il principio di ragion sufficiente? È quello che ci fa domandare il perché, gli effetti e le conseguenze delle cose. Nulla è senza una ragion d’essere e gli oggetti, le cose, a seconda del loro rapporto con il soggetto con cui entrano in relazione, hanno rappresentazioni diverse. Il rapporto soggetto-oggetto ha – secondo il Nostro – quattro diverse modalità rappresentative, cioè ha quattro relazioni a priori necessarie: 1. principium rationis sufficientis fiendi, cioè il principio che si manifesta nel divenire e nelle cose naturali come causa; 2. principium rationis sufficientis cognoscendi, che si manifesta nel conoscere e regola i rapporti logici fra le premesse e le conclusioni nelle conoscenze di tipo razionale; 3. principium rationis sufficientis essendi, cioè quello che pertiene ai rapporti spaziali e temporali, alle concatenazioni degli enti aritmetici e geometrici; 4. principium rationis sufficientis agendi, ovvero quello delle azioni viste dalla parte del soggetto, intese come motivi, stimoli, eccitazioni, e che sono riferibili alla necessità morale.

 

Tali sono le determinazioni del mondo della rappresentazione secondo il principio di ragione di Schopenhauer, ma in esse non si esaurisce – come abbiamo detto – il mondo, perché al di sotto di questa griglia epistemica c’è pur sempre la volontà, ch’è il fondamento della rappresentazione, il velo sussurrante della cecità umana.

 

Della fine del ’14 è l’incontro a Weimar con Goethe, quando il grande homme de lettres – “eletto dagli dei”, come lo definirà in diverse occasioni – aveva già superato i sessant’anni. Dopo un primo momento di diffidenza, l’amicizia fra i due divenne molto stretta. All’autore del Faust, il Nostro sarà profondamente legato nel corso di tutta la sua esistenza, e lo richiamerà di continuo nelle sue opere con citazioni, considerazioni e appunti, approfondendone la Teoria dei colori in chiave antinewtoniana e commisurandone la già vasta produzione sulla sinopia del proprio pensiero. Per un’esatta comprensione di Schopenhauer, è bene poi non sottovalutare, come accennato, l’incontro con l’orientalista Majer – sollecitato proprio dall’amicizia con Goethe e dal singolare ambito intellettuale che Weimar in quel momento rappresentava – e con le Upanishad Vediche.

 

Sarà un periodo fecondissimo di lavoro quello che va dal 1814 al 1818. Trasferitosi a Dresda, legge i grandi autori latini (a cominciare da Seneca, Virgilio, Orazio), e poi Machiavelli e Giordano Bruno, insieme con i classici della filosofia: Aristotele, Bacone, Hobbes, Locke e Hume, senza mai trascurare, peraltro, Platone e Kant. Il suo interesse per la fisiologia e l’ottica lo porterà a pubblicare, nel 1816, un trattato Sulla vista e sui colori, ove spiega come, muovendo dai dati che ci forniscono i sensi, l’intelletto produce l’intuizione. Ma se, da una parte, sono i sensi il luogo in cui si produce la sensibilità, è nell’intelletto che risiede la conoscenza vera e propria, la percezione dei colori come esperienza antecedente ad ogni riflessione.

 

L’evento memorabile di questo periodo è la stesura e la pubblicazione, per l’editore Brockhaus di Lipsia, de Il mondo come volontà e rappresentazione, nel dicembre del 1818. Schopenhauer la considererà sempre la sua opera principale, anche se altri scritti non si possono considerare secondari per importanza speculativa. «Il Mondo è una mia rappresentazione», sostiene, e la rappresentazione nell’atto del conoscere è un rapporto tra soggetto e oggetto, che esprime la forma di ogni esperienza possibile e immaginabile. Solamente all’interno della rappresentazione si danno le forme dello spazio, del tempo, della causalità, e in essa l’oggetto esiste per il soggetto solo in base all’azione che esso esercita nello spazio e nel tempo. Fondamento della rappresentazione è la Volontà, a cui è dedicato il secondo libro del Mondo, e la conoscenza della Volontà per il soggetto avviene attraverso il corpo «come qualcosa di immediato». C’è un volere e un’azione del corpo conseguente; ma la Volontà che si oggettiva nella rappresentazione resta comunque unica e irrazionale, ed è affatto svincolata dalle determinazioni del principium individuationis che abbiamo nella rappresentazione, cioè nelle determinazioni di spazio, tempo e causalità. La Volontà espressa nei singoli esseri è causa di una contrapposizione incessante, di una lotta perenne di egoismi che lacera il mondo.

 

Quantunque tutt’altro che definitiva, via d’uscita efficace da questo corso tragico è indubbiamente l’arte: in essa, come indicato specie nel terzo libro del capolavoro, avviene la liberazione, seppur parziale, dalla Volontà. Nell’arte contempliamo le idee universali in quanto essenze, e siamo così sottratti alla lotta che domina il mondo. Nell’arte c’è un’astrazione dalle cose particolari e il soggetto viene a identificarsi con le idee, abbandonando il proprio abito individuale per divenire pura conoscenza. La musica sola peraltro esprime, ben al di sopra di ogni altra arte, la conoscenza pura della Volontà.

 

Ma la vera, l’unica liberazione permanente dalle sofferenze cagionate dalla Volontà, l’affrancamento assoluto dal rincorrersi negativo dei bisogni e dei desideri, si consegue esclusivamente nell’ambito dell’etica. Giustizia ed autentica compassione (l’essenza dell’agape cristiana) sono senz’altro in grado di aprirci una strada imprescindibile di liberazione, ma soltanto nell’ascesi ci è dato esprimere la noluntas, il rifiuto della volontà di vivere, il radicale distacco rispetto all’essenza di un mondo tracimante di dolore. Ciò si raggiunge mediante l’esercizio di castità, rassegnazione, povertà, sacrificio, digiuno: siamo dinanzi ad approdi etico-spirituali di portata universale e di fascino raro, che avranno, come s’è detto, un impatto notevole su tanta cultura di fine Ottocento e su tutto il Novecento. Ma i tempi del successo intellettuale non erano ancor maturi per il nostro trentenne di genio: il testo passò inosservato e restò quasi invenduto, tanto che parte delle copie venne inviata al macero.

 

Il mancato interesse del pubblico verso l’opera non precluse comunque a Schopenhauer quelle aperture all’esperienza proprie del suo rango sociale. In effetti, al termine dell’estate del 1818, sulle orme del grand tour caro agli aristocratici e a tutti i giovani delle classi agiate, e dopo un breve soggiorno a Vienna, si trasferì in Italia, a Venezia precisamente. Qui ebbe un’appassionata relazione con una nobildonna veneziana di nome Teresa Fuga, che lascerà traccia di sé anche nelle “confessioni” del periodo senile. In città, inoltre, si trovava allora Lord Byron, per il quale egli nutriva una profonda ammirazione, tanto che, in vista di un appuntamento con lui, si era procurato una lettera di presentazione di Goethe. L’atteso incontro purtroppo non avvenne e il viaggio del filosofo proseguì verso Bologna, Firenze, Roma, Napoli, senza particolari tracce di frequentazioni di spicco.

 

In Italia approfondì la conoscenza della nostra lingua e s’interessò ai monumenti della nostra letteratura leggendo in originale Dante, Boccaccio, Ariosto, Tasso e, naturalmente, il prediletto Petrarca, verso il quale nutriva una particolare ammirazione. L’Italienische Reise venne interrotta bruscamente nel giugno del ’19 da una lettera della sorella che gli annunciava il fallimento della Banca Muhl di Danzica, presso la quale era impegnata parte del capitale suo e della famiglia. Il rifiuto di accordarsi con i curatori fallimentari – con cui, peraltro, avrebbe potuto trovare una mediazione virtuosa onde limitare il danno subito – lo costrinse per un paio di anni a qualche ristrettezza economica, che cercò di superare dedicandosi all’insegnamento universitario.

 

Nella primavera del 1820, ottenne la libera docenza presso l’Università di Berlino ma, con quella tagliente perentorietà che già gli aveva procurato tante inimicizie negli anni precedenti, volle fissare gli orari delle sue lezioni in concomitanza con quelli dell’odiatissimo Hegel. La scelta, fin dai primi mesi d’insegnamento, specialmente a motivo della rinomanza e della forza propositiva del filosofo di Stoccarda, gli procurò un esiguo numero di accoliti fedeli, che finì poi per assottigliarsi ulteriormente col passare del tempo.

 

Nei primi due anni del soggiorno berlinese, Schopenhauer ebbe una relazione sentimentale assai contrastata con la cantante Caroline Richter, detta Medon, corista del Teatro dell’Opera, relazione che si concluderà qualche anno più avanti; fu quindi vittima di uno spiacevole episodio, che ebbe fastidiose conseguenze giudiziarie. Infastidito dai rumori che una vicina di casa, la signora Marquet, faceva in continuazione davanti alla sua abitazione egli, in un accesso d’ira, la spinse violentemente e la gettò a terra. Assolto in prima istanza dal tribunale, in appello venne invece condannato a corrispondere alla donna un’indennità, che le dovette versare fino alla morte.

 

Questi fatti sgradevoli, avvenuti in un periodo tutto sommato alquanto amaro, non gli impedirono, tuttavia, la ripresa dei viaggi e, in particolare, un ritorno in quell’Italia che aveva lasciato precipitosamente nel ’19. Nell’agosto del ’22 lo troviamo a Milano, ma il viaggio proseguì per Venezia e per Firenze, ove rimase a lungo, e a Roma. Al ritorno in Germania, nel ’23, le sue condizioni di salute non erano buone. Si fermò a Dresda per curarsi e, frattanto, si appassionò alla lettura di autori come La Rochefoucauld e Chamfort, ma anche Hume e Giordano Bruno, che progettava di tradurre.

 

Durante il biennio 1825-27, il filosofo ritornò a Berlino, ove ebbe modo di conoscere Alexander von Humboldt, e d’imparare quella lingua spagnola che sarebbe poi stata veicolo di tante magnifiche scoperte intellettuali: alludiamo non solo alla pur fondamentale opera cervantina, ma anche agli altri autori del Siglo de oro sopracitati e, più d’ogni altro, all’aureo, determinante Gracián dell’Oráculo manual y arte de prudencia. L’influenza di questo testo sui “nostri” Aforismi è evidente, pressoché palese. Pare appena il caso di aggiungere che, forse prevenuto dall’insuccesso del Mondo, l’editore Brockhaus rifiutò di stampare la traduzione, che sarebbe uscita soltanto postuma.

 

L’ostilità dell’ambiente universitario, in cui dominavano posizioni hegeliane, scoraggiarono non poco i progetti e le iniziative del nostro autore, sempre più emarginato rispetto alla società intellettuale dell’epoca. In seguito alla scoppio di una epidemia di colera avvenuta a Berlino nell’agosto del 1831, Schopenhauer si rifugiò a Francoforte sul Meno, città nella quale, se si esclude un soggiorno a Mannheim fino alla prima metà del 1833, si stabilirà definitivamente, e che non abbandonerà fino al morte. La vitalità intellettuale che lo contraddistingueva si espresse, in questo periodo, in ricerche sulla filosofia cinese, la letteratura mistica e il magnetismo di cui, peraltro, si trova traccia nel bello scritto apparso nei Parerga. In generale, egli considera verità possibile le manifestazioni relative al magnetismo, alla magia, alla chiaroveggenza dei sogni premonitori, al sonnambulismo e alle visioni degli spiriti: sono infatti da lui definiti metafisica pratica, in quanto si basano sull’onnipotenza, sull’onnipresenza della Volontà. E’ l’inconscio, o meglio la Volontà inconscia ad operare magicamente al di là dei limiti imposti dall’intelletto cosciente, dal principium individuationis, oltre le forme di spazio, tempo e causalità.

 

Il biennio che va dal 1834 al ’36 vede Schopenhauer all’opera su un testo che rappresenta, come recita il sottotitolo, «un’esposizione delle conferme che la filosofia dell’Autore ha ricevuto da parte delle scienze empiriche, dal tempo in cui è comparsa», vale a dire il trattato Sulla volontà nella natura. In esso si ritrovano i suoi studi di medicina, linguistica, astronomia, magnetismo e sinologia, visti alla luce della Volontà, appunto, di questa forza in virtù della quale ogni cosa può esistere e operare. Era stato necessario un silenzio di diciassette anni per ottenere quelle conferme alle sue teorie che voleva dalle scienze empiriche: il tempo della resa dei conti è venuto, amava dire contro i vecchi avversari. La vita francofortese non era aliena da prese di posizione polemiche e originali: egli sosteneva, ad esempio, che la prima edizione della Critica della ragion pura (1781) di Kant fosse migliore rispetto alla successiva (1787), o che si sarebbe dovuto erigere in onore del grande Goethe almeno un busto marmoreo, nella città che gli aveva dato i natali. Nell’anno 1839, venne premiato dalla Reale Società delle Scienze di Norvegia per il suo saggio Sulla libertà del volere umano, e tale riconoscimento può essere considerato il primo segno pubblico e ufficiale dell’interesse per le sue idee, quantunque lo scritto non apporti, a dirla giusta, novità di rilievo all’impalcatura del suo pensiero. Il 17 aprile dello stesso anno, a Jena, muore la madre Johanna.

 

Del 1841 è il volume apparso sotto il titolo I due problemi fondamentali dell’etica, che raccoglie il precedente saggio premiato in Norvegia e un altro intitolato Il fondamento della morale[16], inviato a un concorso indetto dalla Reale Società delle Scienze di Danimarca. Qui l’autore si propose d’illustrare i punti fondamentali della propria riflessione etica, sia servendosi dei materiali ch’era venuto raccogliendo a commento della sua opera maggiore, sia rifondendovi le riflessioni sulla dialettica fra necessità e libertà presenti nello scritto norvegese. Il testo gli consentì di rivolgersi a un pubblico più vasto, nonché di far conoscere i motivi peculiari della propria filosofia alle correnti dominanti della cultura tedesca, che spesso tuttavia si trovavano su posizioni antitetiche. All’ottimismo razionalistico dello storicismo hegeliano egli oppose le dottrine radicalmente pessimistiche de Il mondo, e alle ideologie liberali e ottimistiche, al mito di un progresso infinito e inarrestabile oppose la tragica, feroce concezione di un mondo naturale e sociale signoreggiato da crudeltà ed egoismo. C’era poi, nella letteratura del tempo, specie riguardo ai problemi della morale, un atteggiamento edificante, predicatorio, da sermone insomma, traboccante di pie intenzioni ideologiche, teologiche, o, all’opposto, di fumosi misticismi estetizzanti, che andava, a parer suo, colpito criticamente. Fine primario dello scritto, dice lo stesso autore, era «l’esposizione puramente filosofica – cioè oggettiva, non velata, nuda, indipendente da ogni intenzione positiva, da ogni non dimostrata premessa e quindi da ogni ipostasi metafisica o anche mistica – dell’ultimo fondamento di ogni morale». C’è un’attualità di questo scritto, che è sempre bene riconsiderare e che, non per caso, sarà ripresa da un filosofo a noi assai vicino come Horkheimer. Al solito, il parere della critica non gli fu favorevole: l’accusa era quella di voler sostituire alle morali teologiche un’etica non meno teologica, e di dare una forma, un’idea immobile dell’esperienza religiosa.

 

Che il pensiero di Schopenhauer risenta di una sorta di congiura del silenzio lo rivela un’opera di Friedrich Dorguth dal titolo La falsa radice dell’ideal realismo. Qui la triade formata da Fichte, Schelling ed Hegel viene definita una congrega di cialtroni: comunque stiano le cose, resta il fatto che la spregiudicata, folgorante acutezza dell’atteggiamento critico schopenhaueriano la possiamo verificare ancor oggi…

 

In questo periodo, poi, conobbe Julius Frauenstädt, il fedelissimo fra i suoi allievi, o l’arciapostolo, come viene definito, al quale il filosofo lascerà una cospicua eredità di propri inediti[17]. Il seme del dubbio gettato nel campo dei sistemi filosofici dominanti indusse forse, nel 1844, l’editore Brockhaus ad approntare una seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione. Essa conteneva l’aggiunta di cinquanta capitoli denominati Supplementi, ai quali Schopenhauer lavorava ormai da una decina d’anni. Pure in questo frangente il libro non vendette e venne recepito superficialmente. Nel 1847 uscì poi la seconda edizione del trattato Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente.

 

 I moti rivoluzionari del settembre del 1848 a Francoforte turbarono profondamente il Nostro: temeva che le masse in rivolta potessero prendere il potere, e addirittura offrì il proprio alloggio come baluardo militare all’esercito regio, schierato a sedare le scaramucce scoppiate lungo le strade della città. Sul piano personale, abbiamo l’incontro con un altro dei suoi discepoli prediletti: Adam Ludwig von Doβ; l’anno successivo, invece, muore l’amata sorella Louise Adelaide .

 

Era il novembre 1851 quando vide la luce un’opera alla quale Schopenhauer lavorava già da sei anni: i Parerga e Paralipomena – che potremmo tradurre con “digressioni e integrazioni” –, una raccolta di saggi che ebbe successo sia in patria sia all’estero, e che contribuirà notevolmente all’affermazione del filosofo. All’interno del testo, dotato di una sua autonomia e compiutezza speculativa nonostante l’artificio retorico del titolo, apparvero anche gli Aforismi sulla saggezza del vivere che qui presentiamo. Sull’onda dell’interesse per quest’opera, nel ’54, verrà ristampata una seconda edizione de La volontà della natura. Di questo periodo è il sodalizio con il romanziere Wilhelm Gwinner, che sarà il suo primo biografo ed anche, in quanto avvocato, suo esecutore testamentario.

 

Nel 1858 Schopenhauer aveva settant’anni e una schiera di amici e discepoli intorno a sé. Pur amando, in ambito musicale, Rossini, Mozart e Beethoven, ammirò Wagner, che gli inviò il libretto de L’anello del Nibelungo, e frequentò Martin Emder, Otto Linder, lo scrittore David Asher e il pittore Johann Karl Bähr. Intanto, la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione andava rapidamente esaurita in libreria, ed egli trascorreva il suo tempo lavorando molto e leggendo. Il suo regime di vita, alquanto ritirato, comprendeva lunghe passeggiate igieniche in compagnia del fedele cane Atma, parola che significa “Anima” nella filosofia indù. È da collocarsi sempre in questo periodo la lettura delle Operette morali e dei Pensieri di Leopardi, da cui ricavò molto diletto. Va notato tuttavia che considerava l’italiano dell’epoca una lingua affettata e cerimoniosa. Inoltre, s’interessava non senza trasporto delle vicende che avrebbero portato alla formazione dell’Italia unita. Con regolarità quotidiana, era solito prendere i suoi pasti al “Englischer Hof” e leggere giornali stranieri come il Times, nonché riviste scientifiche e letterarie. L’anno successivo, una giovane e bella scultrice di nome Elisabeth Ney si presentò alla sua porta e gli propose la realizzazione di un busto. Vinte le resistenze, il vecchio filosofo si sottopose ad estenuanti sedute.

 

A partire dall’aprile 1860, cominciarono a manifestarsi alcuni non lievi problemi di salute, come difficoltà respiratorie e tachicardia, che lo porteranno ad ammalarsi in modo irreversibile. Durante l’estate, le sue condizioni peggiorarono e il 21 settembre, a seguito di un accesso di polmonite, Arthur Schopenhauer si spense con stoica dignità. Venne seppellito nel cimitero di Francoforte, alla presenza di pochi fedelissimi.

 

Se si passano in rassegna le molte testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto, Schopenhauer potrebbe apparire un pazzo bello e buono, un carattere dannatamente intrattabile, sempre pronto alla polemica, all’offesa, alla violenza verbale: in effetti, non perdeva occasione per gettare giudizi irriguardosi contro tutto e tutti… Nondimeno, al di là di questi umori mefistofelici, sapeva anche essere spiritoso, arguto, sensibile, tenero. Aveva molta stima degli inglesi e, in certi momenti, si vergognava d’essere tedesco.

 

Passeggiando con un amico, pare che il Nostro abbia detto una volta: «La maggior parte dei libri saranno dimenticati. Impressione duratura la fanno solo quelli in cui l’autore ha messo tutto se stesso. In tutte le grandi opere si ritrova l’autore tutto intero. Nella mia opera ci sono tutto intero io stesso. Bisogna assolutamente farsi martire della propria causa, come ho fatto io»[18]. Ecco, forse proprio in questa convergenza fra il particolare della sua vita e l’universale della sua originalissima poiesi risiede il genio di Schopenhauer, il suo valore assoluto. Certo, la storia non è finita e ancora non possiamo legittimamente pronunciarci sulla Verità, ma il sacrificio di sé che ci suggeriscono, pur con sapiente misura, anche questi Aforismi appare davvero quel terreno solido, o quell’oceano sconfinato, su cui da millenni, tra l’altro, s’incontrano e si scontrano Oriente e Occidente, mirando a un riconoscimento reciproco.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

1. Opere di Schopenhauer pubblicate in vita

 

Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (titolo originale: Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde), 1813.

 

Sulla vista e i colori (titolo originale: Über das Sehen und die Farben), 1816.

 

Il mondo come volontà e come rappresentazione (titolo originale: Die Welt als Wille und Vorstellung), 1818-1819; secondo volume, 1844.

 

Sul volere nella natura (titolo originale: Über den Willen in der Natur), 1836.

 

Sulla libertà del volere umano (titolo originale: Über die Freiheit des menschlichen Willens), 1839.

 

Sul fondamento della morale (titolo originale: Über die Grundlage der Moral), 1840.

 

Parerga e paralipomena (titolo originale: Parerga und Paralipomena), 1851.

 

 

 

2. Opere di Schopenhauer in traduzione italiana:

 

Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969.

 

Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano, 1981.   

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione, A. Mondadori, Milano, 1989.

 

 L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano, 1991.

 

 La filosofia delle università, Adelphi, Milano, 1992.

 

 Aforismi per una vita saggia, BUR, Milano, 1993.

 

 Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Adelphi, Milano, 1993.

 

 La saggezza della vita, Newton Compton, Roma, 1994.

 

 Colloqui, BUR, Milano, 1995.

 

 Scritti postumi. Vol. 1: I manoscritti giovanili (1804-1818), Adelphi, Milano, 1996.

 

 L’arte di essere felici, Adelphi, Milano,1997.

 

 L’arte di farsi rispettare, Adelphi, Milano, 1998.

 

 L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 1999.

 

 Sulla quadruplice radice del principio ragionato, BUR, Milano, 2000.

 

O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, BUR, Milano, 2000.

 

La volontà della natura, Laterza, Roma-Bari, 2000.

 

L’arte di trattare le donne, Adelphi, Milano, 2000.

 

 Il primato della volontà, Adelphi Milano, 2002.

 

 L’arte di conoscere se stessi, Adelphi, Milano, 2003.

 

 Scritti postumi. Vol. 3: I manoscritti berlinesi (1818-1830), Adelphi, Milano, 2004.

 

Il fondamento della morale, Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

L’arte di invecchiare ovvero Senilia, Adelphi, Milano, 2006.

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari, 2006.

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione. Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano, 2006.

 

 Il mio oriente, Adelphi, Milano, 2007.

 

 

 

3. Studi in volume su Schopenhauer disponibili in lingua italiana

 

A. Bellingreri, La metafisica tragica di Schopenhauer, Franco Angeli, Milano, 1992.

 

F. Bolognesi, La vera dottrina dell’amore di Schopenhauer, Ubaldini, Roma, 1969.

 

L. Casini, Schopenhauer. Il silenzio del sacro, EMP, Milano, 2004.

 

F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi e altri saggi leopardiani, Ibis, Como-Pavia, 1992

 

A. Hübscher, Arthur Schopenhauer: un filosofo controcorrente, Mursia, Milano, 1990.

 

G. Gurisatti, Schopenhauer, maestro di saggezza, Colla, Vicenza, 2007.

 

G. Invernizzi, Invito al pensiero di Schopenhauer, Mursia, Milano, 1995.

 

P. Martinetti, Schopenhauer, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2005.

 

F. Mei, Etica e politica in Schopenhauer, Cedam, Padova, 1958.

 

F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore (1874), a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano, 1985.

 

G. Penzo (a cura di), Schopenhauer e il sacro, EDB, Bologna, 1987.

 

G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’occidente, Mursia, Milano, 1969.

 

R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia, Longanesi, Milano, 2004.

 

E. Sans, Schopenhauer, Xenia, Milano, 1999.

 

F. Savater, Filosofia come accademia. Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, de Unamuno, Il Nuovo Melangolo, Genova,1984.

 

I. Vecchiotti, La dottrina di Schopenhauer, Marzorati, Milano 1966.

 

Id., Introduzione a Schopenhauer, Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

A. Verrecchia, Schopenhauer e la Vispa Teresa. L’Italia, le donne, le avventure, Donzelli, Roma, 2006.

 

A. Vigorelli, Il riso e il pianto. Introduzione a Schopenhauer, Guerini e Associati, Milano,1998.

 

P. Vincieri, Discordia e destino in Schopenhauer, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1998.

 

 

 

[1] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1988, ma anche, dello stesso autore, Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, Torino, 1998, e La filosofia come modo di vivere, Aragno, Torino, 2005.

 

[2] Cfr. Arthur Schopenhauer,Scritti postumi. Vol. 1: I manoscritti giovanili (1804-1818), a cura di S. Barbera, Adelphi, Milano, 1996.

 

[3] Ivi, p. 168.

 

[4] Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, a cura di Mario Carpitella, Adelphi, Milano, 2003, vol. 2, Osservazioni psicologiche, p. 813.

 

[5] Possiamo tradurre genericamente queste parole chiave, rispettivamente, con Legge e Natura.

 

[6] Giorgio Colli, Prefazione a Parerga e Paralipomena, cit., vol. 1, p. 9.

 

[7] Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1969 p. 202

 

[8] Ibidem p.77

 

[9] Arthur Schopenhauer, Il mio oriente, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2007, p. 28.

 

[10] Cfr. Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano, 1972.

 

[11] Molto interessante nel volume citato sopra, che raccoglie gli scritti sull’Oriente di Schopenhauer, è dare un’occhiata all’elenco dei testi di argomento orientale presenti nella sua biblioteca, che fu stilato alla sua morte. Anche se tale catalogo non esaurisce le letture effettivamente svolte, siamo comunque di fronte a un novero di scritti consistente, che delinea la vastità dei suoi interessi in questo campo.

 

[12] Il mio oriente, cit. p. 30.

 

[13] L’accordo preso con l’editore Fleischer, forse a causa delle condizioni poste dal nostro filosofo, fallì, e la traduzione tedesca dell’opera fu edita postuma per la cura dell’allievo Frauenstädt, presso l’editore Brockhaus di Lipsia, nel 1862.

 

[14] Si veda, in particolare, l’introduzione ad Arthur Schopenhauer, L’arte di essere felici, Milano, Adelphi, 1997, p. 20, e, in generale, la meritoria edizione degli inediti avviata dalla Adelphi.

 

[15] Cfr. Pierre Courcelle, Conosci te stesso. Da Socrate a San Bernardo, Presentazione di Giovanni Reale, Vita e pensiero, Milano, 2001.

 

[16] Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale. Introduzione di Cesare Vasoli. Traduzione di Ervinio Pocar. Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

[17] La migliore edizione degli scritti postumi di Schopenhauer è quella a cura di Arthur Hübscher: Der handschriftlische Nachlaβ, 5 voll. in 6 tomi, Kramer, Frankfurt a. M., 1966-1975. L’edizione italiana di riferimento è quella diretta da Franco Volpi: Scritti postumi, Adelphi, Milano, 1996-

 

[18] Arthur Schopenhauer, Colloqui, cit., p. 190.

 

 

 

 

 

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