OLOCAUSTO DEGLI INDIANI D’AMERICA

 

 

 

 

 

MAURO CONTI

 

 

 

La storia del genocidio dei nativi d’America non è facile da indagare: ogni prospettiva critica, infatti, che desideri analizzare e approfondire questo tema storiografico (ma sarebbe meglio dire disastro dell’umanità), si trova di fronte ad un guazzabuglio di interpretazioni in cui non è sempre facile procedere col lume scientifico e pacato dell’inchiesta razionale, tanto, ancora oggi, essa appare avviluppata in rancori, in ostinati silenzi, disperazione e comportamenti frustrati.

Il cinema e la letteratura hanno cercato, in vari modi, di rimediare al senso di colpa sorto, se non nei confronti dei singoli individui, cui – forse e unicamente – andava chiesto perdono, almeno nei confronti della mentalità collettiva dopo la conclusione delle cosiddette guerre indiane. Delle stragi, che stiamo per rievocare, stupisce come, ancora oggi, non ci si riesca a liberare del passato, da una storia di orrore e morte sparsa a piene mani in nome di un’idea, l’idea della superiorità dell’uomo bianco, l’idea di un particolare rapporto con la natura, l’etica del capitale.

Certo, si dirà, ricordare non è mai un esercizio innocente e fare storia significa sempre introdurre qualcosa di nuovo in un passato che altrimenti si annulla nelle vacuità mute del tempo; per giunta, nel caso degli indiani d’America, ogni questione pare vibrare ancora nella polemica razziale, in una sopita ma pur vivente polemica razziale, senza poter accedere a quell’epilogo catartico che nel teatro greco solitamente chiudeva la scena drammatica.

Quei padri pellegrini che, all’inizio del secolo XVII, attraccarono alle coste nord americane in fuga da una Europa dilaniata dalla crisi economica e dalle lotte religiose, per quanto pochi e disperati fossero gli individui imbarcati sul Mayflowers, una certa idea di superiorità razziale dovevano avercela[1]. Essa si era, forse, originata dai resoconti[2] delle spedizioni seguite alla traversata di Colombo, ma anche sul retaggio – è il caso di dire inciso nella memoria – d’una cultura eurocentrica, cui avevano concorso quasi due millenni di speculazioni e sottili distinzioni filosofiche sulle caratteristiche e sulle prerogative dell’umano[3].

Questo era, probabilmente, per dirla in breve, il quesito che si ponevano: i pellerossa[4] erano da considerarsi esseri umani? Su questo punto, Aristotele, la cui influenza sulla cultura cinquecentesca non possiamo ora trascurare, aveva sostenuto nel De Anima che l’anima si manifesta a tre livelli, che sono altrettanti principi di vita: il vegetativo, che si riferisce alla nascita, alla nutrizione e alla crescita; il sensitivo, che occupa il livello della sensazione e del movimento, e l’intellettivo, che pertiene alla conoscenza e alla decisione. Tipica degli uomini è la funzione intellettiva. Aristotele distingueva, poi, tra intelletto potenziale, perché diventa tutte le cose, e intelletto attivo, perché produce tutte le cose. Grazie a quest’ultimo l’uomo è in grado di conoscere e di trasformare in concetti le forme universali contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia.

Era, dunque, di quest’ultimo tratto intellettuale attivo che parevano esser privi gli indiani d’America: l’anima di questi ‘bruti’, oggetto di interesse per tanta pubblicistica[5], soggiaceva a livelli inferiori, ed è incapace di emanciparsi. Pare proprio che il tema della inferiorità razziale sia il prescelto, lungo la storia umana, a giustificare la pratica dello sterminio. Non sono forse state dette le stesse cose degli ebrei a partire dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme lungo tutto l’evo cristiano? Nell’America dei colonizzatori diretti ad ovest e affamati di terra e di oro luccicante si diceva: «L’unico indiano buono è quello morto», e, in effetti, da una popolazione stimata al momento della traversata colombiana di circa un milione di nativi, si ritiene che circa solo 350.000 sopravvissero alla fine dell’ottocento.

In via preliminare al nostro discorso, anche per avere una visione panoramica in cui collocare il nostro argomento, conviene tracciare un quadro cronologico delle tappe principali che hanno segnato la conquista del suolo americano[6]: la prima, che va dai primi anni del XVI secolo alla fine del XVII, è caratterizzata dalle imprese di avventurieri e indipendenti pionieri che, lontano dall’Europa, cercavano, per lo più, di rifarsi una vita in terra americana. Dopo i primi approcci in cui furono gli stessi indigeni a fornire quegli aiuti e quelle informazioni senza cui i Wasichu, ossia i Visi Pallidi, non sarebbero riusciti a sopravvivere in un ambiente ostile, la volontà di dominio dei colonizzatori ebbe il sopravvento e, basandosi su una superiorità militare e tecnica che trovava impotenti gli indiani[7], non incontrarono che deboli ostacoli. Ad essi comunque si opposero gli Irochesi in Canada e, a sud, i Pueblos, per non dimenticare la fiera resistenza dei Apache e dei Navaho quando gli spagnoli fondarono la colonia del Nuovo Messico.

La seconda tappa si situa nella prima metà del XVIII secolo e vede i conflitti delle potenze europee per il sopravvento su un territorio ricco di risorse naturali come quello americano. Gli europei, in questa fase, quali figli di Ulisse, l’eroe della metis, cioè delle astuzie della intelligenza[8], riuscirono ad inserire le loro contese – cioè il conflitto anglo francese – nelle lotte e nelle rivalità che scoppiarono tra le tribù locali, al punto che, al termine della guerra che vide la supremazia britannica, si disse: «gli Irochesi hanno conquistato un impero per la Corona inglese». Gli indiani erano guerrieri molto fedeli e, anche se non erano capaci di sottostare alle regole europee della disciplina militare, fecero la differenza nel definire le sorti del conflitto.

In questo periodo si può, praticamente, constatare come la vera debolezza dei pelle rossa[9] fosse nella mancanza di unione. Orgogliosi, amanti della guerra e del conflitto personale inteso come espressione della gloria, della vis e della virtus bellandi, essi furono vittima dell’inganno dei visi pallidi che, in diverse occasioni ne approfittarono in modo vergognoso mettendo gli uni contro gli altri. La maggioranza degli indiani che si era alleata al giglio francese partecipò così alla sua sconfitta.

La terza fase, che va dalla seconda metà del XVIII secolo fino al 1840, vede la formazione degli Stati Uniti e l’apertura della frontiera occidentale a una massa enorme di colonizzatori che, tra alterne fortune, scacciano gli indiani dalle loro terre e impongono loro umilianti condizioni. Il tentativo del grande capo Pontiac di formare una lega delle tribù indiane del Nord non ebbe successo, e anzi, schierandosi con la Corona britannica, pagò per la sua fedeltà quando, infine, l’Unione americana ebbe la meglio giungendo ad annettersi il Mississippi nel 1783. Il presidente Jackson, poi, grande nemico degli indiani, estese la giurisdizione unionista relegandoli nelle Grandi Pianure, il cosiddetto “grande deserto americano”, dove molti pellerossa morirono.

La quarta fase giunge fino al termine della guerra di Secessione, nel 1865. Si tratta di un periodo di grande espansione al grido di free soil, free speech, free labor, free men[10] e vide la conclusione della conquista dell’Ovest con la cosiddetta rush gold, la corsa per la ricerca dell’Oro, che spostò enormi masse di individui provenienti da un Est affamato e sotto la minaccia della crisi economica. Nel ’48 fu scoperto dell’oro in California e circa ottantamila persone, tra cui molti avventurieri e galeotti della peggior fama provenienti da ogni parte del mondo, giunsero a bordo di carri seguendo le piste che attraversavano le Grandi Pianure e le grandi Montagne Rocciose. Le malattie e la fatica della traversata, uniti agli attacchi degli indigeni, che si vedevano depredati delle loro terre, furono fatali per molti di loro; ma, alla fine,, questa nuova comunità melting pot, senza freni sociali, né ordini, né leggi, si costituì in istituzione e chiese la ammissione nell’Unione come uno Stato sovrano assieme al New Mexico. La questione indiana passò dal Ministero della Guerra a quello degli Interni e parve recuperare, durante la Secessione, un minimo di libertà che, però, venne subito persa

Nella quinta e ultima fase, che va dal 1865 al 1891 quando, il popolamento delle terre contese riceve un colpo mortale con l’Homestead Act del 1863. Con esso ogni settler poteva diventare proprietario di un appezzamento di terreno se vi risiedeva per almeno cinque anni. La grande prateria americana, dove prima gli indiani costruivano le loro capanne di abete, o i loro wigwam, dove si insediavano coi loro tepee, divenne terreno per la agricoltura, per l’allevamento del bestiame. Fu allora che nacque la figura del cow boy[11] nel suo ranch, sempre a cavallo con alti stivali e cappello a larghe tese. Il presidente Lincoln raccomandò un atteggiamento di protezione e benevolenza verso gli indiani; ma l’avidità, la brama smaniosa di nuove terre portò a scontri continui con le tribù. Riunire gli indiani nelle riserve significava imprigionarli; volerli costringere a diventare agricoltori significava stravolgere il loro ethos, la loro cultura[12]. I sussidi del governo federale, con cui si pensava di far fronte a quel senso di colpa che, a livello politico, dialogava anche con i movimenti sociali e le idee delle campagne antischiaviste, si disperdevano in mille rivoli, preda di approfittatori e avventurieri. Lo scontro ormai non avveniva più in campo aperto e l’episodio di Little Big Horn in cui cadde il generale Custer, pur mettendo i luce l’abilità dei grandi guerrieri indiani, non era altro che l’ultimo sussulto di un’opposizione, della fiera resistenza alla Conquista del West che poteva ormai dirsi compiuta. Oltre a ciò si aggiunse il massacro indiscriminato dei bisonti, i magnifici animali delle Grandi Pianure da cui gli indigeni avevano tratto per secoli il loro alimento principale[13].

Il territorio del bisonte d’America si estendeva dalla Lago Erie alla Louisiana, al Texas. Ogni anno, circa quaranta milioni di capi si spostavano per migrazioni stagionali alla ricerca di cibo, principalmente nelle grandi praterie ma anche nelle regioni boschive. Gli indiani dipendevano totalmente dal bisonte anche per il vestiario e, perciò, avevano elaborato delle tecniche di caccia tutte particolari, come quella di bruciare intere foreste allo scopo di spingere gli animali su luoghi erbosi, perché qui offrivano un più facile bersaglio. La cultura del fucile e del cavallo diede luogo a nuove strategie venatorie e molte tribù abbandonarono l’agricoltura per dedicarsi alla caccia a cavallo. Del bisonte indiano non si buttava via nulla. Ventre, lingua, fegato mangiato caldo, poi midollo, cuore. Con una particolare procedura di conservazione chiamata pemmicam la carne di bisonte poteva essere mangiata anche a mesi di distanza. Con le ossa degli animali morti si facevano punte di frecce, utensili, e le donne poi intrecciavano il crine per fare corde, filo per cucire. Con le corna si fabbricavano cucchiai mentre con la pelle bagnata in acqua calda e ingrassata si confezionavano capi di vestiario e calzature. La pelle affumicata del bisonte serviva, inoltre, a ricoprire i tepee così da impermeabilizzarli. Infine il bisonte aveva anche una funzione sacrale e i Sioux credevano nell’esistenza di un Grande Bisonte come maestro dell’Invisibile. Con la colonizzazione dell’Ovest vennero compiute ecatombi di animali inenarrabili e anche in ciò i vari Buffalo Bill[14] contribuirono allo sterminio degli Indiani d’America.

La storia delle guerre indiane è ricca di numerosi e raccapriccianti avvenimenti che meriterebbero un’attenta memoria. Noi, tuttavia, imposteremo la nostra recensione dell’Olocausto degli indiani d’America scegliendo emblematicamente tre episodi che ci sono parsi tra i più significativi per la comprensione delle ragioni che l’hanno ispirato. Essi sono il massacro di Sand Creek, l’eccidio di Wounded knee e La Trail of Tears, ossia la Pista delle lacrime.

In ordine cronologico troviamo per prima la Trail of tears, la Pista delle lacrime. Nell’inverno del 1838 gli indiani Cherokee e altre tribù furono cacciati dalla Georgia e costretti a una lunga marcia forzata per oltre milleseicento chilometri attraverso il Tennesse, il Kentucky, l’Illinois, il Missuri, l’Arkansas. Il trasferimento avvenne in condizioni eccezionali di gelo e pioggia e oltre 13000 uomini, donne e bambini, furono costretti a marciare in condizioni bestiali, senza cibo da mangiare o coperte per difendersi dai rigori invernali o medicamenti contro le malattie. Quelli che non ce la facevano venivano lasciati ai margini e morivano assiderati. Durante la traversata morirono più di 4000 indiani. Da allora quel tragitto della morte si chiamò: Trail of tears, la strada delle lacrime. Ma vediamone in primo luogo il quadro fattuale.

Grazie ad una serie di accordi con il governo statunitense che risalivano al 1791 i nativi indiani della Georgia erano stati considerati come una nazione indipendente con proprie leggi e usanze. Tuttavia, né i trattati, né il fatto che i Cherokee fossero indiani pacifici e in certo modo “civilizzati”, valsero di fronte alla cupidigia dei colonizzatori. Per di più, dopo la scoperta dell’oro anche nelle proprie terre, con un solenne voltafaccia, fu lo stesso parlamento della Georgia a giudicare nulli i titoli di proprietà fondiaria attribuiti agli indiani e inefficaci i trattati a loro favore. I Cherokee ricorsero alla corte federale ma questa, per voce del suo presidente John Marshall dichiarò che della questione indiana doveva occuparsi il governo federale, l’unico che potesse averne la giurisdizione esclusiva.

Fu dunque con l’appoggio del presidente Andrew Jackson, acerrimo nemico degli indiani, che la Georgia scacciò dalle loro case i Cherokee sotto la minaccia delle armi per trasferirli al di là del Mississippi. Durante la sua presidenza egli si adoperò in ogni modo per far trasferire i nativi sulle terre ad ovest, oltre la linea di demarcazione del grande fiume, per realizzare così quel progetto che era stato formulato dal Presidente Jefferson, l’illuminato, colto ed “europeo” President Jefferson. In quella occasione gli yankees quasi non si preoccuparono delle sofferenze inferte; anzi, pretendevano che tutto ciò fosse nell’interesse degli stessi nativi, «superstiti di una razza sfortunata…ai quali d’ora in poi la benevola assistenza del governo avrebbe prestato le sue cure e avrebbe protetto».

La terra dei Cherokee è una regione montagnosa situata tra la valle del Tennesse e le prime colline dei monti Appalachi. I Cherokee erano una popolazione civile, operosa, pacifica che amava i propri fiumi e le proprie montagne e che, per molti aspetti, aveva cercato di adattarsi all’arrivo dell’uomo bianco. Afflitti prima dai Francesi e poi dagli Inglesi, avevano in seguito tentato di ostacolare l’avanzata dei colonizzatori cedendo gran parte dei territori ancestrali. I patti non erano stati rispettati, ma i Cherokee erano stati in grado, lo stesso, di costituirsi in nazione dotata di una certa autonomia, sia economica che politico-diplomatica. Se gli anziani non avevano smesso di perpetuare le tradizioni e i costumi dei padri, i giovani, per lo più, vestivano come gli americani. Le vecchie capanne non esistevano più e i figli andavano nei collegi dei bianchi a studiare. C’era anche un quotidiano Cherokee, Il Phoenix, il quale veniva stampato sia in inglese che in lingua indigena. Il suo obiettivo editoriale consisteva nel tentativo di far risorgere la nazione indiana e per ciò, nel 1826, assieme al Grande Capo della nazione John Ross, figlio di un ricco proprietario scozzese e di una indiana, avevano redatto una costituzione scritta che sarebbe entrata in vigore l’anno successivo.

Ma la politica di assimilazione alla cultura dei bianchi non aveva portato a grandi risultati e il governo federale, da parte sua, aveva cercato in ogni modo, compresa la corruzione, di estromettere gli indiani dalla terra che avevano da sempre abitato. Con la presidenza Jackson le cose peggiorarono e si premeva sul governatore della Georgia perché desse corso alla espropriazione. Quelle terre erano ricche di preziose risorse minerarie e c’era pure una canzonetta popolare che girava nelle orecchie dei soldati e che declamava le meraviglie della nazione come di un luogo da favola[15]. Le tappe della confisca procedettero inesorabili e i possedimenti dei Cherokee vennero divisi in appezzamenti da acquistare per mezzo di una lotteria. Dopo ulteriori angherie, come la privazione della potestà di autogoverno e l’obbligo di giurare fedeltà allo Stato della Georgia, gli stessi georgiani attuarono azioni di guerriglia contro gli indiani rubando cavalli, incendiando, e commettendo atrocità.

Intanto l’eco della perfida ingiustizia ai danni dei Cherokee era giunta al Congresso Federale e l’intero paese conobbe la triste situazione in cui essi versavano. Ma le proteste non valsero e, in un crescendo rapido e rapace, si arrivò al “Trattato di sgombero”del 1835, poi perfezionato nel ’36, secondo il quale i Cherokee vendevano tutto quanto possedevano a oriente del Mississippi per cinque milioni di dollari in cambio di un terreno ad occidente dove si sarebbero potuti insediare. Dovevano trasferirsi nella nuova patria entro due anni. Il negoziatore statunitense aveva palesemente ingannato la nazione indiana; perciò fu inviata una petizione al presidente Jackson, ma non venne presa in considerazione. Temendo una reazione violenta contro i settlers[16], una risposta armata dopo le menzogne, il Governo federale mandò delle truppe a disarmarli, ma il generale incaricato, compiuto il suo dovere, osservò che ad aver bisogno di protezione erano gli stessi Cherokee.

La deportazione cominciò nel ’38. Gli indiani venivano prelevati nelle loro abitazioni, poi trasferiti in campi militari, avamposti da cui sarebbero partiti. Secondo le cronache locali, all’inizio gli indiani cercarono di scappare ma poi si rassegnarono. Era una cosa penosa vedere vecchi e donne coi capelli grigi accompagnare in triste corteo le guardie federali. La resistenza dei Cherokee a ciò fu minima. Nei campi di raccolta molti contrassero delle malattie, senza contare la presenza di sciacalli che spillavano loro i pochi soldi con whiskey di qualità scadente.

Il viaggio fu una via crucis orribile. Nei primi tempi molti non ressero alla calura estiva e alle conseguenti malattie. Tra ottobre e novembre circa 13.000 Cherokee furono trasferiti ad Ovest corrispondente all’attuale Oklahoma. Durante il viaggio morirono in più di 4000. Nella lingua Cherokee il viaggio verso occidente prese il nome di Nua-da-ut-sun’y ossia “la pista dove piansero”, e anche oggi quella strada è denominata la Trail of Tears, il sentiero delle lacrime.

 

 Il massacro di Sand Creek (1864) spezzò definitivamente ogni legame tra bianchi e indiani delle pianure. Questa miserabile carneficina compiuta dai bianchi costò la vita a circa trecento pelle rossa, tra Cheyenne e Arapaho. L’antefatto sta in una serie di litigi con i bianchi per via del furto di bestiame che venne punito dall’esercito americano con spietate azioni di rappresaglia ma anche con la scoperta dell’oro, avvenuta verso il 1852, nel Colorado e nel Kansas, territori indiani. Il flusso migratorio dei cercatori e dei settlers dava enorme fastidio alle tribù indiane le quali non erano per niente arrendevoli di fronte a quella avanzata folle e avida e perciò, con la consueta tecnica della guerriglia, cercavano di vendicarsi attaccando le diligenze e le stazioni di posta o incendiando i ranches. Il rappresentante dei Cheyenne di nome Black Kettle era stato a Washington a trattare con il Presidente Lincoln sulle questioni territoriali; ma, dopo aver fatto gli accordi, risultava che erano sempre i bianchi a ignorarli. In un antecedente a Cedar Bluffs, mentre i guerrieri cheyenne erano a caccia del bisonte, l’armata del maggiore Downing aveva sorpreso un accampamento di indiani nascosto in un canyon e lo aveva assalito. Nel giro di poche ore erano state trucidate trenta persone tra vecchi, donne e bambini. Il fine dei colonizzatori era l’annientamento dei nemici.

Il più feroce sostenitore di questa strategia era il colonnello Chivington, un ex pastore metodista che era solito salire sul pulpito per la predica armato di un revolver. Era un implacabile cacciatore di indiani e un guerrafondaio che aveva dato il suo feroce apporto nelle vittorie dell’Unione ad ovest. Dopo anni di snervante guerriglia i Cheyenne di Black Kettle si erano decisi a trattare con i rappresentanti governativi e ne avevano ricevuto, con beneaugurati promesse, anche l’autorizzazione ad alzare 100 tepee vicino a Fort Lyon, in un ansa del fiume Sand Creek.

La mattina del 29 novembre 1864 uno squadrone di 750 cavalieri agli ordini del colonnello Chivington e del maggiore Antony si precipitarono armati di cannoni sull’insediamento di Black Kettle per compiere un massacro. Una sventolante bandiera americana issata sull’accampamento in segno di pace non dissuase gli aggressori i quali, dopo aver aperto il fuoco, scesero da cavallo e si avventarono su chiunque uscisse dalle tende. Fu una carneficina di bambini, di donne sventrate e mutilate orribilmente per portar via dei monili. Gli uomini venivano scotennati per poter prendere loro lo scalpo. Il vecchio capo White Antilope si pose impassibile e orgoglioso davanti alla sua tenda cantando una canzone di guerra che faceva: «niente vive a lungo se non la terra e le montagne», poi venne vigliaccamente abbattuto mentre l’intero campo sprofondava tra le fiamme. Ci fu una fuga generale, ma molti vennero inseguiti e uccisi. Quando i macellai se ne andarono faceva molto freddo e i feriti soffrivano atrocemente fino a che non furono soccorsi da un gruppo di cheyenne provenienti da un altro campo con coperte e viveri. Trecento pellerossa persero la vita in questa miserabile azione. Quando nel Paese si seppe di questo misfatto un’ondata di indignazione si sollevò contro Chivington il quale, se in un primo tempo aveva sperato di poter ricevere le stellette da generale, si trovò costretto da una Commissione di inchiesta a dover rassegnare le dimissioni. Il famoso Kit Karson che aveva combattuto contro gli indiani e li rispettava denunciò il massacro come opera di vigliacchi e cani.

A conclusione di un conflitto secolare che, abbiamo detto, era in primo luogo di natura culturale, troviamo il massacro di Wounded Knee. Attorno al 1890 ormai tutti gli indiani erano stati confinati nelle riserve e avevano modificato il loro stile di vita: da cacciatori erano stati forzati a diventare agricoltori, avevano modificato i loro comportamenti sociali e i bambini venivano mandati a scuola lontano dalle famiglie. La amministrazione federale, al solito, commetteva abusi come nel caso della costruzione di una linea ferroviaria nel territorio dei Sioux o nella soppressione delle pratiche tribali e religiose, retaggio avito e sacro rito del succedersi delle stirpi e delle generazioni.

In quel tempo prese corpo la predicazione di Wovoka, un indiano Paiute, che, in una sorta di sincretismo fatto di spiritualità indigena e cristianesimo, si presentava come inviato del Grande Spirito e parlava di una sorta di risarcimento per la totalità degli indiani dopo secoli di sofferenze. Egli era stato mandato sulla terra per insegnare agli indiani ad amarsi e a celebrare la Ghosts Dance, la Danza degli Spettri, un rituale particolare in cui i danzatori si coprivano di un drappo bianco, fino a che il Messia non fosse ritornato sulla terra in veste di pellerossa per ristabilire i diritti. Se non in patria, la predicazione attrasse l’attenzione degli Sioux, dei Cheyenne, dei Kiowa e degli Arapaho perché prometteva la resurrezione dei guerrieri morti, che, unendosi ai guerrieri vivi, avrebbero finalmente scacciato gli oppressori dal paese.

« Io coprirò la terra con un nuovo sole sotto il quale i bianchi verranno sepolti. La rivestirò di un’erba dolce, di acque limpide e di alberi; mandrie di bisonti e cavalli la percorreranno… Mentre rinnoverò il mondo, i miei figli rossi che danzeranno e pregheranno verranno chiamati tra gli spiriti… Essi non hanno nulla da temere dai bianchi, poiché farò si che la loro polvere non si accenda… e se un uomo rosso muore per mano di un bianco, egli sarà accolto nel regno degli spiriti e ritornerà la primavera seguente…»[17] .

La Ghosts Dance era una variante della Danza del Sole. Dopo un rito purificatorio che consisteva nell’entrare nella Capanna del Sudore, gli uomini e le donne, tenendosi per mano, ruotavano danzando intorno ad un albero sacro. Nell’incerta luce dei fuochi notturni, le forme in movimento ricoperte di drappi candidi davano l’impressione di fantasmi ondeggianti. Si invocava anche il ritorno del bisonte la cui popolazione, come detto, un tempo era stata numerosa come quella e assai di più degli esseri umani, ed era stata sterminata dalle armi dei bianchi. Così, cantando e ballando, ebbri di stupefacenti e di misticismo, gli adepti crollavano a terra sostenendo di aver incontrato gli spiriti dei trapassati.

Fu la mattina del 29 dicembre che il 7° cavalleggeri del maggiore Forsyth con l’intento di perquisire i tepee degli Sioux che si erano radunati nella zona e disarmare gli indiani innescò la scintilla. L’occasione per vendicare il generale Custer dopo quattordici anni[18] era finalmente giunta. Dal fucile di un giovane indiano, insofferente per esser stato brutalmente disarmato, partì un colpo di carabina. L’esercito rispose a cannonate. I fucili e i cannoni facevano fuoco indiscriminatamente sull’accampamento dove erano donne e bambini. Gli Sioux superstiti si difendevano valorosamente con coltelli, tomahawk, archi e frecce ma era tutto inutile e non serviva nemmeno fuggire perché venivano rincorsi dai militari assetati di sangue. La carneficina venne consumata nel giro di qualche ora; poi, una tempesta si scatenò sul campo disperdendo le parti. Quando, dopo qualche giorno, le truppe federali ritornarono, si accorsero del massacro che avevano perpetrato. C’erano corpi di donne e bambini sparsi da tutte le parti, carcasse di guerrieri orrendamente mutilati. Qualcuno di loro era ancora vivo, qualcuno riuscì a fuggire e sarebbe sopravvissuto[19]. In complesso furono trecento i pellerossa uccisi a Wounded Knee.

Il massacro di Wounded knee rappresenta dunque l’atto conclusivo di secoli di guerre contro gli indiani delle pianure. Si era creata, in seguito a ciò, una generale sollevazione nelle riserve; ma, poi, le acque si calmarono e anche Wovoka, il profeta della rinascita, andò in giro a vaticinare che era giunto il tempo di seguire la via tracciata dall’uomo bianco.

In conclusione, a mo’ d’epilogo, vogliamo domandarci ancora una volta quali furono le cause che provocarono la fine dei nativi d’america; ma, giunti a questo punto, il reiterarsi della domanda vuol significare sia l’impossibilità di colmarla con definizioni soddisfacenti, sia lo scandirsi di una litania funeraria che sorge spontanea e guarda lontano oltre i lampi del dolore. Gli indiani furono sterminati dalla superiorità delle armi bianche, dei fucili Winchester, dagli esplosivi o forse, come sostengono alcuni, dal whiskey, dall’alcool che ne fiaccava la forza militare, la vis guerriera? Non senza ragione, altri sostengono che nel Nord America furono le malattie dei bianchi a compiere la strage. Fu il vaiolo, si, il germe del vaiolo usato come arma contro cui il sistema immunitario dei nativi non sapeva contrapporre una cura efficace a causare una strage in Canada, verso la metà del 18° secolo. Dunque perché ci occupiamo ancora di indiani? Quale perdita, con la scomparsa della loro cultura, del loro stile di vita, stiamo scontando? Un recente articolo del New York Times notava come, nelle zone un tempo riserve indiane, il numero delle famiglie con problemi di droga e dipendenze varie è ancora molto alto. Il problema dell’adattamento al modello di vita americano, come si vede, non è ancora realizzato e il conflitto pare solo spostato su un piano culturale differente e il tempo non è riuscito a cancellarlo. Certo, ci sono indiani che ce l’hanno fatta, che sono diventati ricchi, magari costruendo Casinos o altre nefandezze legate al dio denaro, che sono diventati importanti nel campo delle scienze, ma la guerra, il Polemos, per dirla con Eraclito, non è affatto terminata e prima o poi qualcuno verrà a dissotterrare le armi e riaffermare, col grido caratteristico di Oka hey, il diritto del popolo indiano. Allora un nuovo rapporto con la natura, una nuova civiltà si aprirà per l’America: la cultura dei nativi, una possibilità vecchia e allo stesso tempo nuova per gli esseri umani.

 

[1] Idea, per altro, subito dimessa per le numerose difficoltà di adattamento in un ambiente ostile a cui non sarebbero sopravvissuti se non fosse stato per il provvidenziale aiuto degli stessi indigeni.

 

[2] Tra i quali non va dimenticato Frate Bartolomé de Las Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie presentata all’Imperatore Carlo Quinto nel 1542.

 

[3] La discussione non è estranea a quel movimento filosofico cinquecentesco che va sotto il nome di alessandrinismo al cui interno è da annoverare la riflessione del nostro, perché docente all’Università di Bologna, Pietro Pomponazzi nel suo trattato sulla Immortalità dell’anima.

 

[4] I pellerossa non erano affatto tali se non durante cerimonie in cui erano soliti tingersi la pelle del pigmento rosso come pratica rituale.

 

[5] Recentemente studiata nei trattati rinascimentali da Carlo Guinzburg e presentata in una conferenza all’Accademia di Belle Arti di Bologna nell’aprile 2005. A tal proposito si vedano anche gli studi di Giovanni Greco e Davide Monda sulla storia della criminalità e la prostituzione nel meridione d’Italia in cui il tema della diversità antropologica, rilevato poi anche da uno studioso di fisiologia come Lombroso, appare discriminante.

 

[6] Si tratta, grosso modo, dell’approccio scelto dallo studioso svizzero Jean Pictet, autore di uno studio dal titolo: L’Ẻpopée des Peaux-Rouges, 1994 Editions du Rocher.

 

[7] Gli esplosivi e le armi da fuoco.

 

[8] Vernant, Le astuzie dell’Intelligenza, Laterza [città e anno].

 

[9] La pelle rossa era data da un pigmento che si usava nelle cerimonie rituali indigene.

 

[10] «Terra libera, libertà di parola, di lavoro per uomini liberi» al grido di questi slogan nacque un vero e proprio partito.

 

[11] A imitazione dell’indiano vaquero del Nuovo Messico.

 

[12] Solo le donne indiane si occupavano del lavoro dei campi.

 

[13] A questo riguardo si veda lo studio di Philippe Jacquin, Storia degli indiani d’America, Milano 1977, Arnoldo Mondadori editore p. 53ss.

 

[14] Col suo spettacolo, Il Wild West Show, portato in giro anche in Europa, a cui parteciparono anche celebri indiani Medicine Men come Black Elk, Alce Nero, Buffalo Bill rappresentò anche la caccia a questo animale sacro.

 

[15] Tutto ciò che voglio dalla creazione/è una ragazza carina/ è una grande piantagione/ laggiù nella nazione dei Cherokee.

 

[16] coltivatori residenti, stanziali.

 

[17] P. 658, op. cit, Pictet.

 

[18] La sconfitta dell’esercito federale a Little Big Horn.

 

[19] , Alce Nero parla, Adelphi, Milano.

 

 

 

 

 

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