BREVE MA VERIDICA STORIA DELLA RAI

 

 

         Forse in virtù della sua vocazione mediatica che non esaurisce in sé il contenuto del messaggio, la storia della Rai può essere riguardata come la storia di uno degli istituti più rappresentativi della nostra identità collettiva, il punto di incontro di tante riflessioni più particolari, di tanti sguardi sulla realtà che ormai stazionano nella memoria pubblica o, almeno, sono suo potente referente immaginale.

 

“La Rai, Radio televisione italiana, inizia oggi il suo regolare servizio di trasmissioni televisive”: erano le undici di mattina del 3 gennaio 1954 quando la televisione italiana nacque ufficialmente.

 

         A pronunciare l’annuncio in diretta dai nuovissimi studi del Centro di produzione di Corso Sempione a Milano fu Fulvia Colombo. La televisione allora trasmetteva in bianco e nero e la qualità del segnale non era entusiasmante, pagava un canone che si aggirava attorno alle diciotto mila lire. Il suo successo tra la gente fu subito folgorante e nel giro di quattro anni gli abbonati superarono ampiamente il milione. Il gradimento sarebbe stato anche maggiore se la rete dei trasmettitori che distribuiva il segnale video fosse stata più efficiente, ma la particolare conformazione orografica italiana con la sua prevalenza di picchi e avvallamenti costringeva a lasciare in ombra non poche zone del nostro territorio. Ad ogni modo già nel ’58 vennero “illuminati”, come si diceva in termini tecnici, oltre il 95% degli italiani; la quasi totalità della  popolazione era potenzialmente in grado di sintonizzarsi sulle frequenze del Programma Nazionale.

 

In realtà, la storia della Rai, è risaputo, ha inizio una ventina d’anni prima a Roma, con le prime trasmissioni radiofoniche diffuse dell’Uri –Unione radiofonica italiana-, una società privata che nel 1927 cambia nome a seguito di modificazioni nel capitale societario a cui partecipa lo stesso Guglielmo Marconi per prendere quello di EIAR –Ente italiano audizioni radiofoniche- e che estenderà le proprie emissioni a tutto il Paese. Il regime comprese prontamente le potenzialità del nuovo strumento comunicativo come la radio, anche per le sue capacità di diffusione capillare nelle zone più sperdute del paese oppure in quelle zone della provincia italiana arretrate ed involute. Onde assicurarne la diffusione, nel ’37 venne lanciata anche una operazione commerciale denominata Radio Balilla, per mezzo della quale si offriva un apparecchio radiofonico a prezzi contenuti e pagabile in comode rate mensili. 

 

         Una convenzione dello Stato, in quanto detentore delle frequenze, stabiliva che la società concessionaria doveva essere presieduta da una persona gradita al governo; inoltre, veniva fatto divieto di trasmettere notizie senza l’approvazione dell’autorità politica. Il nuovo Ente, grazie all’accordo di concessione, poteva disporre le sue entrate, sia attraverso l’esazione di un canone di abbonamento che il governo stabilì doveva essere pagato da tutti i cittadini possessori di un apparecchio ricevente, e attraverso la raccolta pubblicitaria, per la quale, al fine della promozione e della sua raccolta, venne fondata la Sipra (Società Italiana Pubblicità Radiofonica Anonima). In questo periodo assistiamo anche a frequenti rivolgimenti societari che mutano gli assetti precostituiti fino a che, in seguito a una crisi che ne minaccia il fallimento, l’Ente non verrà soccorso dall’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) sotto la guida del grande Raffaele Mattioli[1]. Eiar ed Iri sopravvivranno alla caduta del Fascismo e l’Eiar, a partire dal 1944, dopo la liberazione di Roma, prenderà il nome che la contraddistingue ancor oggi RAI, che allora stava per Radio Audizioni Italia[2].

 

I programmi del giorno dell’esordio definiscono già una tipologia espressiva che è poi una caratteristica peculiare, anzi, una vera e propria carta d’identità del medium, potremmo dire. Dopo la telecronaca delle cerimonia ufficiale della inaugurazione tra un cardinale, un ministro e gli alti dirigenti, ecco spuntare il volto di un giovanotto di sicuro avvenire: Mike Bongiorno, con un programma dal titolo Arrivi e partenze in cui vengono intervistate note personalità di passaggio all’aeroporto di Ciampino, a Roma. La figura simbolica di questo conduttore di origini italo americane che ha lavorato alla radio e ha condiviso il carcere nelle concitate fasi della lotta di liberazione dall’occupazione nazista, è da includere tra gli elementi di una possibile spiegazione della popolarità assunta dalla televisione tra gli italiani[3], il suo decollo popolare, al punto che in essa, nelle sue tipiche movenze verbali o in quella cosiddetta “aurea mediocritas”, finiranno per riconoscersi, per identificarsi, secondo la maggioranza degli studiosi, milioni di spettatori. E’ tutta da scrivere in questo senso la storia della comunicazione televisiva in Italia, ma è indubbio che le grandi figure dei conduttori, come le cosiddette “Star” al cinema, in teatro, in letteratura, sanno render ragione di tanti problemi analitici, anche sul versante di una estetica della ricezione, che una mera analisi dei contenuti comunicativi dei programmi non riesce ad esplicare.

 

         Il palinsesto della prima giornata vide dunque, dopo Mike Bongiorno, un programma di musica leggera condotto da Febo Conti[4], la cronaca diretta di un avvenimento sportivo, un film di Mario Soldati dal titolo Le miserie del signor Travet, ed un programma dedicato all’arte di Giambattista Tiepolo[5] iniziato alle 19 e terminato alle 20.45, prima del Telegiornale. La fascia oraria denominata, con dizione anglofona, prime time prevedeva alle 21.15 la messa in onda di Teleclub, il primo talk show della televisione italiana, poi la recita “in diretta” di una commedia di Carlo Goldoni: L’osteria della posta, con Isa Barzizza e Adriano Rimoldi per la regia di Franco Enriquez. In conclusione di giornata, dopo una rubrica di musica leggera dal titolo: Settenote, la gloriosa Domenica Sportiva, il programma più longevo della televisione italiana.

 

         A Milano vennero prodotti i primi telegiornali; essi, però, non prevedevano ancora collegamenti con altre sedi ed erano esemplati sul modello dei cinegiornali, cioè venivano dettati da una molto impostata voce fuori campo. Del 1952 è anche la Convenzione tra lo Stato e la Rai per la concessione in esclusiva dei servizi di radio audizioni circolari, di televisione circolare, di telediffusione su filo. Durata: trenta anni. A partire da questo momento, oltre le polemiche ed i forti momenti di protesta per un monopolio che finirà per limitare la libera iniziativa commerciale, oltre che intellettuale diremmo noi, entrano in funzione i ripetitori del segnale video dislocati sulle sommità d’Italia. La fama ed il destino della televisione, che aveva cominciato a far capolino anche tra gli schermi cinematografici ad opera di registi come Fritz Lang o di Elia Kazan, il cui film Panic in the street ne aveva compreso le potenzialità totalizzanti, intraprese una avanzata inesorabile; la cosiddetta capacità di vedere lontano della figlia unigenita della luce, come l’avevano definita gagliardamente i pionieri prima della riflessione di un Marshall McLuhan[6], sembrava destinata a durare.

 

         A questo punto occorre notare, anche per contestualizzare storicamente l’evento della Concessione o Convenzione con lo Stato, che la Democrazia Cristiana, vincitrice delle elezioni del ’48, ottiene il controllo completo della televisione attraverso le cosiddette quote governative, vestigia di marca fascista, che si ritrovano nella composizione del nuovo consiglio di amministrazione[7] stabilito dall’Accordo, al punto che il Vaticano[8], e gli ambienti ad esso collegati, finiranno per influenzare fortemente le scelte editoriali e gestionali. In sostanza l’Esecutivo manteneva un potere di orientamento non irrilevante sulla Rai. L’unica cosa apprezzabile, anche se giudicata con gli occhi di oggi, pare essere la quota pubblicitaria: essa non poteva superare il 5% dei tempi di trasmissione! Uno spot ogni tanto, anche se, come ricorda Eric Hobsbawm ne Il secolo breve, erano sempre più numerosi i prodotti merceologici che chiedevano la ribalta televisiva per soddisfare le esigenze della domanda di beni di un consumo[9] sempre più trionfante: sono gli anni del boom economico, della industrializzazione, della crescita demografica, degli elettrodomestici, del turismo di massa. Per giunta, la Rai, intesa come medium, dopo solo pochi anni dalla sua fondazione, fu già in grado di porsi come antagonista temibile nei confronti di concorrenti come teatro, cinema, calcio, insomma tutti gli enti che si contendevano il prodotto “intrattenimento degli italiani”; in lontananza, tuttavia, si percepiva già un oscuro tumulto, si affilavano le armi per quel conflitto di non poco rilievo sulle quote pubblicitarie che darà luogo più avanti alla formazione della Tv commerciale.

 

         Espressione di un momento nuovo della nostra storia sociale è, forse, la messa in onda di Carosello. Nacque nel febbraio del 1957 e andava in onda alla fine del telegiornale, verso le venti e cinquanta: sarà una delle trasmissioni più note, più seguite di tutta la televisione. Erano appena dieci minuti di pubblicità, una pubblicità che si preoccupava in primo luogo di essere spettacolare, di far divertire la gente e poi anche, nel “codino”[10], informare sulle novità del mercato. Come sostengono in molti, dietro quelle immagini, l’Italia si lasciava alle spalle la penuria dei duri anni della guerra, i tempi faticosi della ricostruzione ed entrava prepotentemente in quelli del ”miracolo economico”.

 

         Carosello andrà in onda fino al 1977 dopo di ché nuovi modelli comunicativi richiederanno la sua messa a riposo. Fior fiore di registi e sceneggiatori come Antonioni, Olmi, Loi, Pontecorvo, Pasolini, Zurlini, Leone, Risi ecc. si misurarono su quelle storie e così il fior fiore degli attori come Gassman, Totò, Eduardo e Peppino De Filippo ecc. tutti trassero motivo di popolarità e ammirazione da quei passaggi; finché fu visibile, la sigla con la tipica musichetta e il piccolo teatrino coi sipari che si aprivano sulle storie di Calimero, Carmencita, Jo Condor, Pappagone, l’omino Bialetti o l’ispettore Rock per citarne solo alcuni, con i loro caratteristici slogan che finivano per rientrare  anche nella parlata nazionale[11], alti indici di gradimento furono assicurati.

 

         Prima di passare al vaglio i programmi della Rai degli inizi è d’uopo soffermarsi su una personalità che ne ha potentemente influenzato la natura, vale a dire Sergio Pugliese. Lo troviamo  nel ‘54 con la responsabilità dei programmi assieme a Vittorio Veltroni[12] a cui venne affidata la guida del primo telegiornale. Come molti dirigenti dei primi anni che svolsero il proprio apprendistato all’Eiar, dove si dice che fosse compromesso col regime fascista, Pugliese era considerato il tipico rappresentante di quella filosofia aziendale “neutralista” che tendeva a contemperare il moderatismo cattolico con il conservatorismo liberale[13]; dotato ha grandi doti organizzative, oltre che una sensibilità specifica per il teatro[14] e le questioni culturali, egli concepisce il palinsesto televisivo sul modello radiofonico teatrale, un modello umanistico e letterario, piuttosto statico, se vogliamo, e conservatore, che tuttavia, in ultima analisi, ebbe un merito pedagogico fondamentale: quello di portare al grande pubblico commedie, riduzioni, romanzi, sceneggiati di celebri autori altrimenti ignorati, ebbe inoltre il merito di diffondere la lettura e di divulgare il sapere. Si pensi, ad esempio, a  Appuntamento con la novella[15] o Una risposta per voi del celebre Professor Cutolo, professore di Bibliografia alla Statale di Milano, incaricato di rispondere ai quesiti degli spettatori, oppure a Piccole donne della Alcott o Miseria e Nobiltà di Scarpetta con il grande Eduardo De Filippo. Sono di questi anni le riduzioni televisive di Cime tempestose di Emily Brontë, Orgoglio e Pregiudizio[16], Jane Eyre[17], Piccolo mondo antico[18], una versione memorabile dell’Idiota di Dostoevskij[19] e poi tanto teatro classico e tanti altri programmi in prospettiva addottrinante che è superfluo qui ricordare. Non sono certo infondate le considerazioni di Tullio De Mauro quando rammenta[20]che buona parte dell’educazione e, soprattutto, dell’unificazione linguistica italiana nel secolo XX° passa proprio attraverso la normalizzazione comunicativa attuata dalla Rai. Il coacervo dei dialetti, delle parlate del nostro paese, per cui, a volte, un siciliano pareva straniero a un piemontese, trovò dunque nuovi modelli cui ispirarsi e sarà proprio questa Rai, maestra, certo, di una letteratura purgata[21], di una lingua frigida[22], di un sapere a volte quasi macchiettistico e provinciale, anche se aperto alle riflessioni di uno Zavattini, di un Soldati, a portare il contributo decisivo. Dell’era Pugliese non bisogna inoltre dimenticare Non è mai troppo tardi dell’eccellente Maestro Manzi - 484 puntate a partire dal 1960 - o la possibilità, in accordo con il Ministero della Pubblica Istruzione, di poter accedere al diploma di licenza Media dopo la partecipazione a lezioni riservate via televisiva. I precursori del progetto Nettuno e della didattica in tv che ben conoscono gli insonni di oggi, ma anche dell’e-learning, del docente catodico digitale.

 

         Di questi primi anni altre, però, sono le trasmissioni, come i personaggi, che hanno lasciato l’impronta sul tessuto della collettività nazionale. Il più importante, anche a giudicare dalla risonanza mediatica[23], è certamente Lascia o raddoppia. Il programma era condotto da Mike Bongiorno e andò in onda dal 1955 al 1959 con un indice di ascolto così alto che i cinema ed i teatri furono costretti a modificare gli orari della programmazione per consentire al pubblico di non perdersi una puntata. Qui, in questo gioco a quiz, forse, la televisione trovò la sua legittimazione popolare; in esso i concorrenti, scelti in quanto esperti di un argomento, ma anche per tipologie curiose e bizzarre che ricordano le maschere della Commedia dell’Arte[24], partendo da una base di duemila e cinquecento lire e rispondendo a domande progressivamente più difficili potevano arrivare “in cabina” e raddoppiare la somma fino alla cifra, considerata astronomica, di cinque milioni di lire. L’idea di sapere che emergeva da questa trasmissione – ammoniva Nicola Chiaromonte nel 1956[25] – era un’idea superstiziosa ad uso degli ignoranti. Lo stesso si deve dire della forma quiz che da questo archetipo[26] prese forma. Oggi, poi, non c’è giorno di programmazione senza enigmismo. Programmi come Il Musichiere (1958, presentato da Mario Riva[27]), Campanile Sera (1959, con il tris Bongiorno, Tortora, Tagliani) o Rischiatutto (1970), presentato ancora da un Bongiorno che ritroviamo poi in Scommettiamo (1978) e Flash (1980), hanno prodotto miracolosi indici d’ascolto, attirato facoltosi inserzionisti pubblicitari, orientato moralismi collettivi, farcito la storia del nostro costume collettivo, del nostro abito sociale in una sorta di epopea interminabile.

 

 

 

         Uno dei caratteri obiettivi sui quali si fonda la potenza tecnica del mezzo televisivo è certamente quello della diretta. Presa di possesso sulla realtà, cerimonia del vero, messa in scena del presente, rituale che sembra fondarsi non solo su liturgie codificate, su binari prestabiliti, ma anche sul vergine imprevisto a cui sempre attinge il fuggitivo attimo,  la diretta caratterizza lo specificità della televisione più di ogni altro tratto. 

 

Agli inizi non c’è molto, c’è il calcio, c’è Italia-Svizzera il primo incontro trasmesso ufficialmente e commentato la voce muscolare e rauca di Nicolò Carosio, poi le Olimpiadi invernali di Cortina o le nozze di Ranieri di Monaco con Grace Kelly[28], e diverse cerimonie, inaugurazioni presenziate da “commossi” ministri, ma via via i dirigenti prenderanno sempre più consapevolezza delle potenzialità, rispetto al cinema ad esempio, insite nella sincronicità della visone, della presa sul  reale. Lo sport è il  luogo dove, a nostro avviso, il racconto televisivo trova la sua migliore espressione e dove, forse, la scuola Rai della “medietas” esplica le sue potenzialità. La capacità di montare e  dirigere una collana apparentemente incongruente di “viste” prese da un campo di calcio o da un incontro di boxe[29], richiede un’idea dell’agonismo non faziosa, aperta a una conoscenza del corpo non meramente strumentale, non infoiata in partigianerie commerciali o abissi narcisistici; bisogna riconoscere che in quest’ottica la Rai ha sempre tenuto una semplicità classica, quel giusto distacco, quella “ingenuità” che consente di vedere nello sport un gioco, un’espressione  dell’umano e nient’altro.

 

Con le Olimpiadi di Roma del ‘60, sia sul piano della strumentazione che su quello della qualità registica, la televisione italiana acquisì in ambito sportivo una discreta fama internazionale che praticamente si porterà immutata fino ai Mondiali di Calcio di Italia ’90, quando verranno sperimentate metodologie tecniche per il tempo nuovissime come l’alta definizione, High Definition, che preludono già alla scansione digitale dell’immagine, per non dire delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, dove la Rai ha ottenuto il plauso della stampa internazionale per la qualità dell’organizzazione narrativa e tecnologica dimostrata. Una scuola “sportiva” di grande qualità insomma, sostenuta da congrui finanziamenti, ricerca, sviluppo, consensi; del resto, se si va a guardare le classifiche degli indici d’ascolto, sono sempre le partite di calcio quelle ad ottenere le migliori posizioni[30]. A cominciare dal celebratissimo Italia-Germania di Mexico ’70, quando si totalizzarono 20 milioni di spettatori, fino al recente e vittorioso campionato mondiale in Germania 2006, dove, in occasione della finalissima con la Francia, si stima si sia sintonizzato sulle frequenze televisive il 90 per cento della popolazione. Non bisogna dimenticare che la Rai è stata concessionaria fino al 2005 delle trasmissione degli incontri del Campionato di calcio di Serie A e, a partire dal “mitico” Nicolò Carosio, con le sue prosopopee divaganti e un po’ stilizzate sulla retorica del ventennio[31], i telecronisti della Rai sono sempre stati personaggi molto amati.

 

         A Carosio succedette Nando Martellini, un narratore con grande senso della misura, capace di un distacco che lasciava molto al racconto delle immagini. Egli è rinomato per aver pronunciato tre volte Campioni del Mondo in occasione della vittoriosa conclusione dei mondiali di Spagna nel 1982, poi venne Bruno Pizzul che, alla comprensione del gioco nei sui aspetti tecnici, ha saputo unire un certo colore locale fatto di partite a scopone con gli amici e un quartino di Tocai. Oggi l’erede prescelto alla sua successione[32] pare sia Marco Civoli che assieme a Sandro Mazzola ha commentato i mondiali in Germania; un commentatore che, sul modello della televisione commerciale, attua una sorta di epica barocca del calciatore che con lui diventa una specie di agonista irreale e serissimo, umanizzato però, fortunatamente, dal suo collaboratore che sempre riporta le inevitabili iperboli del discorso alla tecnica del calcio.

 

         Sfogliando l’archivio della Rai degli esordi[33] non si può dimenticare l’inizio del Festival di San Remo. In Tv esso parte nel 1958, l’anno della morte di Papa Pio XII e l’elezione del “Papa buono” Giovanni XXIII con la sua “invocazione” alla Luna in diretta, dispensatrice di carità familiari; un anno che segna oltre a ciò bellissimi programmi di viaggi come quello in India di Roberto Rossellini, o quello nella Valle del Po di Mario Soldati alla scoperta dei cibi genuini.

 

San Remo era nato veramente nel 1951 come spettacolo musicale ad uso del turismo nella bellissima riviera ligure quando la Rai decise di produrlo. L’ambientazione presso il Casinò vedeva una orchestra in divisa di Gala alla Glenn Miller diretta dal maestro Cinico Angelini, un presentatore come Nunzio Filogamo e cantanti interpreti più o meno conosciuti presso il pubblico popolare della Radio, delle balere e dei varietà, i quali si disputavano in gara un premio finale[34]. Un premio ben maggiore, e ne erano consapevoli non solo le case discografiche, veniva dalla pubblicità, dal sistema produttivo e commerciale che il festival metteva in moto. Una nuova prospettiva di intrattenimento e, perché no, di conoscenza si apriva sulla storia italiana. Quell’anno vinse Nilla Pizzi con una canzone dal titolo Grazie dei fiori, poi, negli anni, fu la volta di Domenico Modugno con il trionfo di Nel blu dipinto di Blu, meglio noto come Volare, che conquistò la ribalta internazionale e vendette oltre 22 milioni di copie; di Adriano Celentano, di Mina, la tigre di Cremona, o Milva, la pantera di Goro, Iva Zanicchi, l’aquila di Ligonchio, Lucio Dalla, Bobby Solo per dirne alcuni, che, con canzoni ancor oggi riprese, segnarono di accordi facili ma tutt’altro che banali, l’atmosfera armonica dei nostri giorni. Insomma una televisione di fiori, di sorrisi, di canzoni, di amori lacrimosi e sentimenti gonfiati fino al falso, di turbinose storie d’amore e autentici, incredibili drammi come quello della morte di Luigi Tenco, che si uccise dopo che la sua canzone venne esclusa dalla competizione. Per San Remo vennero poi anni di magra, di calo degli ascolti e livellamento qualitativo dell’offerta canora. Tra il 1973 e il 1980 ad esempio, la figura del cantautore come nuovo riflesso identificativo, come testimonial popolare portò una sorta di sconvolgimento nel campo musicale e si criticò fortemente la formula agonistica, divistica sanremese; questi furono poi, come noto, anni di contestazioni giovanili, di rivolte sociali al punto che la Rai abbandonò il Festival per un anno. La rottura però fu salutare perché dall’81 il programma ebbe un crescendo di audience tale che un diretto concorrente su questo terreno come la trasmissione delle partite della nazionale di calcio fu costretto ad adeguarsi ai suoi orari.

 

         Nel 1957, intanto, era nato un programma  che oggi celebra più di cinquant’anni e che è stato guidato praticamente senza discontinuità dal suo protagonista, il Mago Zurlì, ossia Cino Tortorella, autore principe di: Zecchino d’oro:  una gara canora che tutti i bambini non possono aver dimenticato, con la sua diligentissima direttrice del coro, Mariele Ventre, dal teatro dell’Antoniano di Bologna. Sempre in ambito musicale ci fu un programma che prese le vele in questi anni e accompagnerà il sabato sera degli italiani per molto tempo: Canzonissima, una gara di cantanti abbinata alla Lotteria di Capodanno. Del 1959 è, per l’unanimità degli esegeti, l’edizione considerata memorabile. A presentarla era una soubrette tutta energia e carica vitale come Delia Scala, accompagnata da due attori di sapiente tecnica e simpatia come Paolo Panelli e Nino Manfredi. Il programma era allora scritto, sceneggiato magnificamente dalla più celebre coppia di autori del musical italiano, Garinei e Giovannini, coadiuvati da Dino Verde e dalla ancor sconosciuta Lina Wertmuller, mentre la regia era del miglior regista di questo genere che la Rai abbia scritturato: Antonello Falqui. Il programma presentava un giusto equilibrio tra teatro di rivista, canzoni e televisione. Si ballava il Can Can come  a Parigi, si rideva, si recitavano scenette tormento come: Fusse che fusse la vorta bbona del barista di Ceccano interpretato da Manfredi, si poteva vedere una sapienza e un gusto formale del quadro catodico ineguagliato. Del resto Falqui veniva dalla scuola del Centro Sperimentale di cinematografia, aveva militato nelle riviste di critica e fatto esperienza con Curzio Malaparte nell’unico di lui film[35], infine si era costruito una solida esperienza in TV con il Musichiere. Delle sue regie va sottolineata la perfetta comprensione del mezzo espressivo, la capacità di rendere domestica e fruibile la partecipazione del pubblico allo spettacolo, senza distanzianti scalinate divistiche oppure orpelli ondeggianti piume barocche. Se si guardano le scene di quegli anni si vede in controluce la rivoluzione del design portata avanti da Bruno Munari, o la ripresa del funzionalismo architettonico del dopoguerra, insomma una cura sempre molto aggiornata dell’operare, della costruzione del quadro visivo che andrebbe ripensata anche oggi.

 

         Il varietà del sabato sera prenderà nomi diversi e sarà realizzato sempre da autori di valore. Canzonissima, Studio Uno, Partitissima, Fantastico i superlativi definivano anche le ambizioni  grandiose di un programma che sognava Broadway e che sarà firmato nel tempo da autori di genio come Marcello Marchesi, Dario Fo, e di sicuro talento come Terzoli e Vaime, Amurri e Verde, Bernardino Zapponi[36], Castellano e Pipolo e molti altri. Alla sua conduzione di succederanno Corrado, Pippo Baudo, Raffaella Carrà, Loretta Goggi, il duo Cochi e Renato e altri la cui personalità scenica sarà di guida e volano personale alla popolarità della trasmissione fino all’attuale Ballando sotto le stelle presentato dalla sorridente e determinata Milly Carlucci con la danza, il ballo popolare a far da nuovo palcoscenico su cui giocare.

 

Di personaggi da ricordare ce ne sarebbero ancora diversi riguardo alla Rai degli esordi: Padre Mariano, primo predicatore televisivo con la sua rubrica di posta che lo scrittore Achille Campanile definiva “l’unica barba della Tv, ma uno dei pochi che non sia una barba.”, o la coppia Vianello-Tognazzi, con Sandra Mondani ideatori di gag e scenette esilaranti come la famosa parodia del Presidente della Repubblica Italiana Gronchi rovinato casualmente addosso al Generale De Gaulle durante una serata alla Scala.

 

         A partire dal novembre 1961 presero avvio le trasmissioni del Secondo Programma che ampliava l’offerta televisiva della Rai. Il nuovo corso era stato progettato da un direttore generale proveniente dalla carta stampata, dove aveva diretto l’organo ufficiale della Democrazia Cristiana “Il Popolo”: Ettore Bernabei. Pare fosse di ascendenza fanfaniana[37], ma la sua forte personalità finì per assumere una statura autonoma e per condizionare, come si dice, un’epoca. Si presentò subito col proposito di ridare la supremazia ai programmi, condizionando la loro ideazione e rafforzando gli aspetti tecnico-informativi della vita aziendale. Volle, in altri termini, assicurarsi un saldo controllo sull’impostazione delle trasmissioni anche per rendere più penetrante l’azione della televisione sul piano del costume.

 

La Tv come un monstrum, scriveva Giuliano Gramigna, si diffondeva sempre più nelle case degli italiani soppiantando l’abitudine alla conversazione, alla lettura, riducendo il singolo in un angolo di solitudine fosforescente, lattescente, che finiva per negare la stessa identità del individuo, per impossessarsi del suo tempo come una ladra. Chi dirigeva quel diabolico strumento dovette sospettarlo ben presto perché da quel momento ciò che si faceva in Tv, come si faceva, chi lo faceva diventava sempre più importante.

 

Bernabei, che mantenne la direzione generale della Rai fino al 1974 con piglio “dispotico illuminato”[38], fu l’esponente tipico di quello che al tempo si era soliti definire il sistema di potere democristiano, una monocrazia pluralista, se si passa l’ossimoro, che aveva la pretesa di accontentar tutti senza soddisfare nessuno, capace di nient’altro che della imitazione, della riproposizione di modelli comunicativi desunti da altri, in particolar modo dall’America. Per accentuare il sistema di controllo sulla Rai, Bernabei non badò a spese: i giornalisti assunti crebbero da 130 a 700; e pure crebbero le professionalità e le dotazioni sul piano più propriamente tecnico, ma, quando egli lasciò la Rai, il deficit ammontava a 16 miliardi[39].

 

I programmi degni di menzione sono diversi, a cominciare, per quanto riguarda le dirette, dalla trasmissione del volo in orbita spaziale del russo Yury Gagarin, primo uomo a superare la biosfera a bordo di un razzo nel 1961. L’episodio segnava il primo round della lotta per la conquista dello spazio tra le due potenze vincitrici del Secondo Conflitto Mondiale. La competizione ebbe il suo culmine con l’emozionante atterraggio della navetta americana Apollo 11 sulla superficie lunare avvenuta il 16 luglio 1969[40].

 

         Interrogato su quale fine dovesse perseguire il palinsesto del Secondo Programma appena nato, uno dei migliori critici della Televisione italiana come Ugo Buzzolan rispose: Realtà e Attualità. A conti fatti essi furono quei requisiti che, rappresentando il televisivo nella sua specificità, trovarono la dovuta attenzione soprattutto con lo sport, col ciclismo. Il Giro d’Italia ebbe un seguito popolare molto elevato soprattutto quando ad esso venne abbinato Il processo alla tappa condotto da Sergio Zavoli dal 1962 al 1969. Erano gli anni delle sfide tra Gimondi e Merckx, tra Adorni e Anquetil e, tramite l’espediente del processo, Zavoli fu capace di raccontare ogni giorno una storia, ogni giorno un “romanzo” che dava voce alle vicende intime di campioni e gregari, agli sconfitti e alle soubrette; certo, storie isolate, raccolte per la loro valenza umanistica, la loro bruciante, reale attualità capace, tuttavia, di traforare, oltrepassare la convenzionalità agonistica delle due ruote e, forse proprio in ragione della loro valenza umana, potenzialità di vissuto, capaci di restituire senso alla competizione.

 

 Mentre al sabato sera gli italiani si arrampicavano sulle vette gambistiche delle Gemelle Kessler le cui sigle di Studio Uno come La notte è piccola per noi o Dadaumpa divennero dei veri e propri hit, un piccolo paesino veneto,  Longarone,  venne letteralmente spazzato via dal disastroso crollo della diga del Vajont nel 1963. Di lì a poco, dopo l’angoscia della tragedia dove persero la vita migliaia di vittime, le televisioni di tutto il mondo seguiranno “in diretta” la morte di uno dei più celebri e amati presidenti degli Stati Uniti d’America: John Fitzgerald Kennedy.

 

         In campo giornalistico, pur pressato dal clima proibizionistico vigente, ci fu tuttavia una trasmissione che fece scuola: TV7 di Giorgio Vecchietti[41], poi di Brando Giordani, Aldo Falivena e Emilio Ravel. La novità di questo spazio di approfondimento consisteva nel fatto che si tendeva a personalizzare l’avvenimento, a soggettivizzare l’informazione sui personaggi, sulla notizia e son da ricordare al riguardo le inchieste di Zavoli sulla magistratura, la denuncia della ”bistecca gonfiata”di Emilio Fede, o le corrispondenze dall’America di un maestro della comunicazione giornalistica e pioniere del telegiornale della Rai: Ruggero Orlando[42]. 

 

Nel 1966 avvenne il disastro della alluvione di Firenze e il regesto televisivo commosse migliaia di giovani che si radunarono nel capoluogo toscano per portare soccorso ai monumenti, manoscritti, opere d’arte trascinati dalla impressionante piena dell’Arno che aveva invaso le strade. Questo è certamente uno dei primi esempi di come la televisione sia capace di sommuovere il senso di solidarietà umana insito nella nostra personalità collettiva. Più avanti verranno le raccolte di fondi per le vittime dei terremoti, per gli attentati, per le sciagure che costelleranno la storia del nostro paese e la televisione sarà sempre in prima fila a raccontarle con i suoi esterrefatti cronisti, con i suoi rituali di esecrazione e lamento degni della stilizzazione e del formalismo tragici. Chi non si è commosso al racconto per immagini dei terremoti del Belice nel 1968, di Irpinia, alla tragedia di Vermicino dove morì, dopo una diretta televisiva, una agonia durata due giorni, il piccolo Alfredo Rampi? Per non dire, a giorni nostri, dell’attentato alle Twin Towers, o l’onda assassina, il maremoto nelle località turistiche dell’Indonesia?

 

         Lo specifico televisivo si misura anche su questa costellazione del silenzio, su questa illuminazione dell’umano di fronte alla angoscia dell’esistenza che tante storie vere, ma anche tanti sceneggiati di quegli anni portavano alla ribalta. In questa direzione, nella fiction, poi, si produceva moltissimo e, anche se la qualità non era entusiasmante, il fine della “addomesticazione dell’immaginario collettivo” era da ritenersi un obiettivo principe, per altro centrato. La Cittadella con Alberto Lupo dal romanzo di Cronin, David Copperfield da Dickens, La Fiera delle vanità da Thackeray, La Freccia nera da Stevenson, il Marco Visconti dal romanzo di Tommaso Grossi[43]sono produzioni che vanno verso la popolarizzazione del romanzo, che si preoccupano ancor di più di educare un’utenza televisiva, di formare, forse utopisticamente, una nuova società; quella stessa gente comune che ogni giorno aveva di fronte l’angoscia della reclusione nei caseggiati popolari delle nuove periferie, dove sui nuovi piani per l’edilizia che l’inurbazione disordinata degli anni sessanta aveva fatto spuntare come funghi, il cielo sfrigolava del guazzabuglio intricato delle antenne, aggrovigliandosi su un paesaggio altrimenti bello e ondulato.

 

L’alienazione, il morso della crisi, che si rilevava da più parti, la falsificazione della realtà attuata dalla televisione che sarebbe esplosa nelle rivolte studentesche ed operaie dei primi anni settanta, trovava altrimenti espressione nei contenuti più strani. Telefilm provenienti dagli Stati Uniti come Ai confini della realtà o Star Trek riprendevano modelli narrativi che in ambito letterario erano sempre stati considerati come sotto generi, il fantascientifico, oppure Belfagor, il fantasma del Louvre, un thriller capace di solcare di paure incolmabili le immaginazioni più giovani. Per quanto riguarda il senso di colpa poi, fosse esso individuale o collettivo, incaricato della sua neutralizzazione era il Commissario Maigret interpretato da noi con successo strepitoso dal 1964 fino al ’72 dal indimenticato Gino Cervi. Atroci delitti, folli concupiscenze pensate dalla mente di uno dei migliori narratori del ‘900 come George Simenon, venivano risolti in casa nostra da un paparone bonario, amante delle buone abitudini[44], dotato di scaltra intelligenza e con un senso acuto dell’ordine morale e della giustizia come Gino Cervi.

 

Degni di menzione sono pure le regie di Sandro Bolchi: Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli, I miserabili da Hugo, con il culmine, anche perché segna la fine di un’epoca produttiva cosiddetta pedagogica, ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni, uno sceneggiato che videro moltissimi spettatori e che contribuì alla frequentazione di un’opera narrativa altrimenti obliata dentro desueti e pregiudizievoli schemi di lettura. C’è altresì un programma di quegli anni che fa della “televisione verità”, della “televisione come potente microscopio” il suo ordine: Specchio Segreto[45] di Nanni Loy nel 1965. Veniva posta una macchina da presa dietro uno specchio e in questo modo, anche grazie ad un attore incaricato di provocare un determinato effetto sulla situazione, si catturavano le reazioni della gente, gli scatti inaspettati, i moti istintivi meno mediati possibile di sorpresi passanti. Memorabile la scena della “zuppetta” nel cappuccino di un ignaro avventore in un bar di Bologna[46].

 

Qui poi non si può dimenticare un spettacolo sorto nel 1970 rimasto praticamente immutato fino ai giorni nostri: 90°minuto. Nacque da una idea del suo conduttore storico, Paolo Valenti, e consisteva nel collegamento domenicale coi campi di calcio dove si era svolta una partita del Campionato di serie A. Documento dei goal o delle azioni esemplari e commento della partita affidato a giornalisti sportivi che divennero veri e propri personaggi popolari a seguito del successo della trasmissione[47], come Tonino Carino da Ascoli o Luigi Necco da Napoli, per citarne solo alcuni.

 

  

 

         Prefigurato dallo sviluppo delle radio libere e delle emittenti private in un panorama sociale e politico che accentua notevolmente il proprio movimento, un radicale cambiamento avviene a livello legislativo nel 1975 quando la legge 103 attua la riforma del sistema radiotelevisivo. All’interno della Rai i poteri passavano dall’Esecutivo al Parlamento. Il Consiglio di Amministrazione venne nominato per due terzi dal Parlamento e si costituì la Commissione parlamentare per l’indirizzo e la vigilanza sulla radiotelevisione pubblica. Inoltre venne riconosciuta autonomia alle Reti e alle Testate giornalistiche e si riconfermò che la pubblicità non poteva superare il 5 % della durata delle trasmissioni. Questa legge impegnò la Rai a introdurre anche in Italia la trasmissione video a colori e, per quanto riguarda le diverse sedi regionali sorte nel frattempo come conseguente richiesta di decentramento, fu prevista la nascita, che si realizzerà soltanto nel 1979, di Rai Tre. Per di più, dal 1976, con una sentenza storica che segnò la fine del monopolio Rai, la Corte Costituzionale riconobbe la legittimità dell’impresa televisiva locale, il primo atto di una apertura verso la televisione commerciale privata, oggetto, in passato, di accese controversie. Alla fine del 1977 verranno censite in Italia 240 nuove televisioni e oltre 1600 radio private. Sia la struttura programmi che quella giornalistica, i quali, in sostanza, sono i due grandi rami operativi all’interno della Rai, risentirono del mutato clima. I telegiornali vennero organizzati secondo il peso dell’influenza partitica parlamentare, la cosiddetta spartizione delle testate perdurante ancor oggi, mentre per i programmi si notò una maggiore apertura alle istanze di una società come quella italiana in forte rinnovamento.

 

C’è un programma nel 1975 che può essere visto come il segno di una volontà di rottura nei confronti di una tradizione stanca e ripetitiva che vedeva in una “medietas” ideologica il suo  riferimento culturale: è l’Orlando Furioso di Luca Ronconi, ridotto e sceneggiato dallo stesso regista con un letterato di valore come Edoardo Sanguineti. La novità consisteva nel fatto che non si trattava di un film, né di uno sceneggiato in costume, né tanto meno di un solito adattamento televisivo del testo di Ariosto, ma di una interpretazione nuova, aperta dell’Orlando furioso pensata per la televisione, una lettura che si avvaleva di due palcoscenici, rappresentazioni simultanee, scene che venivano spostate su ruote fin dentro lo spazio del pubblico, carrelli, duelli su macchine sorprendenti, ecc, insomma, come dichiarò lo stesso Ronconi: lo spettacolo era un tentativo di restituire al mezzo televisivo una capacità evocativa, favolistica tipica del racconto orale.

 

A dar man forte in questa direzione vennero programmi come la proiezione del film  La dolce vita di Fellini, oppure, su un altro piano, Onda Libera con un giovanissimo Roberto Benigni nella parte di Mario Cioni. In campo cinematografico sono anni in cui la televisione venne a trovarsi a livello produttivo in antagonismo con la distribuzione nelle sale, anzi, si può dire che qui abbia inizio il progressivo calo di pubblico nei luoghi deputati come il cinema il quale, oltre alle conseguenze economiche, influirà anche sul modo di produrre, di programmare i temi e i soggetti narrativi[48]. La Rai produsse L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi[49] e Prova d’Orchestra di Federico Fellini, il Gesù di Zeffirelli, e mandò in onda l’opera per la televisione di un altro regista di levatura mondiale come Ingmar Bergman, Scene da un matrimonio. Il teatro in TV invece scoprì Mistero Buffo di Dario Fo[50] che ritornava in Rai dopo l’episodio di censura avvenuto nella Canzonissima del 1962 e diversi suoi lavori.

 

         Anche l’intrattenimento domenicale mutò. Dal 1976 al ’79 ci fu L’altra domenica di Renzo Arbore, un programma che, sul successo del radiofonico di Alto gradimento [51]e, ancor prima, Per voi giovani, presentava personaggi strambi come Mario Marenco, lo stesso Benigni, Giorgio Bracardi, Andy Luotto, le sorelle Bandiera e Otto e Barnelli, raccontare storie stralunate, risibili e, per la prima volta, istituiva il telefono aperto alla interazione, al gioco, con il pubblico. Raffaella Carrà, un'altra regina del sabato sera degli italiani, soubrette amatissima per il suo caschetto di capelli biondo platino portato con vitalità autentica fin dai tempi di Canzonissima, lo utilizzerà ampliamente in un programma pomeridiano dal titolo Pronto, Raffaella del 1983; come, del resto, lo utilizzava Portobello, un programma settimanale di Enzo Tortora andato in onda dal 1977 al 1983 e ripreso ancor dopo nel 1987 quando, un Tortora malato, dopo una allucinante esperienza giudiziaria e un durissimo periodo in carcere, proverà a riprendersi il suo seguito di pubblico. Portobello era il nome di un pappagallo a cui il concorrente di una specie di compra vendita, di mercatino[52] doveva cercar di far ripetere il proprio nome per vincere un premio, ma il Portobello di Tortora fu anche una delle prime trasmissioni ad accorgersi della provincia italiana, delle fiere di paese, con la sua gente, le curiosità, le stravaganze e le tradizioni. Nel nome del popolare andavano anche trasmissioni come Domenica In presentata per la prima volta da Corrado nel ‘76, poi da nomi di spicco della Rai come Pippo Baudo, la Carrà, Marisa Laureto, Gigi Sabati e, Mara Venier. Dentro il pomeriggio domenicale inteso come contenitore, con formula praticamente immutata dagli inizi, ci si mise interviste, notizie sportive, costume, danza, ricchi premi e cotillon…e un pizzico di cultura con presentazioni di libri tra chiacchiere pigre e pettegolezzi estrosi.

 

Nel 1976 prese il largo, dopo un apprendistato radiofonico, la popolarità di Maurizio Costanzo con Bontà loro. Il programma trattava di un genere relativamente nuovo per il pubblico, o meglio, non ancora esplorato nelle sue potenzialità: il talk show. Arguto, ironico, giudizioso, attento alla dinamica delle interazioni e capace di affrontare diversi argomenti,  Maurizio Costanzo, chiacchierava coi suoi interlocutori e ne scrutava la personalità, ascoltando e sollecitando confessioni come un sacerdote laico; la sua fisicità rotondeggiante consentiva anche una rassicurante confidenza. La sigla rappresentava la chiusura e la apertura simbolica di una finestra, come ad inscenare un tu per tu, una confessione appunto, un momento intimo, privato, che di fatto  avveniva davanti ad un pubblico di milioni di spettatori.

 

Nel 1980 nacque Canale 5 dell’imprenditore edile milanese Silvio Berlusconi. Egli era anche azionista di maggioranza del quotidiano “Il Giornale” diretto da Indro Montanelli, ed il suo ingresso nel mercato televisivo, che per un certo verso era ancora molto mobile e non chiuso entro una bipolarità asfissiante come oggi, procurò notevoli conseguenze in Rai. Berlusconi infatti, con strategia concorrenziale lungimirante, “strappò” alla rete pubblica i testimonial, gli artefici, del suo successo. Da Mike Bongiorno a Corrado a Pippo Baudo, a Raffaella Carrà, a Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, da Costanzo a Tortora, Biagi, Santoro tutti passarono sotto le insegne del Biscione[53]. Con spregiudicata abilità Berlusconi riuscì ad acquisire prelazioni nel mercato dei diritti televisivi cinematografici e di fiction, poi,  nel 1983, procedé all’acquisto di Italia Uno e nel 1984 della Rete Quattro. Favorito anche da un decreto legislativo emesso quando alla presidenza del Consiglio c’era Bettino Craxi, Berlusconi estese il suo potere in modo vorticoso. Le quote pubblicitarie vennero estese al 20% del tempo della trasmissione e i forti ricavi consentirono raccolte pubblicitarie e investimenti in nuovi studi, strumentazioni, ripetitori per la diffusione del segnale in precedenza inusitate. Il numero degli spot pubblicitari crebbe in modo esponenziale e nel 1990 supererà il milione.

 

La televisione commerciale, per la sua capacità di penetrare a fondo nel tessuto della società italiana, avrebbe dovuto costringere a un ripensamento il servizio pubblico. Dove quella parve trasformarsi in una ladra di ascolti, di attenzione per venderli alla pubblicità[54], per quel suo insistere sui gusti facili di un pubblico analfabeta e credulone, - giusto, in questo senso, il richiamo di Karl Popper[55] alla cattiva pedagogia soprattutto sui più giovani, incapaci di un giudizio sul binomio violenza e sesso debordante nella programmazione – la Rai, da par suo, avrebbe dovuto mantenersi equilibrata e indipendente, pubblica nel senso di cosa pubblica svincolata dalle consorterie e dalle lobbies. Ciò non è avvenne. La programmazione degli anni 80, gli anni del cosiddetto “riflusso reganiano[56]”, vide la Rai porsi in una posizione concorrenziale nei confronti della tv privata, vide una contesa per conquistare il primato sull’indice degli ascolti[57], quando il suo compito era altro.

 

         Le vicende di Dallas, uno sceneggiato sulle intricate superficialità di una famiglia di petrolieri texani, approda a Rai Uno nel ’81 per poi passare a Canale 5  e provenienti dall’America erano altre amenità di telefilm, telenovelas, serial, sequel, situation commedy, che oggi non c’è desiderio di ricordare, ma che certo hanno intasato i nostri occhi e le nostre orecchie svogliate e indifferenti impedendoci una migliore coscienza critica.

 

Nonostante ciò la Rai seppe rispondere alla serializzazione narrativa producendo uno sceneggiato di qualità, dal ’84 al ’90, come La Piovra, che riceverà anche un tributo internazionale per la capacità di affrontare senza pregiudizi il tema della Mafia e del crimine.

 

Nel 1981 inizia Quark. Alla sua guida Piero Angela. I viaggi nella scienza erano una tipologia espressiva che aveva sempre ricevuto una certa attenzione da parte dei capi struttura Rai, ma solo Angela è stato il conduttore capace di trovare la formula giusta del successo con il suo modo molto comunicativo, autorevole, semplice, diremmo pianificante, di affrontare i problemi più complessi, i contenuti scientifici più oscuri. Il suo credito è rimasto praticamente immutato da allora e le bellissime immagini dalla natura[58], del cosmo, del corpo umano che si possono vedere entro il programma sono, a nostro avviso, la cifra di quel bisogno di “meraviglioso” mai sopito nel pubblico   che la televisione ha saputo rinnovare.

 

In campo culturale, poi, ci furono ottimi programmi come Uomini e idee del ‘900, di Emidio Greco e Vittorio Marchetti, una serie “filosofica” di analisi dei movimenti culturali e dei personaggi della prima metà del ‘900 andata in onda nel 1981. Nel 1982 va in onda la versione integrale di Ludwig di Luchino Visconti, e, nello stesso anno, Berlin Alexanderplatz di Fassbinder da Doblin. Grande impegno produttivo e felici esiti artistici si ebbero con Marco Polo di Giuliano Montaldo e, in una nuova versione televisiva a cura di Piero Schivazappa Quer pasticciaccio brutto de via Merulana da Gadda dopo il film di Pietro Germi. Comencini riportò su Rai due un film da un “classico” della letteratura minore come Cuore di De Amicis e poi si vide La neve nel bicchiere di Florestano Vancini su Rai Uno e La Storia da Elsa Morante nel ’86. Una rubrica culturale quindicinale molto bella era Cinema di Francesco Bartolini e Claudio Masenza con interviste in presa diretta e lingua rigorosamente originale se si trattava di divi stranieri; e un successo di pubblico eccezionale sul versante linguistico e letterario ebbe Parola Mia di Luciano Rispoli e Gian Luigi Beccaria, un gioco a quiz sulla lingua e la letteratura italiana che aveva il fine, realizzato per altro, di rendere fruibile e dolce l’utile, lo spirito del sapere umanistico della nostra tradizione.

 

Il nuovo clima concorrenziale fece in modo che la televisione si accendesse anche di mattina con un programma condotto da Nicola Badaloni e Elisabetta Gardini dal titolo Uno Mattina del ’86. Conteneva, come oggi, notizie, curiosità, interviste, tutta la cronaca sfuggita, non affrontata dal telegiornale e trovò grande seguito tra le casalinghe, fossero esse di Voghera o meno.[59]

 

Sul piano del giornalismo di approfondimento i programmi e i giornalisti migliori della scena negli  ultimi anni ’80 furono Linea diretta di Enzo Biagi, Samarcanda di Michele Santoro e Mixer di Giovanni Minoli. Il nuovo clima politico ed i buoni successi della sinistra consentirono inchieste non convenzionali sui mali e gli errori del nostro paese prima di allora considerate impensabili in televisione. Epocale in quest’ottica è da considerarsi un programma indagine come La Notte della Repubblica/ Il mondo del terrore di Sergio Zavoli sul tema del terrorismo italiano degli anni settanta ottanta. Oggi, su questa linea pare proseguire Report di Milena Gabanelli su Rai Tre, un giornalismo di inchiesta libero, o meglio, non asservito al potere, alle richieste della politica di parte come invece lo sono la maggioranza dei telegiornali.

 

         La novità televisiva è la rete Tre sotto la guida di Angelo Guglielmi. Vi si trovarono collaboratori di talento come Enrico Grezzi, capace di amare il cinema nelle sue molteplici manifestazioni e dunque senza pregiudizi verso cinematografie diverse da quelle hollywoodiane – oltreché ispiratore di un programma bello e controverso come Blob- oppure Corrado Augias col suo Telefono Giallo; per non dire di Andrea Barbato con i suoi editoriali sotto forma di Cartoline e Piero Chiambretti, “portalettere” scanzonato e irriverente, o tutti coloro che contribuirono alla programmazione con intelligenza e senso dello specifico televisivo, al punto da fare della rete Tre una delle avanguardie dello spettacolo in genere.

 

Alla fine degli anni ’80 la Rai aveva un numero di collaboratori che sfiorava i 50 mila e le spese per la loro retribuzione erano altissime. Finalmente la legge Mammì nel 1990 venne a, o fingeva di, sistemare le questioni aperte con l’ingresso delle private nel mercato televisivo. Per quanto riguarda l’antitrust nessuno poteva possedere più di tre reti nazionali; mentre per la pubblicità le nuove norme stabilivano un massimo di tre interruzioni per ogni film con durata compresa tra quarantacinque minuti e un’ora e cinquanta. Il tetto pubblicitario della Rai non doveva superare il 12% ogni ora e il 4% nella programmazione settimanale.

 

Un cambiamento importante per la televisione pubblica fu quello prefigurato dalla legge n. 206 del giugno del 1993. Il Consiglio di Amministrazione della Rai sarebbe stato composto da cinque membri nominati dai Presidenti della Camera e del Senato. Detto Consiglio sceglieva tra i propri membri, a maggioranza assoluta, il Presidente della Rai, che aveva la rappresentanza legale dell’azienda, e il Direttore Generale, d’intesa con l’assemblea dei soci della società. Forti furono le pressioni sul ordinamento del sistema radio televisivo nazionale.

 

La televisione era diventata così importante per la vita nazionale di ogni paese, sosteneva Karl Popper, che il suo mancato controllo rischiava di mettere in crisi le basi stesse della democrazia. Se la democrazia è la messa sotto controllo del potere politico, allora non ci può essere alcun potere politico incontrollato all’interno di essa. Nemmeno quello della tecnica, nemmeno quello della economia.  Quando si parlava di televisione in termini di potere ci si rendeva conto che il consumo medio quotidiano di contenuti televisivi del singolo individuo andava ben oltre l’occhiata casuale e che soprattutto i bambini erano le vittime inermi della violenza, dell’arroganza pelosa di certe emittenti[60]. Se la legge Mammì aveva provocato le dimissioni di cinque ministri[61], per altro prontamente sostituiti senza impaccio dall’allora capo dell’Esecutivo Giulio Andreotti, le leggi a venire non fecero altro che riconoscere, aggiustandone il tiro, la fotografia[62], che essa si era incaricata di realizzare: il duopolio Rai-Finivest. Il ’94 vide la discesa in campo, poi la vittoria elettorale e la conseguente ascesa alla presidenza del Consiglio dei Ministri del proprietario del polo televisivo privato.

 

         Del palese conflitto di interessi rappresentato dalla persona pubblica di Silvio Berlusconi non riusciranno ad occuparsi la legge “Meccanico”[63], che avrà comunque il merito di porre il problema dell’antitrust più volte sottolineato dalla Corte Costituzionale istituendo la Autorità delle Comunicazioni, né la n. 122 del 1998[64] che porrà il problema della “Par condicio”riguardante la parità di trattamento dei soggetti politici nei dibattiti e nei confronti televisivi. Ad una legge di riforma del sistema televisivo nazionale giungerà il  Ministro delle Comunicazioni di centro-destra Gasparri; essa verrà attuata dopo un accidentato iter nel 2004[65] e punterà sulle nuove possibilità offerte dalla digitalizzazione del segnale televisivo per realizzare un incremento degli introiti provenienti dal mercato della pubblicità. In Tv si parla ormai di Format come di architetture contenutistiche, di genere[66] che vanno bene per tutti i paesi e che sono visti da milioni di telespettatori. I canali, come la tipologia dei programmi, tendono a specializzarsi secondo diverse tematiche (calcio, fiction, cinema, sport, cucina, cultura, storia[67] ecc) e trasmissioni come Big Brother oppure Who wants to be a millionaire? sono al top degli indici di gradimento tanto che tutte le televisioni nazionali si affannano a studiarne varianti o integrazioni per soddisfare le richieste del pubblico locale[68].

 

         Nel quadro della cosiddetta guerra dell’Auditel, il sistema di rilevazione statistica dell’identità dell’utente televisivo come della quantità degli apparecchi accesi, nel 1998 Rai uno mandò in onda una fiction dal titolo Un medico in famiglia con Lino Banfi, Giulio Scarpati e Lunetta Savino senza dimenticare la grande Milena Vucotic, interprete buňueliana. Il programma ebbe un grande successo perché, sul modello di una programmazione passata, presentava vicende e intrighi molto rilassanti, distensivi, quasi a voler riprendere la tv “politically correct”, educatrice e guida di masse di memoria bernabeiana. In questa direzione va inquadrata la proposta di Padre Pio interpretato per Rai uno da Michele Placido e, in differente produzione, da Sergio Castelletto per Mediaset, uno sceneggiato sulla vita del frate di Pietralcina divenuto santo e capace di mobilitare oltre le previsioni le radici antropologiche profonde e la religiosità popolare del nostro paese.

 

In campo giornalistico un programma capace di conquistarsi la prerogativa di “salotto buono della politica italiana” è Porta a Porta condotto da Bruno Vespa dal ‘98. In risposta a Samarcanda del 1987 di un acre Michele Santoro accusato e, verrebbe da dire, “condannato” per una sua visione partigiana del giornalismo[69], Vespa fa della sua trasmissione una sorta di luogo cosmetico, un salotto, una terrazza romana dove spesso si aleggia in chiacchiere ridondanti e borie verbose; nonostante il suo successo presso i telespettatori, in realtà, e oltre i narcisismi o le strategie della visibilità care agli uffici di marketing, non è sempre facile riconoscere il filo sottile della realtà, la trama concreta degli eventi che cinge, avvinghia il nostro tempo.

 

Per quanto concerne l’evoluzione industriale della Rai basta scorrere l’indice dei link presenti sul sito web http://www.rai.it per accorgersi di come si sia modificata la sua struttura aziendale e produttiva dalla nascita. RaiSat, ad esempio, prende a diffondere immagini della nostra cultura nel mondo, ma anche contenuti radiofonici, tramite il satellite Olympus 1 fin dal 1990 e nuove strutture organizzative e gestionali prenderanno forma fino ai nostri giorni. RaiWay, sulla soglia del 2000, si verrà occupando della gestione dei nuovi sistemi digitali il cui fine è la convergenza tra informatica e telecomunicazioni e la trasformazione dell’apparecchio televisivo in una piattaforma di servizi interattivi. C’è poi Rai Cinema che si occuperà della produzione di fiction sempre più dominante nel palinsesto di qualsiasi televisione o Rai News 24 che risponderà alle richieste informative della comunicazione sincronizzata odierna.

 

Una iniziativa molto importante per la storia del nostro paese è certamente il recupero dei materiali provenienti dagli archivi della Rai[70].  Sono i nuovi padiglioni della memoria italica a cui si ricorre da più parti. La direzione Rai Teche nacque nel 1996 come direzione di servizio con l'obiettivo di recuperare e catalogare il patrimonio audiovisivo della Rai: le tecnologie allora disponibili hanno permesso di realizzare un catalogo multimediale con cui dal 1999 viene archiviato sia il materiale trasmesso della programmazione quotidiana che il materiale storico. Un supporto indispensabile per i nuovi storici e nuove meravigliose prospettive per la conoscenza alla cui guida, fin ab origine, c’è Barbara Scaramucci.

 

C’è poi Rainet che nasce nel 1999 e la cui mission, per dirla in termini manageriali, è quella di rendere accessibili a tutti gli italiani le nuove tecnologie internet moltiplicando le occasioni di consumo dei contenuti Rai. La costituzione di Rainet rientra nella strategia di un servizio volta ad accrescere la posizione della Rai sul mercato italiano dei media vecchi e nuovi. Il nuovo ordine punta all’accesso della globalità; le modalità di offerta dei contenuti Rai passeranno dunque attraverso la digital extension dei programmi radiotelevisivi di cui già ora Rainet ne cura la visibilità, la riaggregazione, la diffusione attraverso le più diverse piattaforme web. Inoltre, e per concludere, Rainet ha la responsabilità editoriale e produttiva del Video On Demand di RaiClick. Nuovi scenari tecnologici sono imminenti alla nostra esperienza: basti pensare al Digitale Terrestre, già attuato in alcune regioni del Paese o la High Definition del segnale che offre impensate possibilità al vedere ed è capace quasi di competere con la divina complessità dell’occhio umano. Il vecchio tubo catodico sarà sostituito da potentissimi processori numerici sparati dentro cavi, reti cablate, satelliti capaci di raggiungere gli angoli più inesplorati della terra. Volontà di potenza allo stato puro. E, tuttavia, le ipotesi sul domani, che possono apparire al limite della follia, non possono disconoscere che le novità più eclatanti degli ultimi anni sono venute tutte da quello specifico televisivo più volte richiamato, cioè dalla capacità del mezzo di raccontare in diretta la realtà nel suo apparire, nel  suo succedersi a volte  rivoluzionario, caotico o, perché no, nella sua apoteosi, come, ad esempio, l’ombra di delirio collettivo esploso dopo la vittoria dell’Italia ai Campionati mondiali di calcio. In diretta abbiamo visto la caduta del muro di Berlino o la destituzione di un tiranno come Ceausescu in Romania. Poi venne alla nostra tavola, come già ricordava Italo Calvino, la Guerra del Golfo, con la notte di Bagdad segnata dai bagliori dei traccianti delle contraeree e i soldati iracheni sconfitti che si arresero alla troupe del TG Tre, e, via via, gli altri eventi epocali come la carneficina delle Twin Towers o la seconda guerra in Iraq. Dunque, ancora una volta, la Storia con i suoi mille volti, con le sue innumerevoli manifestazioni, apparizioni, ma soprattutto la Storia nella molteplicità delle sue prospettive, dei sui stili, che sono tanti quanti lo sono stati gli operatori Rai, i registi, i collaboratori, le comparse che l’hanno raccontata e che l’azienda ha saputo portare all’onore della ribalta.

 

 

 

 

 

[1] Raffaele Mattioli, oltre che una grande figura di amministratore è stata una grande figura di mecenate a cui hanno reso omaggio tantissimi letterati italiani tra cui Carlo Emilio Gadda, Montale, ecc. Già presidente della Banca Commerciale Italiana, Mattioli, per la “repubblica delle lettere”, ebbe il merito di fondare la Collana degli Scrittori italiani presso Ricciardi, una raccolta di testi della nostra tradizione letteraria che ormai costituisce una specie di canone e che ha il suo corrispettivo nella prestigiosa collana degli scrittori francesi della Pleiade.

 

[2] Il nome del marchio attuale è Rai, Radio televisione italiana.

 

[3] Memorabile al riguardo il saggio di Umberto Eco: Fenomenologia di Mike Bongiorno.

 

[4] Febo Conti fu anche l’allegro e fiducioso conduttore del quiz per ragazzi: Chissà chi lo sa? I teleutenti vanno educati fin da bambini.

 

[5] Meraviglia di una televisione che non pensa ancora a vender creme e pannolini nelle cosiddette ore di punta.

 

[6] Marshall McLuhan, Quentin Fiore, Il medium è il messaggio, Feltrinelli, Milano, 1967

 

[7] In numero di sette su venti membri oltre alla nomina di Presidente, Direttore Generale ed Amministratore Delegato. Gli altri sono nominati dall’IRI che però dipende dal Ministero delle Partecipazioni Statali

 

[8] Pio XII rivolgerà un appello alla vigilanza ai vescovi italiani in occasione dell’inizio delle trasmissioni nel 1954 e qualche anno prima aveva nominato l’Arcangelo Gabriele patrono delle Telecomunicazioni.

 

[9] Non a caso importanti agenzie di marketing internazionale come la Young & Rubicam, la Thomson giungono in Italia, portando, con le merci del piano Marshall, anche nuove strutture specializzate nella ricerca del target di un prodotto, delle analisi motivazionali nella psicologia del cliente, delle quote di mercato, ecc..

 

[10] Così venivano definiti i trenta secondi di parte dedicata alla pura e semplice informazione pubblicitaria. Il messaggio era suddiviso in due parti. Una parte della durata di un minuto e quaranta cinque secondi, detta il pezzo, serviva, con una storia, a catturare l’attenzione degli spettatori, un’altra, detta il codino, a comunicare un prodotto.

 

[11] Chi non ricorda: “Bambina sei già mia, chiudi il gas e vieni via” oppure “Contro il logorio della vita moderna bevete  un Cynar”, o “Anch’io ho commesso un errore, non ho usato la brillantina Linetti”…

 

[12] Padre di Walter Veltroni.

 

[13] Aldo Grasso Storia della televisione italiana, Garzanti p. 60-61

 

[14] Era, infatti, autore di commedie.

 

[15] Con Giorgio Albertazzi lettore di un ciclo di novelle tra cui Verga

 

[16] Jane Austen

 

[17] Charlotte Bronte

 

[18] Antonio Fogazzaro

 

[19] Con Albertazzi, Proclamer ecc..

 

[20] Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita,edizioni Laterza

 

[21] Le commedie non potevano affrontare temi considerati scabrosi come il divorzio ad esempio…

 

[22] E’ noto l’episodio del giornalista Zatterin il quale nel dare notizia della approvazione della legge Merlin per la chiusura delle case di tolleranza riuscì a non pronunciare parole come prostituzione, ecc, perché bandite in Rai

 

[23] come si dice oggi

 

[24] Il ricercato frasario del professor Marianini o Marisa Zocchi che giocava per comprar le medicine alla madre malata.

 

[25] La Televisione, in Tempo Presente, Aprile del 1956

 

[26] Per il vero il programma venne esemplato su un modello americano, il quale poi, in tutto, il mondo vantò numerosi tentativi di imitazione.

 

[27] Personaggio che avrebbe certamente indirizzato lo spettacolo televisivo in molto più lucide e argute direzioni se non fosse deceduto in seguito ad un banale incidente sul palcoscenico di Verona.

 

[28] Che, tra l’altro, rappresentano uno dei primi esempi di eurovisione come le partite di Coppa delle Coppe.

 

[29] Primo incontro trasmesso Duilio Loi - Carlos Ortiz nel 1960.

 

[30] La passione per il calcio degli italiani è testimoniata anche dal numero delle testate giornalistiche quotidiane presenti in edicola. Attualmente sono tre, con la Gazzetta dello sport che vende copie in numero superiore addirittura oltre i giornali generalisti non specializzati.

 

[31] E’l’accusa che gli rivolge Aldo Grasso

 

[32] Che, tra l’altro, viene concordata con la dirigenza della F.I.G.C.

 

[33] Non è senza importanza rammentare come del periodo 1954-1961 sia stato conservato pochissimo negli Archivi della Rai per cui di un programma come Campanile sera si conservano soltanto pochi frammenti.

 

[34] Per una storia della Canzone italiana partendo da San Remo sono indispensabili i testi di Gianni Borgna.

 

[35] Intitolato Cristo proibito

 

[36] Sceneggiatore di Fellini

 

[37] Cioè legato ad un importante dirigente della Democrazia Cristiana, Amintore Fanfani.

 

[38] Aldo Grasso, Storia della televisione in Italia, Garzanti, Milano 2000

 

[39] Soldi per l’epoca. Bisogna pensare che l’Azienda poteva contare, oltre i proventi della pubblicità, sul canone di abbonamento annuale.

 

[40] Un piccolo passo di un uomo, un passo grande per l’umanità ….come si ebbe a dire. Degno di nota oggi è il fatto che la Nasa ha smarrito i nastri originali delle riprese video dello sbarco, dando perciò credito a quanti sostenevano che il tutto fosse una messa in scena progettata negli studi di Hollywood.

 

[41] Vecchietti fu curatore di un altro programma giornalistico importante come Cronache Italiane.

 

[42] Orlando era un giornalista che non scriveva una riga di quello che avrebbe dovuto dire ma semplicemente raccontava gli eventi come si fosse trattato di un racconto orale in una piacevole serata con gli amici attorno al focolare. Un gigante. Le veline di marca fascista un lontano ricordo.

 

[43] Tutte queste opere furono firmate da un regista discusso dalla critica ma certamente molto amato dal pubblico come Anton Giulio Majano.

 

[44] Gran consumatore di pipa, birra e uova sode.

 

[45] Il programma proveniva tuttavia, come molte produzioni di quegli anni, da un format americano, Candid Camera,appunto. Da non dimenticare anche il successivo Viaggio in seconda classe.

 

[46] Era lo stesso Nanni Loy che lo interpretava: un uomo, non potendo acquistare il cappuccino al bar perché indigente, chiedeva di poter però intingere una brioche nel cappuccino del vicino così da poter fare un po’ di zuppetta.

 

[47] oggetto di satira televisiva

 

[48] Un cinema d’avanguardia come quello di Carmelo Bene o certe tematiche particolari sono inproducibili per un ente televisivo che ha come target un pubblico di famiglie, un pubblico normalizzato.

 

[49] Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes

 

[50] Vincitore del Premio Nobel per la letteratura.

 

[51] In coppia con l’amico e grande creatore di programmi per la Rai, Gianni Boncompagni.

 

[52] Nel nome evocava il celebre mercato londinese.

 

[53] Logo delle reti di Berlusconi

 

[54] Esattamente al contrario di quello che si pensa, cioè che la pubblicità venga per acquisire clienti per i propri prodotti, la televisione commerciale vende fasce di pubblico, cioè tipologie di utenti consumatori alla pubblicità.

 

[55] Karl Popper, Cattiva maestra televisione, Donzelli editore.

 

[56] Da Ronald Regan presidente repubblicano e conservatore degli Stati Uniti d’America.

 

[57] Il cui sistema di misurazione verrà attribuito all’Auditel nel 1986, una società specializzata, tra molte polemiche e falsificazioni.

 

[58] Acquisiti, per il vero, senza badare a spese nei mercati della produzione televisiva internazionale come quello di Cannes, ad esempio.

 

[59] C’era la convinzione più o meno scientifica che le casalinghe di Voghera fossero il pubblico ideale sul quale svolgere indagini di mercato e gradimento dei programmi televisivi.

 

[60] Un film rivelatore in questo senso è il magnifico Ginger e Fred di Federico Fellini, sulla giornata televisiva di una coppia di anziani ballerini in un programma di varietà.

 

[61] Appartenenti alla sinistra democristiana

 

[62] Si disse che la legge Mammì non facevo altro che fotografare una situazione di potere esistente.

 

[63] Legge 249 del 1997

 

[64] Cosiddetta Veltroni-Vita dal nome degli onorevoli proponenti.

 

[65] Con rinvio alle Camere dell’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

 

[66] Che, per altro riprendo la funzione dei generi letterari quando la letteratura dominava ancora incontrastata nell’immaginario sociale.

 

[67] Degno di particolare menzione di pare la Produzione denominata History Channel, come,  per ora solo in Francia e Germania, Art Channel.

 

[68] Isola dai famosi, Grande fratello o le diverse tipologie di quiz come Il milionario, L’eredità, ecc..

 

[69] Lo stesso Santoro assieme ad Enzo Biagi e i comici Daniele Luttazzi e Sabina Guzzanti venne accusato pubblicamente da Silvio Berlusconi e quindi escluso, assieme a loro, dal presentare nuovi programmi in Rai. Un film come Raiot di Sabina Guzzanti ne ha fornito una esauriente documentazione.

 

[70] Materiale video proveniente dalla programmazione storica ma anche audio. Non di dimentichi che la Rai ha sostenuto un eccellente corpo orchestrale la cui produzione è stata conservata.

Ogni curriculum ha bisogno di una presentazione. Non è facile presentare se stessi attraverso le normali strutture dell'argomentazione perché generalmente s'incorre in due pericoli opposti: da una parte quello di dare un'immagine irreale di se, fantasiosa, che, oltretutto finirebbe per non chiarire nulla del fine professionale dello scritto in quanto ausilio al curriculum, dall’altra quello di ricercare una sorta di obiettività, una verità assoluta la quale, soprattutto se il soggetto è al contempo l’ oggetto del racconto, si rivela sempre inattingibile. Io credo poi che, nell’era della comunicazione mediale, non si possa fare a meno della presenza fisica dell’interlocutore, il cui linguaggio, il linguaggio del corpo intendo, ha forse una più densa rilevanza espressiva di quanto non abbiano le parole, se non altro perché utilizza quelle codificazioni inconsce che sono patrimonio  collettivo sviluppato dall’umanità lungo i labirinti del tempo.

Sono nato a Casalecchio di Reno, Bologna, il 2 Novembre alla fine degli anni '50. A seconda delle credenze antropologiche c’è chi considera questo giorno che segna ufficialmente la morte della natura nelle culture antiche, fausto o infausto. Tra i vari complessi di inferiorità che ho volentieri coltivato negli anni può essere annoverato anche questo: essere nato il giorno dei morti. In realtà, oltre il problema delle credenze, sono grato a queste debolezze, e anche a coloro che sadicamente le hanno create,  perché mi hanno motivato a ricercare quella indipendenza dal giudizio altrui che considero la principale conquista della personalità umana, la sostanza vera ed il fondamento della sua libertà.

Sano abbastanza da superare con relativa tranquillità le minacce alla salute dei primi anni di vita, in anni in cui la sanità non aveva ancora fatto passi da gigante, ciò che ritorna di quel periodo sono i luoghi. Abitavamo in una piccola casa con giardino alle porte della città e nelle afose domeniche d’estate si mangiava all’aperto, sotto un pergolato d’uva e un fico che producevano un ombra assai piacevole. Ricordo quando mio padre mi sollevava in alto perché cogliessi i primi chicchi maturi, o quando mia mamma, con modo spiccio, mi infilava a fare il bagno dentro una tinozza di metallo usata altrimenti per il bucato. L’acqua mi piace, non mi fa paura;  pare sia dominante anche nella mia configurazione astrologica. Mi piacque anche quella volta, all’età di quattro anni, quando finii per ruzzolare vestito dentro un canale  che costeggiava la casa. Un canale dove le donne della zona, in ordine su gradoni di pietra, andavano a lavare i panni. Per fortuna due buoni uomini si buttarono prontamente e mi ripescarono dai flutti avvolgenti. Me la cavai bene, se si esclude lo spavento della mamma ed un interrogativo che non mi ha abbandonato: cosa cercavo, cosa chiedevo all’acqua?

Nulla. Forse, semplicemente, avevo calcolato male i passi per via di uno strabismo congenito che modificava la mia percezione visiva. Vedevo male. Fu il mio primo intervento chirurgico, nel ’63, all’età di sei anni. L’Italia seguiva costernata le notizie della tragedia del Vajont ed io soffrivo per una bendatura forzata di sei lunghissimi giorni immobile su un lettino presso la clinica oculistica del Sant’Orsola di Bologna. Il risultato clinico dell’intervento fu scarso. Non corresse lo strabismo e da quel momento cominciai a portare gli occhiali, a frequentare centri di ortottica.  Riuscii a superare il trauma un po’ con l’esercizio, un po’ con la consolazione, sostenuta dalle mie compagne di classe, che si trattasse di uno strabismo venusiano.  Intanto dei negozi di occhiali ero diventato uno dei migliori clienti. Inoltre, giocando a calcio, non passava mese senza che una pallonata li mandasse in frantumi. Ero abbonato.

Per fortuna esisteva la Mutua che si assumeva le spese terapeutiche. Stava vicino casa e si facevano delle file interminabili per adirvi; anche mezze giornate. L’unica volta che non feci fila fu quando un medico cane, con due coltellacci, mi strappò di gola le tonsille. Non si faceva che una debole anestesia locale a quei tempi e come anestetico per i bambini, ma  solo per loro, c’era un gelato. Si mandava giù panna e sangue raggrumato: una vera novità commerciale.

I miei lavoravano tutto il giorno in fabbrica, ed io passavo la maggior parte del tempo in cortile con gli amici o dal nonno. Quartieri popolari, in periferia, che crescevano in groppa ad un paesaggio dolce ed ondulato. Un piccolo mondo antico, proprio vicino a casa, che se ne andava mentre si edificava l’autostrada Bologna- Firenze. Un pezzo della quale fecero passare proprio nel giardino della bellissima villa Marullina, una villa del ‘700 ancora abitata dai suoi discendenti nobili, i quali quasi non avevano alzato la voce per protestare lo scempio: era una grande arteria vitale alla salute della nazione. Un mondo che moriva. A quel tempo le nevicate erano copiose e le strade ne risultavano coperte anche per mesi. Io andavo con i calzoni corti”a fare le palate”con gli altri e ce ne tiravamo certe ghiacciate che facevano male. Sebbene non li veda più da anni i miei amici prediletti restano loro: Lorenzo, Enzo e Massimo.

Eravamo nati tutti nello stesso anno, nel giro di una stessa settimana ed eravamo molto affiatati. Certo, non mancava competizione, invidia, gelosia, ma tutto si svolgeva in un gioco circolare che comprendeva anche la riconciliazione, le scuse e la promessa di non ripetere il peggio. Mi ricordo anche dei loro genitori e delle merende che si facevano in casa dell’uno, dell’altro, sempre attorcigliati da una fame divorante. Dato che i miei lavoravano in fabbrica, passavo la maggior parte del tempo in solitudine, e facevo volentieri la parte del bambino orfano bisognoso d’affetto. Per la ricorrenza del primo dell’anno si andava a fare gli auguri nelle case del quartiere. O meglio, a scassare i campanelli delle persone ancora addormentate che avevano passato la nottata in festa. Alcuni ti salutavano di buon grado, perché era considerato di buon auspicio l’augurio di un bambino. Si riceveva la ricompensa di cinque o dieci lire e si mettevano tutti da parte in un libretto in banca. Formiche si nasce…ed arrabbiate si diventa. Quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo l’ingegnere navale. Forse era un mestiere che avevo sentito pronunciare alla TV con particolare cerimonia. Io credo però che sia un ricordo di una vita passata. I significati psico - simbolici connessi sono l’interpretazione che preferisco.

Del periodo delle elementari ricordo il maestro Zoli, un tipo entusiasmante. Sapeva raccontare la storia del Risorgimento italiano come non l’ho sentito fare all’Università. Ci metteva l’anima, ti faceva sentire carbonaro, ti leggeva il libro Cuore con voce accorata, autorevole, da grande istrione e gli austriaci erano nemici che volevano impadronirsi proprio del tuo mondo. Io sentivo una affinità particolare per i rivoluzionari, per i sognatori in generale, mi identificavo nelle loro sofferenze, nelle loro speranze, forse perché uno dei pochi libri che adornavano la mia povera libreria era Le mie prigioni di Silvio Pellico, un libro che leggiucchiavo di tanto in tanto e che ci avevano imprestato assieme a Guerra e Pace di Tolstoj. Edizioni Mondadori in caratteri bodoniani e bella carta color crema, spessa e resistente. I libri mi piaceva toccarli se non leggerli, erano come belle donne al tatto. Allora andavo sempre a casa della zia Adolfa ( povera zia, con un nome così ) che faceva una piccola attività per conto di altri e nel frattempo mi faceva fare i compiti, mi insegnava a scrivere, a parlare. Aveva una figlia, Elena, che faceva le scuole medie, ed era bella e brava. Mi piaceva, ma non glie l’ho mai confessato. Lo saprà oggi, ma non sarà uno scandalo, perché comunque lei non ci pensava, impegnata com’era nella pratica di guardarsi allo specchio e di trovarsi fenomenale.

 Alle scuole Medie, in seconda, venni rimandato in Scienze. Non avendo soldi per lezioni private trovammo un doposcuola presso un servizio sociale del Comune che era tenuto da studenti universitari. Alla mattina loro andavano a farsi spaccare la testa nelle manifestazioni operaie che si svolgevano in piazza mentre al pomeriggio, ancora tutti fasciati e sanguinanti, facevano ripetizioni. Tra manifesti del Che ed inni alla rivoluzione gli insegnanti intrecciavano amori e a volte capitava di dover andare a far giri nel parco in attesa che i lavori in corso terminassero. A Settembre feci un figurone all’esame, e la Prof. di Matematica e Scienze quasi piangeva per i progressi che avevo riportato. Delle Medie indimenticabile era il Prof. Rocca, di Educazione Artistica. Era simpaticissimo e soprattutto mi teneva in considerazione. Apprezzava i miei cartelloni pubblicitari, le mie terrecotte, il mio stile: sentivo, forse per la prima volta, che qualcosa, frutto del lavoro della mia propria anima, veniva apprezzato. C’era poi quella di Italiano, una bella donna che non si era sposata la quale, nei momenti di pausa, ci spiegava come dovesse essere preparato il sugo alla bolognese. Doveva bollire a fuoco lento non meno di tre ore. Quando, all’età di trent’anni, provai a mettere quei consigli in pratica, mi ritrovai con un pastone bruciacchiato e con il fondo della pentola definitivamente compromesso. Forse non avevo seguito attentamente la procedura, distratto com’ero dalle ragazze.

 Ce n’erano di carine nella nostra classe ed il principale esercizio erotico, oltre a quello praticato in solitudine privata, era il palpare. Durante l’intervallo, i più arditi, svolgevano dei veri e propri assalti. Le spingevano contro i cappotti allineati sugli attaccapanni e recitavano scene erotiche fantastiche tra grida di terrore o risatine compiaciute di quelle più emancipate. Un bidello dalla testa calva, che aveva fatto il militare in epoca fascista, interveniva a riportare l’ordine ma certe volte non disdegnava di allungare le mani, sempre però nell’ottica dell’ordine da restaurare. All’età di quattordici anni cominciai a fumare. Comprai un pacchetto di Presidente dal distributore automatico e assieme al mio amico Roberto, detto Aguirre, Furore di Dio, ci facemmo una capanna di sterpi in mezzo ai campi e lì andavamo a fumare. Non c’erano divieti, anche i miei zii fumavano, ma quando mio padre scoprì un pacchetto di MS da dieci nascosto in garage mi diede un paio di sberle. Da quel giorno non ha smesso di tormentarmi come una tortura cinese. Io solo oggi, che ho quarantatre anni, sono sul punto di cedere. Hai vinto, babbo.

Quando venne il momento di decidere la scuola superiore da intraprendere, i miei mi mandarono ad un istituto tecnico, come del resto tutti gli altri. Era il suggerimento degli insegnanti della Media, anche se ogni ordine era aperto alla scelta personale. Forse il Prof. Rocca non era intervenuto, forse il fatto che le industrie locali erano le principali committenti di personale, venni indirizzato alla Meccanica. La scuola è sempre stata in mano a deficenti, nulla è cambiato. Perché non  si guarda in faccia alle persone? Quell’estate conobbi Lorena. Era una bambina di quattordici anni, graziosa, bionda, con gli occhi azzurri, con un sorriso lucente stampato sul volto, un volto radioso, chiaro, di pesca. Era cliente della macelleria dove quell’estate andai a fare il garzone. Il pomeriggio ci incontravamo in piscina ed io facevo un po’ il bulletto sul mio Mister College Prototipo, un motorino che mi aveva regalato la mamma. Non credo di averla nemmeno baciata; certo mi sembrava impossibile che una ragazza potesse essere interessata alla mia persona ed io sinceramente non sapevo da dove cominciasse l’amore. La storia finì alla ripresa scolastica tra emozioni e improvvisi rossori, ma il bel ricordo non è mai cessato.

Le scuole superiori erano un altro mondo, erano le scuole di città, con gente proveniente da i più diversi posti, dalle storie più disparate. Casalecchio era abitata da gente proveniente, più o meno, dallo stesso ambiente sociale. Era gente di montagna, di campagna, uomini e donne che si erano trasferiti in città al termine della guerra in cerca di lavoro in una delle fabbriche che stavano nascendo. Era gente che aveva patito la fame, la miseria più nera, la perdita dei propri cari durante il conflitto, gente che parlava il dialetto e che non aveva studiato e non possedeva ne la televisione, ne il telefono. Si acquistava a rate la prima cinquecento e la domenica andavamo a trovare i parenti.

Alle scuole di città, del centro, il mare si allargava. Potevi incontrare figli di emigrati meridionali, stranieri, gente di colore diverso dal tuo, potevi incontrare i rampolli della borghesia bolognese, ragazzetti tutti strafottenti e azzimati, pieni di fisime che ti guardavano dall’alto al basso come se fossi sudicio. Veramente loro non facevano le scuole tecniche, ma venivano indirizzati al Liceo. Ma i nostri padri, in risposta responsabile e ponderata, dicevano che a fare il Liceo si perdevano cinque anni di tempo a studiare Latino e Greco, Matematica e Scienze, mentre invece era molto meglio imparare un mestiere o fare un corso di Libri Paga…La nostra inferiorità si esprimeva anche nelle nostre scelte.In un ambiente relativamente asfittico, si cresceva, si giocava a calcio, si sognava, si osservava gli altri più svegli e ci si adeguava.

Mi piaceva vestire alla moda, con jeans Sisley, con le “fanghe”di Franco, e mi atteggiavo anch’io a fare il”fighetto”. Andavo in discoteca al Ciak e compravo Uomo Vogue ; nei momenti di tristezza leggevo i fotoromanzi di Franco Gasparri e volevo diventare bello come lui per avere molte donne. Al Bar, chi aveva provato la sensazione di un rapporto sessuale completo con una ragazza raccontava meraviglie, e c’era anche chi di donne ne prendeva magicamente una via l’altra. Dei veri fenomeni che mi incantavano e che mi sembra, se frugo nella memoria, distinguere ancora oggi. Mi sembra di vederli col loro fare un po’ donchisciottesco, quell’aria da marionette che attraversano il tempo nel gesto di una posa ossificata, nello svolgimento esclusivo di una direzione.Si nutrivano di liquori, di sigarette, di pomeriggi al Bar, di sfottimenti, di fantasiose cacce, di prestazioni eccezionali, di gioco del biliardo, di noiosissime partite a carte. Le spose con le tette all’aria negli assolati paludamenti d’estate, le spose emiliane, passavano sculettando davanti alla schiera dei vitelloni al bar, e ridacchiavano sotto i baffi mentre rifilavano splendidi scapaccioni ai figli un po’ tonti ed imbranati che portavano lenti spesse e venivano rimandati in Applicazioni Tecniche. ….

Per mantenere queste vanità modaiole, il sabato e la domenica cominciai a lavorare  presso l’ambiente un po’ esclusivo del circolo del Tiro a Volo. Era frequentato da ricconi con il ventre debordante e da nuovi ricchi che il recente risveglio economico aveva beneficato. C’erano nobili, professionisti di vaglia, professori universitari. Facevo i lavoretti che fa un piccolo servitore, andavo a raccattare piccioni morti, caricavo pile di piattelli, verniciavo cassette. Col tempo sono diventato uno speaker delle gare molto bravo e lavorai anche ai Campionati Mondiali . Quel piccolo mondo a parte fatto di maggiordomi, di automobili luccicanti, di partite a canasta e di splendide donne sofisticate,  rispetto al mio piccolissimo, aveva il vantaggio di insegnarti alcune cose della vita che è sempre meglio sapere. Entravano in scena dei veri ricchi e, a volte, indulgevi a specchiarli, li ponevi a modello. Allora il sentimento della vita, sollevato dalle necessità economiche primarie, si faceva quasi più metafisico, acquisiva un valenza esistenziale. Mah..!

In questo periodo la mamma si ammalò. Una malattia grave, per cui si temette anche per la sua vita. Con le cure che si praticavano in quel periodo trovò un sollievo, ma il male doveva ritornare più avanti. Per fortuna si è risolto tutto bene. Tocchiamo ferro. Comunque nessuno di noi pensava che la mamma  se ne potesse andare. Era al centro delle nostre necessità, la loro fonte primaria di soddisfazione. Benedetta sia anche la vocazione che l’ha voluta a condividere la nostra esistenza come la più cara delle madri. E in bocca al lupo.

A scuola si perdeva tempo, non c’erano soddisfazioni personali, non c’era creatività, non si prendevano decisioni, non si produceva nulla di buono. Inoltre forti tensioni sociali percorrevano il corpo cittadino e scolastico. Nella mia scuola si lanciavano le cattedre dalle finestre, si bruciavano i registri, si distruggevano i laboratori. Io andavo alle manifestazioni di piazza con gli operai, con gli studenti universitari e i bersagli dei nostri insulti, nel nome di un comunismo utopico, erano gli eterni governi democristiani, Cossiga, Andreotti. Oltre alle manifestazioni politiche, Lotta Continua, Potere Operaio, non disdegnavo le partite di biliardo, così che obiettivamente il tempo trascorso in classe era scarso. Fui bocciato in terza, giustamente. Per la Meccanica non avevo che un debole interesse.

 Una risposta al disagio di quegli anni non venne dalla politica, bensì dalla discoteca. Stava partendo il cosiddetto riflusso dalla partecipazione politica, e le persone si rifugiavano nel privato dei loro interessi semplici come risposta alla crisi del sociale. Non sono sicuro di ricordare bene ma mi sembra che l’inflazione avesse raggiunto il livello del venti percento e l’economia fosse attraversata dai grandi scandali delle industrie statali ed anche dal tentativo di colpo di Stato del Gen. De Lorenzo denunciato da Eugenio Scalfari. Camilla Cederna costringeva alle dimissioni il Presidente della Repubblica ed io andavo al Ciak con i ragazzi della compagnia della baracchina.

La febbre del sabato sera si curava al Ciak. C’erano le ragazze più belle di Bologna, la musica d’importazione direttamente dagli Stati Uniti d’America, luci sofisticate, tecniche di diffusione sonora all’avanguardia. Un altro mondo, dove si poteva fumare in pace, baciare le ragazze arrotolandosi dentro cascanti tende di velluto, guardare pettinature, scarpe, vestiti, sparare malignità e farsi guardare. La musica alta, oltre a fare barriera per rifugio di nuove sensualità, non consentiva molto altro, e del resto noi non avevamo granché da dire. Inizia un periodo di allegra illusione, di sorridente e sorda ignoranza, la città dell’anima viene esplorata partendo dalla sua periferia anonima e industriale, ma di ciò avrò coscienza solo più tardi.

La musica da discoteca mi piaceva veramente. Acquistavo le ultime novità e restavo sveglio alla notte per ascoltare le trasmissioni musicali dei più famosi disc-jockey a Radio Montecarlo, a Radio Lussemburgo, alla Rai, e ne scimmiottavo la voce, il gergo, gli atteggiamenti. Quasi clandestine, nascevano allora le prime radio private o, come si diceva, libere. Libertà veramente non praticata, perché, a parte il caso di Radio Alice che si spingeva a raccontare gli spostamenti della Polizia durante le manifestazioni, o le imprese degli alternativi mentre praticavano coiti in diretta, le altre imitavano il modello della radiodiffusione pubblica; e le copie che ne risultavano erano deprimenti. Al bar, dove trascorrevo la maggior parte del tempo, conobbi Stefano Scandolara, un tipo simpatico che scriveva canzoni per Mina, la Vanoni, il quale mi fece conoscere Tarantini, un radioamatore solitario e ingegnoso, che aveva installato un’antenna e trasmetteva musica balcanica da un vecchia villa diroccata sulle colline della Croara, a Bologna. Cercavano gente giovane per fare nuovi programmi. La chiamavano la casa degli spiriti: indizi di messe nere e pratiche religiose proibite spuntavano bruciacchiate tra i ruderi e le erbacce: era la casa di Radio Bologna Notizie.

Una svolta alla mia vita impresse quell’incontro. Tutti i complessi di inferiorità, le debolezze, le ignoranze, i lacrimanti bisogni che avevano contristato il mio passato, ripiegavano nell’ombra. Ero un disc-jockey. Sul palco, sotto l’occhio brillante del riflettore, c’era la mia nuova voce, calda, sensuale anche se un po’ fessa, che metteva in scena una bonarietà sempliciotta, facilona, che faceva l’americana, la spigliata sorridente, ma soprattutto c’era la disco-dance, leggera e spensierata come una frizzante coppa di Champagne, c’era un nuovo ottimismo. Ricevevo letterine di ammiratrici, attestazioni di stima inaspettate, avevo spasimanti bellissime che, altrimenti, non avrei mai saputo conquistare. Ogni giorno si facevano nuove conoscenze, ogni giorno c’era una città da far divertire, da far giocare, da rilassare, da innamorare con la musica giusta e la giusta situazione. Conobbi tanti artisti che diventarono famosi o si dannavano per diventarlo proprio in quegli anni: Gianna Nannini, Vasco Rossi, Umberto Tozzi, Renato Zero; ogni tanto passava da noi Lucio Dalla, e ci divertivamo sempre moltissimo con Giancarlo e Miki, i disc-jokey del Ciak, che mi avevano introdotto nel mondo delle discoteche e mi facevano fare delle serate retribuite.

Dopo Radio Bologna Notizie lavorai a TeleRadio Bologna e a Punto Radio. Mi ubriacai di quel mondo, ne ero come drogato, tra le paludi della identità era affondata una nave ed io ero quel relitto. Quando si è giovani bisogna studiare molto, faticare, aprirsi all’esperienza e superare ogni genere di difficoltà per fortificarsi, per crescere sani e robusti. Io diventavo ogni giorno più fragile, molle, prigioniero di quel fallace successo pubblico, chiuso in un narcisismo vacuo. Mi ero lanciato come Icaro in una impresa empia, quella di fare piazza pulita di tutte le ombre dell’anima, attratto dalla bellezza del Sole, ma ora le mie ali si scioglievano, ora, a terra disteso, bevevo da una fonte velenosa; avevo acquisito una falsa percezione di me stesso che presto sarebbe sbocciata in crisi.

Non grave, ma crisi autentica. A una scuola privata, per puro caso, riuscii a diplomarmi geometra assicurando la commissione esaminatrice che mai e poi mai avrei fatto quel mestiere. Bisognava pensare al futuro. I miei compagni, giudiziosi e determinati, interrogavano i parroci e sceglievano le strade della professione, si fidanzavano con le ragazze che io scartavo in discoteca e prolificavano. Io interrogai una maga e, quando mi disse che il mio futuro sarebbe stato nel cinema, le credetti.

Primo: per fare cinema come lo intendo io bisogna essere colti, avere senso estetico, intelligenza acuta, bisognava saper recitare e scrivere, dirigere attori. Io abitavo agli antipodi: non avevo letto che un paio di romanzi in vita mia, non ero molto intelligente e che avessi un minimo di senso estetico era da dimostrare. Però amavo il cinema. A Ottobre mi iscrissi alla Facoltà di Lettere incurante delle conseguenze che una scelta del genere, se portata a compimento, poteva comportare. Giusta la profezia, volevo diventare un grande regista ma prima bisognava debellare l’ignoranza con solidi studi. Iniziò così un periodo di studio matto e disperato. Avevo lasciato le discoteche e mi ero ritirato in un luogo romito, nutrendomi solo di bacche e latte di capra;  la mia sola ossessione era il cinema, e una fame divorante, onnivora, di sapere, di cultura. Io che sapevo appena la grammatica, quando non leggevo i classici della letteratura frequentavo malinconici cineclub.. Mi piacevano Fellini, Antonioni, Bergman, Visconti, Fassbinder, Moretti: certe volte parlavo con loro di notte in sogno, ma volentieri anche di giorno, da solo, in strada. Verso Febbraio dell’anno successivo chiesi aiuto all’analista.

Dall’analista non persi molto tempo. Era bravo e, invece di ricorrere ai farmaci, mi insegnò il training autogeno, la pratica respiratoria che aiuta a rilassarsi e a ritrovare la concentrazione. Inoltre mi aiutavo con letture di libri di psicologia e, dunque, oltre a quel bravo dottore, va a Carl Gustav Jung il merito di avermi salvato da certe fobie. In quel periodo ebbi anche una storia d’amore che durò più a lungo del solito, con la presentazione ufficiale ai genitori di lei, le visite ai parenti, i regalini..quando vi sposate, quando avrete dei figli..io mi sentivo single nell’anima anche se sapevo amare, provare il fuoco della passione, soffrire. Mi dispiace Patri, ma non so che dire. Gli esami all’Università, pur con la fatica di dover fare ogni volta tutte le cose partendo dall’inizio, procedevano. Avevo fatto la conoscenza di un gruppo di amici molto studiosi e brillanti. Assieme a Paolo, Gabri, Chiara, Giuseppe, Caterina, Andrea, Teresa stavamo bene e andavamo alle conferenze, ai concerti, ai musei, al cinema. Non perdevamo una lezione di Raimondi, il nostro maestro, ma anche di Volpe, Guinzburg, Traina, Eco. L’Università non costruiva solo una professione, ma diventava anche una avventura dell’intelletto,una impresa conoscitiva che dava un possibile senso alla nostra crescita e, in generale, alla nostra vita.

Mi sono laureato in Letteratura Umanistica con l’ottimo Prof. Gian Mario Anselmi discutendo una tesi sulla Cronica di Anonimo Romano, un testo del trecento molto interessante nel quale si narravano, tra l’altro, le imprese di Cola di Rienzo, in una lingua volgare medio - centrale molto vivace e colorita. Ricordo la tesi come la cosa più interessante di quel periodo. Frequentavo le biblioteche d’Italia, scrivevo, facevo ricerche che non erano state tentate prima, insomma cominciavo a mettere all’opera il duro lavoro dell’apprendimento compiuto. Il risultato fu soddisfacente e mi laureai il 25 novembre 1983 con 110/110. Potevo dirmi soddisfatto, congratulare me stesso oltre agli amici che mi hanno aiutato a superare le difficoltà, perché alla partenza del percorso universitario mi ero presentato come un assoluto novellino. Ora sapevo la Grammatica, la Poetica, la Retorica e un claudicante Latino. Subito dopo la tesi ebbi anche la possibilità di collaborare ad una importante pubblicanda Storia del Cinema. Facevo delle schede di autori, compilavo delle bibliografie, andavo al cinema. La vita cominciava a prendere forma.Ma mi chiamarono a fare il servizio militare dopo appena un mese. Avevo ventisei anni. Destinazione Albenga, Centro Addestramento Reclute Bersaglieri.

Il servizio militare così come l’ho fatto non è servito assolutamente a nulla. Mi avessero insegnato la nobile arte della guerra, le armi, le tecniche, le strategie, direi diversamente, ma fatto come si faceva in quel periodo, da soldato semplice, non serviva assolutamente a nulla. Una grave perdita di tempo: marce, vuote giornate a guardare il nulla, nonnismo. Dopo Albenga venni inviato in Friuli a Sequals: peggio che peggio. Qui venni raggiunto dalla notizia della morte di mio nonno, la persona che aveva guidato, accompagnato con amore e affetto tutta la mia infanzia, la mia giovinezza. Provo ancora oggi un groppo allo stomaco mentre lo saluto. Dopo un mese fui trasferito ad una caserma di Bologna dove più agevolmente cercai di organizzarmi. Ebbi modo di conoscere il Generale Marchi, Comandante di Brigata, un grande uomo, che mi diede la possibilità di dedicarmi agli studi e di svolgere una attività più consona al mio curriculum. Mi aiutò anche a lavorare nel giornalismo. Non si è fatto nulla, ma lo ringrazio sentitamente.

Al termine del servizio militare feci qualche articolo per “Il Resto del Carlino”, il quotidiano nazionale, ma sinceramente non mi vedevo nella parte. Il giornale trombetta compiacente, riverente, mieloso non fa per me. Io credo che oggi ci sia il problema dell’informazione e mi piacerebbe offrire il mio contributo, ma le scuole di giornalismo, le redazioni, lo stesso Ordine dei giornalisti sono come fortini asserragliati nel deserto, come ignari di una realtà molto più sorprendente e complessa di quanto loro siano in grado di raccontare. Certo il controllo dell’informazione vuol dire anche potere, la politica, il governo della polis, ma io credo che l’unica città che valga la pena di governare sia quella dell’anima e su questo territorio, se Dio vuole, fino ad oggi non s’è visto nessuno che possa dirsi signore. Anche perché nessuno, per citare un saggio greco, conosce i confini dell’anima, sia quelli che si estendono nello spazio, che quelli nel tempo o chissà quale altra dimensione.

Dato che non mi andava di fare l’insegnante volli provare in Rai. Allora la Rai sosteneva artisti, scrittori, registi, sceneggiatori, era un centro di produzione dove transitavano tante belle teste e tutto ciò poteva servire al mio fine. La televisione mi piace; è fenomenale nel fare realismo, nel raccontare lo sport, è stata la mia balia da bambino. Nella nostra famiglia era sempre accesa e la nonna addirittura teneva una conversazione tutta personale con Emilio Fede. Parlava con lui mentre presentava il telegiornale cosicché non si capiva mai niente. Quando mi presentai all’ingresso della sede locale di Via Alessandrini un corpulento usciere mi fece compilare un modulo e, in tutta confidenza, accennò al fatto che occorreva essere raccomandati, avere padrini politici, altrimenti la pratica sarebbe caduta nel vuoto. Nel vuoto caddi lo stesso, nel vuoto caddi cercando un padrino politico.

Era l’onorevole XXXXX, democristiano, amico di amici, in passato anche consigliere di amministrazione Rai. Mi indirizzò al suo amico capo struttura, socialista, il dottor YYYYY, il quale dopo un breve colloquio mi fece stendere il progetto di alcuni possibili programmi radiofonici. Ne scelse uno sulla vita notturna bolognese. Il titolo si ispirava ad un film di Iosseliani: I Favoriti della Luna: dovevo fare una inchiesta in tredici puntate sulla dolce vita a Bologna. Iniziai a Maggio. Lavorai sodo per un mese. Il programma era carino. Lo conservano le teche. Bello il palcoscenico. Belli gli applausi. La struttura programmi della sede regionale chiuse dopo un mese. A Bologna restava una redazione giornalistica ma non un centro di produzione. Sfiga.

Nei due anni successivi feci il supplente di Italiano e Latino, sognai, scrissi molte cose che non pubblicai e mandai una mia opera, un raccontino giallo di quindici cartelle al Concorso del MystFest di Cattolica, dove si teneva un festival dedicato al genere giallo, al mistero. Non vinsi. Si intitolava La Regina delle Nevi e raccontava di un giovane scrittore narcisista e talentuoso e di un ragazza che non riusciva a smettere di drogarsi. Un po’ di confusione, ma c’era qualcosa di buono e i miei amici lo trovarono non male come prima prova. Provai anche con il teatro.

Era una piccola compagnia di ragazzi diretta da una mia amica. Facemmo delle piccole cose shakespeareane e le presentammo alle Feste Medievali di Brisighella. Teatro in piazza, tra la gente, sulle panche dei banchetti, sui bordi delle fontane. Benino, applausi. Il teatro è un’arte perfetta ed è un peccato che sia tenuto così in discredito nel gusto collettivo italico. Bisogna insegnarlo a scuola, così anche i ragazzi più reticenti bevono la medicina a volte amara della Letteratura. Il teatro è letteratura pura.

In questo periodo feci anche una interessante esperienza di venditore porta a porta per la Vorwerk Folletto, aspirapolvere, scope elettriche etc. Molte porte sbattute in faccia senza ragione, molta rabbia, poco denaro, ma esperienza importante. Bisognava vendere la propria credibilità nei primi venti secondi di contatto con le persone, bisognava mostrarsi la persona giusta al momento giusto in grado di risolvere il loro problema terribilmente importante. Bisognava interpretare una parte e fare un lavoro su di sé del tutto simile a quello di Stanislavskij. Dopo due mesi di recita sempre uguale mi stancai. Vieni, vieni, vieni via con me - una voce mi diceva…andiamo a Roma, cerchiamo una vita migliore…

A Roma non avevo nessuno, non avevo amici, ma mi tuffai nel gran mare senza troppo pensare. Gli unici contatti che avevo erano quelli con Pupi Avati, il regista, al quale avevo mandato il mio raccontino giallo ottenendone un complimento di risposta, ed il capostruttura Rai di Bologna, che era stato trasferito nella capitale e impacchettato in un ufficietto grigio e sordido di Viale Mazzini. Con mia sorpresa mi ricevette, scoprii che mi stimava e mi aiutò a trovare posto alla Radio, Radio Due, ma a partire da settembre; eravamo solo a marzo. Per riempire quel buco frequentai un corso di sceneggiatura diretto da Ugo Pirro presso la celebre libreria dello Spettacolo in via di Monte Brianzo. Un ambiente stimolante, si parlava di cinema, si scriveva, conoscevo della gente finalmente, dopo un lungo e triste vagare tra camerette in affitto e noiose passeggiate solitarie nella foresta urbana. Qui conobbi Gabri, una bella ragazza di Cagliari, fuggita di casa, che, dopo aver fatto tutti i mestieri e girato l’Europa, si era trasferita a Roma. Ci mettemmo assieme e passammo dei bellissimi momenti. Aveva una sensibilità alla vita tutta particolare; non ne ho più incontrate di donne così, capaci di costruire un mondo a partire dal proprio se; quasi tutte fanno il contrario, fanno le concubine in ambienti costruiti da altri. Ciao bella…

A Radio Due lavorai al programma di cronaca “Il Pomeriggio”, un cosiddetto contenitore di notizie varie, di cronache e rubriche che andava sulle onde medie per tre ore il pomeriggio. Al di la dell’ignoranza del capostruttura che lo progettava e della caporedattrice che ne eseguiva i comandi, coi quali purtroppo mi trovai subito in contrasto ( ma, devo ammettere, per presunzione mia ) , era piacevole andare in giro per l’Italia a farsi raccontare fatti ed eventi che sfuggivano all’occhio ciclopico dei grandi mediatori nazionali. Prendevamo le notizie dai giornali locali ed avevamo un occhio di riguardo alle curiosità, ai problemi ambientali, ai fatti di cultura non specialistica. Assieme a Gian Luigi Rondi, che teneva una rubrica di critica cinematografica, mi occupai inoltre di cinema e insomma cominciavo a stendere quei fili per organizzare il futuro che una tempesta, di li a poco, avrebbe distrutto.

Era una domenica del dicembre ’88. Largo di Santa Susanna, vicino alla Fontana dei Tre Fiumi. Attraversai la strada ed un auto, guidata da un ragazzo che aveva preso la patente da appena una settimana, mi investì. Fui sbalzato in alto per una decina di metri oltre un marciapiede  che partisce le due corsie e caddi a terra come un corpo morto cade. Non davo segni di vita. Poi ripresi conoscenza. Il braccio sinistro mi faceva male, era immobile, tutto scavallato. Frattura scomposta all’omero. Il resto, per fortuna, a parte qualche escoriazione, andava bene. Al Policlinico mi consigliarono di ritornarmene a Bologna, all’Istituto Rizzoli, dove mi avrebbero curato bene. Io avevo un biglietto aereo per Bologna prenotato per il giorno successivo, dove avrei dovuto fare un paio di servizi. Passai una notte insonne da Gabri, poi la mattina ritornai a casa. Restai con il braccio immobile due mesi e altro tempo impiegai per le necessarie cure. Proprio mentre stavo iniziando a fare qualcosa veniva una tempesta a scompaginare i miei progetti.

Le difficoltà, se ragiono con la mente oggi, sono il motore della vita, le difficoltà sono occasioni in cui provare la nostra nobiltà, per dirla con Dante. Io, allora, in seguito a quell’incidente, entrai in crisi…ero bravo, facevo dei buoni servizi, scrivevo delle belle cose, ma in Rai ognuno coltiva il proprio orticello e, se vuoi lavorare, devi conoscere le persone che comandano, le quali a loro volta cambiano con il mutare delle condizioni politiche. Non si ragiona con spirito d’azienda. Tante belle persone, intelligenze, si sono perse, è andato perduto il loro talento perché non c’era nessuno che avesse voglia di valutarlo, di farlo crescere…..

Di nuovo a Roma dopo sei mesi, riuscii a trovare un contrattino di programmista-regista presso Radio Uno, in un programma che si chiamava “Saper dovreste” e che trattava di musica lirica. Lunghe giornate strascicate a scaldare scrivanie, a ripetere banalità al telefono, agli amici. Al termine del contratto cercai di trovarne un’altro presso la Rai Corporation di New York. Volevo emigrare, rilanciare la posta in gioco della vita, dare un senso all’esistenza. Volevo fare un corso di regia al prestigioso Film Institute della New York University ma non conclusi nulla, anzi fui blandito inutilmente dai miei stessi protettori che non mantennero le promesse e mi fecero perdere tempo. Che andassero al diavolo…per giunta l’assicurazione che doveva risarcirmi il sinistro fece un ricorso, fece sostenere al mio investitore tante false ragioni ed il processo a distanza di tredici anni dura ancora. Non avendo denaro ed essendomi stufato di una grande città come Roma ritornai a Bologna.

Da un lavoretto all’altro, ma ormai scaltrito su come funzionavano le cose della vita, trovai una strada in politica. L’on. Gian Carlo Tesini, democristiano, era stato fatto Ministro dei Trasporti e della Marina Mercantile nel primo Governo Amato e stava cercando collaboratori. Era un momento difficile per l’Italia perché era scoppiato lo scandalo di tangentopoli che metteva sotto accusa una intera classe politica. Accettai un impiego a tempo determinato presso la segreteria bolognese anche perché lo stesso Ministro mi promise un costruttivo interessamento per un futuro in Rai. Ragionando con Machiavelli adattai i mezzi ai fini e accettai l’incarico turandomi il naso. Il mio senso della verità, verità liberale democratica e dunque sostanzialmente in linea con la politica dell’onorevole, doveva pazientare ancora poco, ma prima o poi, mi illudevo, sarebbe arrivato il suo momento. Mi disposi umilmente a quel servizio di pubbliche relazioni, di chiacchiere e menzogne come un servitore egizio dentro la tomba di un faraone. Quando il governo Amato cadde, nel fuggi fuggi generale, scoprii di essere stato preso in giro un’altra volta.

I governi democratici si reggono sulla retorica, sull’arte della parola, sulla dialettica e anche sulla menzogna….io muto servitore egizio, io bisognoso bimbo bulgaro, mi trovai spaesato. Ma dovevo rispondere alla sorte. Sentivo un confuso impulso a rafforzarmi, dovevo pensare anche a fare denaro, cercare di avviare una attività imprenditoriale, mettere su qualcosa di mio. Feci un corso per Agenti – Rappresentanti alla Camera di Commercio, poi partecipai ad una selezione presso Programma Italia, la società finanziaria del gruppo Fininvest e venni assunto come praticante Promotore Finanziario. Passavo le giornate al telefono cercando di vendere pensioni integrative ed altri prodotti finanziari. Facevo corsi, riunioni, meeting; studiavo per fare l’esame di promotore finanziario. Era un mondo nuovo, per certi versi noioso, per altri entusiasmante. Poi un giorno litigai col mio capo e rassegnai le dimissioni. Aveva ragione lui a dire che dovevo cambiare il mio atteggiamento verso quella attività, dovevo dedicarmi totalmente ad essa. Io del resto pensavo al cinema, alle sceneggiature e comunque, non me lo volevo sentir dire, o meglio non accettavo quel tono insultante da padrone che mi diceva quello che dovevo fare, anche se si trattava di verità. La dignità, l’onore, vogliono il loro credito.

Nello stesso anno tentai un corso in Regione assieme a circa tremila altre persone. C’erano dieci posti di lavoro in palio. Mi classificai entro i primi cento ma giurai a me stesso che in futuro avrei cercato di combattere questo modo sindacale di intendere il lavoro. Il lavoro non può essere considerato una variabile a se stante dell’agire umano, ma va visto come variabile della personalità. La persona umana non può essere oggetto di contrattazione nelle mani di un coglione sindacalista. Viva la libertà, viva la diversità delle persone, le loro debolezze, le loro incredibili qualità… che vanno valutate attentamente e non scannerizzate con quiz imbecilli e di dubbia scientificità. Il lavoro, il fare ci miglioreranno, ma i tempi ed i modi non li stabilirete, non li pianificherete collettivamente voi, diobono.

Rispondendo ad un annuncio sul giornale trovai impiego presso l’Ufficio stampa di una associazione di produttori di GPL, il gas di petrolio liquefatto che di tanto in tanto, si legge sul giornale, fa saltare in aria qualche garage o il serbatoio di qualche automobile. Trascorrevo tutto il tempo a scrivere articoli, comunicati stampa, redigere questionari. Una meraviglia per me iniziare la giornata al computer e terminarla la sera non ancora esausto rovistando tra le parole, provando le idee, sperimentando i concetti, anche se si trattava di un mondo diverso dal  mio. Inoltre c’erano diverse belle ragazze in quell’ufficio, e la cosa non guasta.

Dato che si trattava di un contratto a tempo determinato fui felice quando, ormai al termine, il mio amico Alessandro Cogolo, da Roma,  Rai Tre, mi disse che era riuscito a trovarmene uno presso la redazione di un programma di imminente partenza. Era “Qualcuno mi può giudicare” di Caterina Caselli. Contratto abbastanza breve come programmista – regista ma con la possibilità di scrivere testi. Con tutto il corredo degli scenari possibili infarcivo il futuro. Allettante la prospettiva di ritornare a Roma, di riprovare. In realtà fui impiegato alle pubbliche relazioni, io dico a fare, sia detto con tutto il rispetto, la segretaria. Inoltre mi trovai a disagio con alcune persone che dovevano guidare il team e non sapevano nemmeno controllare se stesse. Il programma è andato male. Costava ottocento milioni circa a puntata, gli autori ed i dirigenti gente da carcerare e io sinceramente mi sono rotto le scatole.

Sempre più in balia dei venti di un destino al quale mi sentivo estraneo, ma al quale mi sottomettevo con pazienza, ritornai a Bologna, a fare il rappresentante e lavorai come agente presso una ditta che produceva Software per commercianti e collegamenti in rete, e per un'altra che vendeva spazi pubblicitari su guide della città. Attività alimentari, per tirare avanti, ma con deboli prospettive per il futuro. Feci domande alle scuole private, mandai in giro o portai personalmente, non so quanti curricola. Ad anno scolastico iniziato l’Istituto Professionale per Odontotecnici “Leone Dehon” mi chiamò a sostituire un professore di Italiano e Storia che se ne era andato. Siamo nel Ottobre 1998. Un sospiro di sollievo.

Insegnare non è facile; è un mestiere pericoloso. Se è vero che il nostro studente preferito è lo studente che siamo stati, la sua proiezione, nella quale anche misuriamo l’efficacia di un relazione didattica, è altrettanto vero che ogni insegnante, se non vuole restare schiacciato, chiuso in questo ruolo, deve sforzarsi di oltrepassare questo castello, per orientarsi verso le infinite varietà dell’umana percezione con spirito dialogante e apertura educativa. L’esperienza al Dehon mi ha insegnato che occorrono tanti stili didattici quanti sono gli studenti e che l’insegnante comunque non può essere un giudice con la spada in mano. Mestiere non facile. Ricco di sfumature. Si guadagna poco. Non male. Oggi l’istituto professionale per odontotecnici ha chiuso. I frati dehoniani hanno intrapreso un altro orientamento e hanno chiuso la nostra scuola. Mi trovavo bene con gli insegnanti, con un Preside di vaglia come Dario De Tomasi. Peccato. Le cose belle non durano: è la lezione di questo mio percorso, no?

Con la chiusura della scuola avvenuta il luglio scorso termina anche questa piccola autobiografia. Tra qualche mese compirò quarantaquattro anni, e, sinceramente non mi riesce di capire cosa farò in futuro. Passo le giornate a dipingere, la mia passione preferita…e fumo sigari toscani incantato dal silenzio mistico di questo ferragosto in città. Se guardo indietro, se ripenso al ritratto che ho dato di me stesso in queste pagine o quello che potrei fare con il pennello ed i colori,  insomma se guardo oggi al passato vedo un uomo in grigio che attraversato la vita nel silenzio, nell’ombra, un uomo con una valigia carica di tante amarezze, malinconie, paure, dubbi, impedimenti. Certo, da qualche angolo del paesaggio vengono luci brillanti, sfavillanti bagliori, momenti di gioia, attimi di felicità, la meraviglia dell’amore, ma nel complesso il quadro che mi riguarda e intinto nei colori bruni dell’ombra, della tristezza. Io credo, giusto il mito, che con la nascita abbiamo perduto il nostro stato di perfezione, che siamo angeli caduti dall’eterno e ancora lunga e faticosa è la strada per la nostra redenzione. Tuttavia, per quanto infelice e gonfio di nostalgia possa essere il percorso varrà sempre la pena di averlo vissuto, di viverlo, di sperimentarne le mutevoli possibilità avventurandosi nel suo labirinto, perché tanto maggiore sarà la ricompensa se non ci sottrarremo al nostro compito e sapremo sciogliere i mille nodi in cui si contorce il nostro bene.  Mi auguro che domani il dolore non ci trovi più come muti suoi alleati.

 

Fine

 

 

 

Medioevo inquieto.

 

La storia di Cola di Rienzo nella Cronica di

 

 Bartolomeo di Iacovo da Valmontone

 

 Mauro Conti

 

 

 

 

Introduzione

 

 

 

Capolavoro è il termine che sembra ricorrere maggiormente negli interventi della critica letteraria italiana, almeno dal 1940 in poi, sulla Cronica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone,   da quando, cioè, l’acuta filologia di Gianfranco Contini con un articolo  dal gesto perentorio[1], la introdusse al pubblico colto, auspicandone una consuetudine di lettura come per le nostre grandi opere. Certo, per un testo rimasto per tanti secoli nella sua originalità e completezza sconosciuto, il tono di quell’intervento sembrò, più che realmente, volutamente entusiastico, ma l’eccezionalità della scoperta, il significato e la consapevolezza dell’operazione lo giustificavano.

 

Il testo, della cui vicenda filologica brevemente diremo, si trova nel III Tomo delle Antiquitates Italiacae Medii Aevi stampata dal Muratori nel 1740, sotto il titolo di Historiae Romanae Fragmenta, prima che un allievo del Contini (altri ne avevano curato singole parti), Giuseppe Porta, ce ne fornisse una edizione esemplare e integrale, stampata a Milano nel 1979 dall’editore Adelphi attribuendola ad  Anonimo romano[2],  prima che Giuseppe Billanovich non ce ne fornisse una identificazione più certa, e da noi sostanzialmente avallata, in un celebre studio[3].

 

 

 

Il testo della Cronica, come si desume dalla prefazione dell’edizione costituita dal Porta, ebbe una vicenda filologica assai tormentata. Prima che l’opera conosciuta sotto il titolo di Vita di Cola di Rienzo a partire dalle stampe seicentesche fosse ricondotta nel suo alveo naturale, alla sua identità, cioè, di parte di cronaca romana del Tardo Medioevo, varie tribolazioni determinarono la corruzione del testo, e qui, ammesso che una fondata ricerca di ciò sia possibile, non vi accenneremo che di sfuggita. Del resto, come ci insegnano Rejnolds e Wilson[4] , la filologia scientifica, delle cui metodologie si nutre la filologia novecentesca, è post-lachmaniana,  ma rigorose pretese, in senso moderno, non ebbero di certo quelli che si occuparono, dopo due scoli di silenzio, delle prime edizioni cinquecentesche, i quali individuarono  nei capitoli dedicati alle imprese di Cola il centro principale di interesse del manoscritto, condannando così all’isolamento e materialmente omettendo interi capitoli del testo, dei quali ancor oggi lamentiamo l’assenza.

 

Influsso capitale sulle edizioni successive ebbero quelle allestite a Bracciano dal tipografo Andrea Fei ad istanza del libraio romano Pompilio Totti (contenente l’attribuzione dell’opera a tal Tomao Fortifiocca Scribasenato) nel 1624 e, in seconda edizione priva dell’errata attribuzione, nel 1631. Da questa seconda edizione braccianese, Ludovico Antonio Muratori, trasse le carte per la prima edizione integrale della Cronica, modificandola e corredandola di varianti manoscritte che il grande letterato pubblicò a Milano nel 1740, come abbiamo detto. Successivamente la Cronica, e in particolare la sezione contenente la Vita di Cola di Rienzo, quale materia malleabile, venne modificata in tutte le maniere, cosicché l’antico splendore dovette spesso confrontarsi col toscano dei puristi o con le velleità pedagogiche di coloro che erano spinti a morali pretese dall’exemplum del tribuno. Si giunse infine all’infelice, per usare i termini del Contini, rifacimento dannunziano del 1905: “che descrive in tono di grottesco sardonico un caso clinico di megalomania: la vita di Cola de’ Rienzi” [5].

 

Del 1928 è l’edizione a cura di Alberto M. Ghisalberti della Vita… per l’editore Olscki, che segna un ritorno alla tradizione manoscritta e a preoccupazioni di ordine filologico;  dopo di che si giunge a quella preparata da Arsenio Frugoni nel 1957 per i tipi di Le Monnier e alle edizioni di altri capitoli della Cronica preparati all’Ugolini, dal Contini, dal Porta stesso. Con l’edizione critica integrale pubblicata da Adelphi nel 1979 si conclude infine la vicenda testuale di questa singolarissima opera che con maggiore chiarezza ora è disponibile alla attenzione della critica, perché ne illustri quelle potenzialità e interconnessioni con le vicende della cultura italiana del trecento, alle cui valenze il nostro studio è incentrato.

 

Definire le linee, le tendenze della fortuna critica, per usare un termine dell’estetica crociana, dell’opera, non credo possa ora fornire elementi significativi per il nostro lavoro, se non sul piano descrittivo, in quanto chi si appresti alla lettura di  un testo letterario deve in qualche modo mettere da parte, dopo averlo consultato ed esaminato, il fardello del precedente pensiero critico. Occorre però dire che due interventi ci hanno aperto la strada: oltre al magistrale studio, già citato, di Gianfranco Contini, il saggio di Gian Mario Anselmi  Il tempo della storia e quello della vita nella Cronica di Anonimo romano[6], e la nota introduttiva di Giuseppe Porta all’edizione della Cronica per la collana Piccola Biblioteca di Adelphi a Milano nel 1981[7]. Delle altre e passate tendenze critiche renderemo conto in seguito in questo lavoro.

 

L’esercizio del citare non è un semplice ornamento per acclarare il ghigno austero e sospettoso dell’erudito, ma deve soprattutto rappresentare una individuazione di sentieri, di ipotesi, un lavoro di congiungimento e raccordo di fili che permettano, col provare e riprovare, di uscire dal labirinto che si incontra quando ci si immette per questa strada. E la cultura medievale fu un vero labirinto, una grande biblioteca di simboli da interpretare, da decifrare. I testi a cui ci appoggeremo, per tanto, serviranno proprio a questo fine, saranno di base per le nostre informazioni, saranno le tracce per la nostra ricognizione sul campo, e non useremo certo questi lavori come una struttura apriori con la quale spiegare qualsiasi fenomeno o stranezza incontreremo, ma saranno gli utensili, le lenti, i paradigmi, per dirla con Carlo Guinzburg, del nostro sistema indiziario.

 

 

 

Il nostro percorso di studio sarà articolato in un capitolo sulla formazione culturale d i Bartolomeo di Iacovo da Valmontone (sappiamo infatti, per sua stessa ammissione, che ha studiato a Bologna) e in un altro sui referenti culturali e le dichiarazioni di poetica esplicite o implicite (per quanto ci sia possibile) riscontrate nel testo, nonché sugli stilemi e i suoi tratti distintivi rispetto alla produzione cronachistica delle varie città o regioni culturali individuate. Vaglieremo poi con varia deduzione le reazioni della Cronica sui i testi della moderna metodologia critica, per mettere in luce le potenzialità e illustrare la lettura così come essa ha aperto la nostra curiosità, il nostro appassionato interesse.

 

 

 

CAPITOLO PRIMO

 

 

 

Se ci è consentita una notazione della memoria, per iniziare a delineare i caratteri generali di quel periodo, riandremmo ai capitoli iniziali del celebre studio di Huizinga, L’autunno del Medioevo, e precisamente in quel luogo in cui si descrivono, con pennellate magiche, quelli che erano i toni crudi della vita alla fine del XVI secolo. E’ quasi un debito affettivo da pagare, una premessa votiva da espletare in ogni studio sul Medioevo; ancor più se quelle pagine ci hanno introdotto al fascino delle cronache, e in particolare alla nostra Cronica. Leggendo de “ L’eccitazione crudele e il rozzo intenerimento che provocava la vista del patibolo costituivano un elemento importante del nutrimento spirituale del popolo. Era una spettacolo a scopo moralizzante. In molti casi le vittime erano gran signori: allora il popolo godeva delle soddisfazione di vedere che la giustizia era fatta con severità e si aveva un ammonimento austero intorno all’incostanza della grandezza terrena, più interessante di qualsiasi esempio dipinto o danza macabra" [8] credemmo di avere trovato la chiave che spiegasse la fine di Cola di Rienzo e il comportamento del popolo romano. Ma quelle colorazioni tardo-romantiche ( ci sia permesso di sbrigare in questi termini un libro che ebbe e ha altri sensi e pretese, fino ad ora inesauriti) si sovrapposero poi altri libri, altre ricerche, altri metodi di lavoro e oggi la descrizione della mentalità e dell’ambiente socio-politico-culturale non può seguire che altre prospettive, altre tendenza. Prima di sondare il terreno con gli strumenti del nostro limitato sapere, pare necessario delimitare il campo su cui produrremo il nostro intervento e, per far ciò, partiremo precisando sommariamente il quadro politico-sociale dell’Italia e delle regioni in quel tempo, non di meno un più preciso discorso sulla Roma di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone e del suo soggiorno presso lo Studio bolognese.

 

Come premessa pare necessario constatare con l’Arnaldi [9] che “ridurre arbitrariamente l’Italia a Roma, in quanto sede del Papato e capitale ideale dell’impero restaurato in occidente da Carlo Magno non è lecito, mentre invece la storia dell’Italia Medievale è ben altrimenti ricca e complessa”; insomma l’Italia è fatta di Italie, o, come si diceva: “omnes italiae nationes”. Individuare la frammentazione del potere in Italia all’inizio del XIV secolo significa dunque cogliere uno dei caratteri originali della sua storia all’inizio del Medioevo, quel Medioevo che, osserva il Tabacco “sebbene a molti appaia l’età del mito e del simbolo più pregante e immaginoso aveva demitizzato il potere”[10]. Non si può tuttavia non riconoscere come sia sostanzialmente al mito che si riappella la cultura di Cola di Rienzo nel suo sogno restauratore, i continui richiami ai lacerti manoscritti degli scrittori antichi, il far segno alle rovine delle antiche mura le quali a Roma, a quei tempi, avevano ben altra, e, forse più entusiasmante, estensione.

 

Roma, come l’Italia – tota Italia – vista fuori dell’Italia, come fa Le Goff ad esempio, è una terra di conquista, un luogo di predoni. Con evidenza drammatica, la vicenda di Cola di Rienzo ne coglie la situazione nel paesaggio mosso e agitato dalla violenza dei poteri in lotta, addirittura facendo dipingere un Campidoglio un’allegoria, che, come dice il nostro autore è, nei suoi termini, inquietante. E’ vero ciò che dice Le Goff nel suo saggio per la Storia d’Italia Einaudi: “L’Italia medievale appariva a se stessa e al resto della cristianità come una vittima. Vittima del peso del passato, che le è sfuggito le impone un’idea di decadenza, di declino, ma che, in pari tempo attira su di se le mire degli altri desiderosi di strapparle e di cercar di far rivivere, ma sempre a sue spese, le vestigia dell’antica gloria. Il ricordo dell’Antica Roma e il mito dell’impero romano erano tanto forti che ogni disegno politico in Italia anziché volgersi verso l’avvenire, si voltava verso il passato e parlava di renovatio”[11].

 

Roma è un simbolo, un luogo dell’anima ed un libro di Arturo Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, Torino 1882, ce ne illustra, con pazienza positivistica, i toni esasperati, a volte noiosi[12].

 

Ma la realtà materiale e civile è ben diversa: “Roma –sostiene Le Goff- non è mai stata una grande città medievale: al massimo, verso il 1300, contava trentamila abitanti, contro i probabili cento mila di Firenze e di Venezia e gli ottantamila di Milano. La sua unica attività commerciale riguardava il mantenimento dei suoi abitanti e dei pellegrini, mentre molti nobili e alti prelati della curia papale preferivano risiedere nei loro castelli della campagna romana o nei piccoli centri dello Stato della Chiesa, anziché abitare a Roma.”[13]

 

Roma nel governo della Chiesa, quali caratteristiche poteva avere? Ecco come si viene a formare, cioè di quali composti ed elementi chimici è strutturato il nostro terreno, quali incrostazioni lo hanno segnato: ce lo spiega Giovanni Tabacco, con la solita acutezza, quando segue la genesi dello Stato pontificio: “una costruzione singolare davvero: per il modo programmatico con cui si andò realizzando nel XIII e nel XIV sec., in un ambito territoriale approssimativamente suggerito dalle donazioni altomedievali, ma privo da tempo di qualsiasi coerenza. Non nasceva, per irradiazione, dalle forze di un centro urbano cospicuo o da una ben radicata clientela militare, bensì dalla volontà di una curia dotata di una memoria tenace, e capace di elaborare nuovi schemi generali di governo, di inserirli in mezzo a un mondo vivacissimo di autonomie cittadine e signorili, di operare in esso con intensità diplomatica e militare crescente, fulminando interdetti e scomuniche, assoldando compagnie mercenaria e legiferando con l’ausilio di una consumata esperienza ecclesiastica e di mezzi reperiti con tecniche via via più efficaci attraverso la cristianità. Un’espansione agevolata dall’intensità delle concorrenze e dei contrasti fra i poteri locali, ed attuate nelle forme più diverse e con tutte le gradazioni possibili nell’esercizio dei diritti di superiorità politica e giurisdizionale; ne  risultò fra il XIII e il XIV secolo una situazione sui generis e, in certo modo, di transizione, fra il gioco politico non più in alcun modo frenato dell’Italia imperiale e l’ordinamento, spesso sconvolto ma pur funzionante come normale quadro politico nel regno angioino.  Nella situazione in cui poteva avvenire che il comune stesso di Roma, sorto nel XII secolo, conducesse in pieno duecento una politica sua di espansione, con mezzi anche militari, nel territorio circostante alla città, sotto un capo suo proprio, il bolognese Brancaleone degli Andalò, senatore, in un regime di popolo sorto in contrasto con i baroni romani, potenti dentro e fuori della città – e nel collegio cardinalizio – quanto e più dei magnati di altre città d’Italia; che il comune medesimo, un secolo dopo, essendo la curia papale ad Avignone, trovasse un interprete ancora più prestigioso in un politico colto e ispirato, Cola di Rienzo, a volta a volta sostenuto e abbandonato da una sua milizia di popolo, e impegnato ora a risolvere problemi di amministrazione cittadina e di affermazione politica nel territorio, ora di affrontare avventurosamente troppo vasti problemi d’Italia e del mondo. “[14]

 

Tutta la cristianità va a Roma nel Medioevo, e, a maggior ragione vi accorre col capo chino e le mani in preghiera se l’occasione è il giubileo del ‘300. Roma per i pellegrini si rinnova e vi si costruiscono e restaurano chiese. Nella topografia letteraria romana di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, le chiese con i sagrati e le piazze antistanti, oltre ad essere luogo dove si svolgono sacre rappresentazioni ed eventi drammatici, sono poi pretesto per lo sviluppo di più ampie argomentazioni di ironia laica sul governo ecclesiastico, come quando, per esempio, viene descritto il restauro avvenuto nel 1341 del tetto di San Pietro in cui “…fuoro trovate caverne e cupaine,  fatte sì per l’antiquitate, sì per fere, le quali avevano rosicato e fatta dentro avitazione; ca ce fuoro trovati drento sorici esmesuratissimi anidate e furonce trovate fi alle martore e che più ène, golpi colli loro nidi…”[15]

 

In fin dei conti però l’Urbe, nella cui pianta è iscritto un leone, rilevano gli agiografi, è sempre la partner simbolica di un dibattito ininterrotto nella storia, delle cui valenze, per altro, si nutrirono sia imperatori, da Carlo Magno a Lodovico, per legittimare il concetto di un traslatio imperi, sia singole città o repubbliche, per misurare come termine di paragone il grado di sviluppo del loro progresso intestino, o anche per attribuirsene, come fa il Villani ( ma sono innumerevoli altri gli esempi) una vera e propria ascendenza: “ E perché l’esordio nostro si cominci molto da lungi, in raccontando in breva altre antiche storie, al nostro trattato ne pare necessità; e fia dilettevole e utile e conforto a nostri cittadini che sono e che saranno, in essere virtudiosi e di grande operazione, considerando come sono discesi da nobile progenie e di virtudiose genti, come furono gli antichi buoni troiani, e’ valenti e’ nobili romani.”[16]

 

Roma nel Medioevo è l’incrocio, la meta di molte strade, le più delle quali sono iscritte nel mito, nelle fabulazioni della timorata gente, degli autori, ma la realtà economica è ben diversa, specie dopo la crisi avignonese, perché, come ci ricorda il Papencordt nel suo volume su Cola di Rienzi e il suo tempo, tradotto da T. Gar : “Spostando la sede papale ad Avignone, a Roma viene a mancare anche quella grossa fonte di reddito che usufruiva in quanto centro della cristianità…”[17].

 

Per non dire poi della peste terribile del ’48 che contribuì a fiaccare la sua già scarsa popolazione. Quegli eventi, della cui cupa violenza i cronisti d’Italia ci hanno descritto i termini e noi moderni non possiamo che coglierne solo una parte dell’incidenza psicologica che ebbero sull’uomo del Trecento, dovettero scatenare negli uomini dell’epoca le più profonde reazioni, i più orgogliosi, quanto biologici, istinti di sopravvivenza.

 

A nostro parere, la Cronica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone ha tra le sue motivazioni anche questa non dichiarata volontà di rinascita e, come hanno suggerito Anselmi e Miglio, una non celata volontà di interpretare quel nuovo spirito cittadino che proprio allora faceva le sue timide uscite.[18]

 

Le croniche accompagnano le città, fin dall’XI secolo, nella loro fioritura. Ne segnano gli avvenimenti e sono uno degli elementi importanti di questa italianissima tendenza. Non è il caso qui di indagare le molteplici e, a volte, sovrannazionali ragioni che presiedettero al fenomeno di frammentazione del potere politico in città autonome e organizzate in Stato, ma, per la nostra competenza, studieremo le cronache in rapporto alla produzione scrittoria di quelle città e nella loro relazione con quella di Bartolomeo di Valmontone.

 

Siamo più o meno nell’Alto Medioevo quando prende piede l’uso particolare della scrittura come ars dictandi: da Cassino, alla curia romana, a Bologna,  esso mira all’esercizio della prosa come strumento  professionale, come modello comunicativo che ha un impiego pratico, giuridico, civile. Specialmente da Bologna, sede dell’Università dove si insegnano il Diritto e le Arti, si avrà questo decisivo impulso che sfocerà nella produzione e nella promozione sia della lingua poetica, con la poetica del Dolce Stil Nuovo, elaborata da  Guido Guinizzelli, che della prosa d’Italia volgare. E sarà proprio l’Università, lo Studio, a dare gli incrementi più forti a questa tendenza, a dare i frutti migliori. Infatti “nella prima metà del secolo XII appaiono delle scuole urbane, più o meno indipendenti dai capitoli delle cattedrali o dei monasteri, animate da maestri laici. Esse rappresentano la ripercussione sul piano scolastico di due grandi fenomeni socio-culturali che si manifestano nella fioritura di questo secolo: la promozione del laicato e il movimento corporativo.”[19]

 

Anche il nostro Bartolomeo di Iacovo da Valmontone ha studiato all’Università, a Bologna, studente iscritto al Canone di Medicina, come si desume da competenze mediche, e, per sua stessa dichiarazione, al termine del mirabolante racconto sulla sconfitta di Spagna nel cap.XI: “Io demorava nella citate de Bologna allo Studio e imprenneva lo quarto della fisica, quando odìo  questa novella contare nello stazzone dello Rettore de medicina da uno delli bidelli.”[20]

 

Bologna è dunque al centro della sua formazione giovanile ed è forse l’ambiente più adatto a quell’atteggiamento entusiastico nei confronti della cultura che il Contini rileva nella personalità di Bartolomeo. E’ con ogni probabilità sotto le due torri che egli viene a conoscenza delle cronache del Rolandino e delle altre cronache settentrionali, come ipotizza l’Anselmi; ed è qui che si insegna il Diritto e dove si formano i funzionari delle amministrazioni cittadine o nazionali dell’Italia e dell’Europa; è qui che si insegna la scientia litteralis. Petrarca intorno al 1324 è da queste parti, dimostra Giuseppe Billanovich[21]. Erano i bidelli stessi che creavano stationarii assieme ai professori, cioè producevano libri ad uso degli studenti, li vendevano, formavano dispense. Sarebbe interessante a questo punto fare una ricerca sulla circolazione libraria presso l’Università alla metà del Trecento, cercare quali libri si leggessero e a quale fine, ma l’esiguità del tempo che abbiamo a disposizione non ci permette questi accertamenti; riscontri di letture li cercheremo sul testo stesso della Cronica convinti, del resto, che non è importante per gli scrittori del Medioevo ricercare quali fonti si costituiscano in genealogie o chi ha letto cosa. In Bartolomeo di Iacovo da Valmontone non vi è nessuna volontà oraziana di celare l’arte, anche perché la dichiarazione, la citazione diretta e piana  dei testi della tradizione è sempre palese; la Cronica in fondo ancora conserva, seppur in parte, un’arte orale, un’arte della memoria.

 

Bologna, Padova e le altre Università: è attraverso questi centri che possiamo cogliere il passaggio cruciale dalla letteratura dell’oralità connessa con l’ars dictamini all’uso della scrittura civica e alla nascita della storiografia cittadina: “dell’Ars prosandi, l’arte di scrivere in prosa e il suo collega Guido Fava nella letteratura italiana ha un’importanza ancora maggiore. E’ considerato uno dei creatori della prosa volgare; nella sua Gemma Purpurea, infatti, Guido, accanto ai modelli l’insegnamento e la produzione letteraria universitaria hanno avuto un ruolo capitale nell’evoluzione della prosa e nella nascita della prosa in volgare. Il famoso Boncompagno da Signa, maestro di Rolandino, grande maestro di Retorica a Bologna nella prima metà del XIII secolo era conosciuto nella Germania medievale con il nome di maestro di lettere in latino, e appronta formulari epistolari in volgare bolognese: sono una novità nella lettere”[22], ricorda J. Le Goff nel primo volume della Letteratura italiana Einaudi. Ovviamente dalla nascita del volgare alla pratica della scrittura cittadina, ossia alle cronache, il passo è lungo, tuttavia possiamo subito dire che in ambito romano il materiale reperto, o meglio, tramandato a significare questo nuovo volgare cittadino, cioè “ volgare a dir la nuova gente “, è esiguo e di scarsa consistenza. Infatti, se si esclude il Liber pontificalis[23], le Storie de Roma e de Troia[24], e i Miracole de Roma[25], si comprende come il passo sia breve. In realtà, per quanto riguarda la città di Roma, troviamo solo Bartolomeo di Iacovo da Valmontone nell’intento di fondare una tradizione volgare locale autonoma e disillusa nei confronti del glorioso passato, solo lui a puntare sull’attualità della lingua presente, sull’analisi cronachistica; nel suo testo è stato detto che l’antichità viene recuperata prima di essere ben compresa ma poi è solo con Bartolomeo di Iacovo da Valmontone che essa Cronica entra nel ciclo dell’attualità contemporanea, del presente per rappresentarlo e modificarlo.

 

A Roma mancava una classe sociale borghese autonoma quale esisteva, per esempio, in altre città italiane; mancava una tradizione “volgare” come fardello di una classe e di una cultura borghese, come nel caso della Cronica fiorentina del Villani. Bartolomeo di Iacovo da Valmontone tentò di fondare un tradizione, e sembra  quasi parallelamente al tentativo di Cola, con l’uso del dialetto, descrivendoci una Roma sanguigna, viscerale, dai toni corposi ed espressionistici, violenti nella superficiale patina popolare; forse ricordò le letture settentrionali e le tradusse in dialetto romano e le volgarizzò. Questo processo o tentativo, è stato colto bene da Pasquini: “Ciò che avveniva al nord poté verificarsi anche nell’Italia mediana, che da questo punto di vista presentava numerosi punti di contatto con la fioritura letteraria settentrionale. Intanto la mancanza di un centro unico di cultura, anzi la presenza di molti centri minori, che favorivano si le tendenze alla nobilitazione e ripulitura dei singoli dialetti, ma non certo l’insorgenza di koinai, e poi la richiesta espressa da una classe in espansione, la borghesia mercantile, di una cultura volgarizzata, pratica, utile alla vita civile.”[26]

 

Sorgono subito problemi di metodo quando ci si appresta ad individuare le relazioni intrecciate tra il nostro e la cultura settentrionale; tuttavia, per parafrasare l’Anselmi degli studi su Machiavelli[27], ricostruire la strategia complessiva degli studi del romano significa individuare da un lato l’intelaiatura sulla quale si fonda tutto l’intreccio narrativo della Cronica, dall’altro la funzionalità effettiva delle fonti prescelte per tale intreccio e insieme la loro collocazione nei confronti delle sue tesi.  Nessun intento di erudizione fine a se stessa, quindi, ma un’esigenza di definire in che termini il discorso di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone “si ponga rispetto alla tradizione storiografica precedente (attuale e successiva aggiungeremo noi, se, come ci insegna Roland Barthes, un autore quando scrive non pensa solo al passato, ma anche al presente e al futuro ) e come da essa egli abbia derivato il materiale per la propria storiografia.”

 

Le prime impressioni che abbiamo avuto consultando i testi, ci hanno fatto intravvedere un filo che li collega e che si delinea in questi termini: Bologna-Boncompagno da Signa-Rolandino: Rolandino-Bologna-Bartolomeo di Iacovo da Valmontone. Quasi un’equazione. Forse non abbiamo ancora detto chi fosse Rolandino. Chi fu veramente Rolandino? Ecco una scheda di J. Le Goff[28] il quale, per altro, trae le sue notizie dal magistrale studio sui Cronisti della Marca Trevigiana da Girolamo Arnaldi[29] a cui nel prosieguo spesso ci riferiremo: “ Verso il 1200 un giovane di belle speranze, Rolandino dei Baiardi di Piove di Sacco, che avrà un ruolo eminente nella vita pubblica di Padova come notaio e scriverà la più importante cronica della Marca Trevigiana nel XII secolo, andò a Bologna a studiare con la scientia legalis, la scienza giuridica,  la scientia litteralis, la scienza delle lettere, la retorica, presso il magistero di Boncompagno da Signa.” Soltanto la conoscenza della nobilis scientia litterarum permetteva al notaio di esercitare pienamente la sua arte. La categoria dei notai era numerosa, prestigiosa e nonostante importanti differenze interne, formava un gruppo omogeneo, il cui ruolo culturale era di grande rilievo. E’ verso questa committenza che si orienta la sua Cronica in factis et circa facta Marchie Trevixanae  [30].

 

Il problema del destinatario del messaggio artistico o di una semplice narrazione è uno dei problemi che la critica moderna ha cominciato a sollevare soprattutto per merito della critica sociologica marxiana per un verso e dello strutturalismo per l’altro. Le cronache dell’Italia medievale, si è notato da più parti, indicano spesso il referente sociale dei loro contenuti e la nozione stessa di utilità che si riscontra nei testi appare congenita con le nascenti corporazioni, con il particolarismo, con le frammentazioni del potere cittadino, a volte anche violentemente interpreti delle tendenze guelfe o ghibelline.

 

Del resto, per vedere come le altre tradizioni storiografiche e cronachistiche si confrontino sulle pagine del Nostro, come l’autore riguardi e trascriva altre tesi non occorre certo consultare il presente lavoro, bastano le ricchissime note presenti nell’edizione del Porta per cogliere in che misura egli si nutra di quelle del Fiamma[31], del Villani[32], la Gran Cronica di Alfonso XI…A noi piuttosto preme rilevare ( già l’Ugolini[33]esortava a non cadere in inutili confronti con quella del Villani, trattandosi in Firenze altre questioni politiche e sociali imparagonabili a quelle romane ), oltre a questi confronti, purtuttavia significativi, come dalle altre tradizioni storiografiche l’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone assuma stilemi, moduli narrativi, linee di argomentazione retorica, topoi, in una parola, spie rivelatrici di un sistema di influenze e di pertinenze.

 

Forse abbiamo sbagliato termine poco fa quando abbiamo usato la parola committenza a significare le relazioni fra un autore e il suo pubblico; in realtà sarà solo più tardi, e precisamente con la nascita delle Signorie, assistiamo pienamente a questo fenomeno ( naturalmente non sono esclusi singoli fatti di committenza in questo periodo ); possono aiutarci a chiarire questo concetto le parole di Paul Zumthor  “…in generale il ruolo aneddotico dell’individuo sembra ridursi nel giuoco di una cultura tanto più quanto più essa costituisce, a livello dei rapporti fra l’uomo e se stessa, un continuum armonioso attraverso il tempo, lo spazio e la molteplicità degli attori; uno scrittore si introduce nel suo linguaggio per messo di procedimenti trasmessi dal suo gruppo sociale, ed è questo gruppo che fornendo la Cronica di segni, detiene le motivazioni. L’individuo si radica nell’ambiente e vi giustifica la sua presenza ristrutturando a suo modo un immaginario i cui elementi gli sono forniti già ben elaborati da questo stesso ambiente…”[34]Ogni città, si può dire ogni cronaca segue una sua particulare committenza senza che vi sia, come lamenta Dante, una disposizione sovracittadina o sovraregionale che ne regoli le pulsioni. Firenze, che assieme a Venezia ha in questo campo le più illustri tradizioni, nell’esempio del Villani è improntata al finalismo e al bisogno di stabilità sociale del suo ceto guelfo e mercantile, così come la storiografia veneziana seguirà la sua oligarchia nel progressivo accrescersi delle sue fortune economiche e nei suoi successi politici. Abbiamo anche visto, nell’intervento dello stesso Miglio, come, nei tempi della Cronica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, si intraveda a Roma un barlume di spirito laico e mercantile autonomo rispetto allo strapotere baronale ed ecclesiastico.

 

Individuare il gruppo sociale che detiene le motivazioni dei segni linguistici nell’universo della cronaca romana è stato negli intenti che abbiamo seguito fino ad ora. Per il seguito non rimane che individuare quegli elementi dell’immaginario – per esprimersi con Paul Zumthor -, quei tratti narrativi che vengono dichiarati esplicitamente nel testo e quelli che, in quanto spie linguistiche, costituiscono gli elementi di una poetica implicita, come ricordava Luciano Anceschi[35]. Infatti, sarà proprio attraverso questi ultimi che comprenderemo l’apporto ricevuto dalla lettura della Cronica di Rolandino e della letteratura dell’Italia settentrionale nella mediazione del centro dell’Università di Bologna, per vedere poi come questi dati entrino in relazione  con la scrittura del Nostro.

 

Veniamo subito al prologo e a quello che dice dei prologhi un acuto studioso di Cola e dell’Anonimo romano, vale a dire Arsenio Frugoni: “I prologhi di opere medievali, quando ci sono, perché scritti a opera pensata se non già conclusa, possono essere il momento personale dell’autore, anonimo o no, ma eliminare l’anonimato a volte è impresa irrilevante se quello che si sa conquistare è solo un dato anagrafico; l’autore del prologo spesso ci dice di sé, o di sé almeno nel legame con l’opera, l’occasione e la giustificazione, (quella che a lui sembra la giustificazione che deve valere per chi legge), e si può ricordare del committente e dei consumatori, convocati magari con il richiamo di un illustre consumatore o destinatario. Insomma, io esorto ai prologhi: la coscienza dell’opera in sé, ché si esprime più nel prologo, è un fatto che importa considerare. “[36]

 

E allora leggiamo questo prologo: “Dice lo glorioso dottore missore santo Isidoro, nello Livro delle Etimologie, che lo primo omo de Grecia che trovassi lettera fu uno Grieco lo quale abbe nome Cadmo…”[37]qui troviamo subito la prima nostra dichiarazione esplicita: Isidoro di Siviglia[38], il libro delle etimologie, Etymologiarum sive Originum libri XX , un testo molto diffuso nell’occidente medievale.  Vorrei subito notare come la narrazione inizi con un costrutto della grammatica latina, la cui risemantizzazione viene quasi a costituirsi quale topos letterario nella concezione medievale delle categorie di autore, tempo e cronaca. Il tempo, infatti, è una linea irreversibile che procede dipanandosi verticalmente dal passato al futuro[39]; ma rileggiamo Aron Gurevic in una sua pagina sul tempo delle cronache dei monasteri, una pagina, che pare adattabile, pur con sensibili differenze, anche al nostro lavoro: “Connettendo in un unico quadro storico la cronaca del proprio monastero e il percorso del genere umano dal momento della sua creazione fino alla futura fine del mondo, i cronisti rivelano non solo una limitatezza di orizzonte, ma anche qualcosa di affatto diverso: l’aspirazione a intendere i fenomeni particolari alla luce della storia universale. Il particolarismo della coscienza medievale era indissolubilmente legato al suo universalismo.”[40]

 

Appare subito evidente a chi ha già letto la nostra cronica romana, come l’orizzonte culturale di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone si trovi all’interno di queste coordinate generali. Il “si dice” dell’inizio mette subito l’autore all’interno del flusso ininterrotto in cui si trova collocato, anche se è necessario notare come nella pagina la Storia con la esse maiuscola, la Storia universale, venga intesa non con il riferimento cristiano al primo uomo, come la maggior parte delle precedenti cronache, ma con la memoria della Grecia mitica della nascita della scrittura con tutto quello che ne consegue e che costituisce la vera novità di questa cronica, come vedremo. A questo punto non è forse errato ricordare come con la lingua volgare si affermi a Roma anche uno spirito laico e comunale; del resto l’autore stesso usa la nuova “lingua” non per altro che per farsi intendere da quelli che semplicemente leggere sanno, “ovvero sia volgari mercatanti”. Riguardo poi alla nozione di autore Paul Zumthor sostiene che “implica quella di continuatore; il ruolo dell’individuo nella genesi dell’opera ci appare male, e senza dubbio i contemporanei vi attribuiscono scarso valore. Resta solo assicurato il legame che intercorre fra l’autore e il suo ambiente sociologico. “[41]. Seguiamo ancora queste riflessioni, singolari per il carico di problemi che comportano, avvertendo tuttavia con le parole dello stesso autore che: “ la tradizione riguarda l’avvenire più che il passato da cui storicamente proviene; essa proietta questo passato sull’avvenire, e funziona in prospettiva. Fondata su ciò che è compiuto, sul definitivamente oggettivo, radicata nel luogo dei fatti su cui non si può nulla, essa programma il conoscibile, il non ancora dato e lo indica e lo costruisce prima ancora che appaia. Così essa possiede il tempo; di qui i continui riferimenti a una fonte. La relazione tradizionale è di contiguità o di contesto; essa si stabilisce fra un testo e quelli che lo precedettero, l’accompagneranno e lo seguiranno in seno a una continuità, in teoria, omogenea.”[42].

 

Ecco Bernardo di Iacovo di Valmontone: “Da poi che Cadmo comenzao a trovare le lettere, la iente comenzao a scrivere le cose e·lli fatti loro per la devolezza della memoria, e massimamente li fatti avanzarani e mannifichi: como Tito Livio fece lo livro dello comenzamento de Roma fino allo tiempo de Ottaviano, como scrisse Lucano li fatti de Cesari, Salustio e moiti aitri scrittori non lassaro perire la memoria de moite cose antepassate de Roma. Dunqua io…”[43]

 

Dunque Tito Livio, vero duca signore e maestro per il nostro, poi il Lucano della Farsaglia e Sallustio.  Seguendo sommariamente questa esplicitazione di percorsi di lettura, che poi si definiscono in tradizione, nel senso di Zumthor, troviamo poi Gregorio Magno, il Valerio Massimo dei Factorum ac dictorum memorabilium, Aristotele e, naturalmente il libro dei libri, secondo la sua etimologia, la Bibbia. Ma il vero maestro di sapere storico è certamente Tito Livio e la lettura di Ab urbe condita è forse per noi indizio significativo: “Livio è il maestro anche per Rolandino, il referente d’obbligo di tanti notai-cronisti della Marca. Il suo nome ci riconduce a quel cenacolo preumanistico di Padova che oggi, grazie al Billanovich, possiamo ricostruire con fondatezza e in cui, accanto alle presenze fondamentali dl Lovato e del Mussato, è lecito supporre operasse, con ruolo tutt’altro che secondario, proprio Rolandino in veste di storiografo. Ma Rolandino per il suo apprendistato presso Boncompagno da Signa, ci evoca Bologna, luogo per eccellenza deputato all’educazione giuridico-notarile, come a quella retorico-letteraria. Come a dire che il cerchio si chiude  e che è tutt’altro che impossibile postulare il fatto che un patrizio romano, studente di medicina a Bologna, fosse stato in pieno contatto con quei fermenti storiografici e quelle esperienze culturali che avevano proprio nell’asse Padova Bologna un elemento portante; rinvigorito del resto, nell’avanzato trecento, dalla presenza padovana del Petrarca. “[44]

 

Ma prima di seguire ciò vorremmo ora precisare un punto delle pagine precedenti che è suscettibile di essere confuso e che la citazione della pagina di Gurevic può aver contribuito a fraintendere, vale a dire quello sui valori di tempo e cronaca nella pagina dell’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone. Evidentemente egli ha poco a spartire con le vecchie cronache universali o con la maggior parte delle cronache cittadine di tendenza cristiana che pullulano in questo periodo della Storia d’Italia; anzi, dai raffronti che già altri ha effettuati [45], possiamo notare come la Cronica contenga in realtà alcuni di quei segnali innovativi e precursori che distingueranno la nuova storiografia umanistica.

 

Per parte nostra desideriamo solo segnalare come l’impianto generale della concezione di storia e tempo sia ancora descrivibile all’interno delle categoria proprie della cultura medievale e come queste subiscano quella lenta corrosione e quel lento cambio di indirizzo al quale sono spinte dalla cultura settentrionale nei sui centri di studi più fecondi di studi e interessi, vale a dire: Bologna e Padova.

 

“Uno della Marca andoe a studiare a Bologna…” si legge nella novella LVI del Novellino e quella di Bologna è una strada che percorrevano molti cronisti. Tra loro, verso il 1220, vi fu anche il più illustre e famoso Rolandino da Padova.

 

Egli compì i suoi studi presso Boncompagno da Signa, allora “principe dei maestri dettatori”. Dopo la laurea in Arti esercitò la funzione pubblica di Notarius a Padova, professione che gli permise di assistere direttamente alle tormentate vicende di quel comune e poi di tutta la Marca trevigiana sotto la tirannia di Ecelino III da Romano; insomma, è la stessa professione, dice il Novati in un luogo citato anche dall’Arnaldi, che spinge a tenere un registro ordinato dei fatti, una cronica: “Dalle notarelle sparse qua e là sulle guardie dei loro zibaldoni, dai ricordi scarabocchiati in fretta furia nei loro stracciafogli, nasce la cronaca, viva e schietta ripercussione dell’avvenimento quotidiano nel suo succinto vestito[46]”.

 

Certo la spiegazione della genesi delle cronache cittadine proposta dal Novati apparirebbe un tantino affabulata se non vi riconoscessimo quei segni di apprendistato che, come ricorda l’Arnaldi nel suo studio Il notaio cronista e le cronache cittadine il Italia[47] sembrano essere validi anche per il nostro protagonista.

 

Del resto a questa tesi eravamo giunti anche prima, quando siamo passati, forse un po’ troppo sbrigativamente, dal discorso sulla nascita del volgare, alle università e poi alle cronache. All’uomo che esercita questa professione sono connaturati alcuni appellativi quali rispettabilità, dignità, riservatezza. Occorre essere “fidedegno”, occorre essere accettati coscienziosamente da tutta la comunità e dal potere politico. “Nel medioevo occidentale e per iniziativa italiana, si afferma come sovrano dispensatore di autenticità il notaio, depositario riconosciuto della pubblica fides e destinato a subentrare nel tempo all’autore del documento, e gli stessi testimoni, come unico sottoscrittore dell’atto.”[48]

 

Vorremmo subito notare, per aprire la serie dei raffronti con l’Anonimo, che questo scrupolo di autenticazione ( assieme alla lode è questo uno dei termini ricorrenti che un pubblico di religiosi, professori, politici dispensò al nostro Rolandino al momento della lettura pubblica, avvenuta in Padova nel 1262 ) presente nella introduzione alla Cronaca di Rolandino lo troviamo anche in apertura di quella Romana, con il ricorrente uso notarile dei termini: “Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo' vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille: massimamente alcuna cosa che fu in mio paiese intesi da perzone fidedegne, le quale concordavano ad uno…”[49]

 

E’ un fatto che ai nostri occhi queste due citazioni si appaino , sebbene non significhino propriamente autenticazioni di verità, soprattutto se si pensa al sospetto di guelfismo con cui i secoli giudicarono i Rolandino. Il pubblico di missori e dottori e persone religiose per cui Rolandino compose la Cronaca pone parecchi problemi al suo estensore, soprattutto se la narrazione si riferisce a situazioni in cui egli stesso non poteva essere presente. La scrupolosità di Rolandino, infatti, nel precisare l’area dei propri ricordi personali si riflette in numerosi passi della cronaca, specie quando descrive avvenimenti ai quali non può essere stato presente, perché troppo giovane o perché non ancora nato. Se Rolandino giustifica se stesso davanti all’uditorio demandando alle carte paterne la responsabilità dell’autenticità dei fatti presenti descritti, anche l’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone sembra avere questo scrupolo, quasi giuridico. Nel secondo capitolo, infatti, dove si dice “ como Jacovo de Saviello senatore fu cacciato de Campituoglio per lo popolo” troviamo; “Certo da queste cose io non comenzo; ca, benché così fosse, io era in tanta tenerezza di etate, che conoscimento non aveva elettivo. “[50]

 

Certo,  in Bartolomeo di Iacovo da Valmontone questo motivo assume un significato diverso rispetto a quello del notaio padovano. Nel romano, infatti, come ha dimostrato l’Anselmi, questa giustificazione introduce al livello semantico della memoria e del ricordo; purtuttavia entrambi i testi mostrano una singolare convergenza di prologo, specie se ci si attiene alle pure dichiarazioni. A nostro parere, la genericità di queste dichiarazioni presenta comunque molte connessioni con la prefatio di Tito Livio alla sua opera, nella quale il “facturusne operae” introduce a una metodologia di riflessione sul fare e narrare storico e sull’uso delle fonti, alla quale, in qualche modo, anche i nostri convengono, pur seguendo, ovviamente, divergenti direzioni. Inoltre in tutte e tre le introduzioni, troviamo la concezione della Storia come Magistra vitae, vale a dire la concezione dell’utilità della cronica a ricordare orribili e crudeli vicende come monito per le future generazioni. Parallele appaiono le riflessioni del Rolandino, Bartolomeo di Iacovo da Valmontone  e di Tito Livio: “…paduana gens…pro salute sua potest manifeste videre, quia horribilis est crudelitus tirannorum in civitatibus, quibus presunt…” (Rolandino)[51].

 

“L'aitra cascione de questo ène che qui se trovarao moito belli e buoni esempî; donne porrao omo alcuna cosa pericolosa schifare, alcuna porrao eleiere e adoperare, sì che lo leiere de questa opera non passarao senza frutto de utilitate.” (Bernardo di Iacovo di Valmontone)[52].

 

“Hoc illud est precipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documente in inilustri posita monumento intueri; indi tibi tuaeque rei publicae quod imitere capis, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites “ (Livio)[53]

 

Aveva ragione il Frugoni, dunque: nei prologhi si stendono le mappe della tradizione.

 

Vediamo ora come in questi si manifestino anche le proprie preferenze stilistiche, le quali, ovviamente, tengono conto del destinatario, ovverossia della committenza. “Il genere che egli ha adottato – sostiene l’Arnaldi a proposito di Rolandino – è il prosaicum, sia perché si riteneva di potersi esprimere più compiutamente ( plenius )in prosa che in versi, sia perché, anche dal punto di vista della auspicata diffusione della sua opera, il “dictamen prosaicum” era un mezzo di espressione più alla portata di tutti. “. E Bartolomeo di Iacovo da Valmontone : “ Anche questa cronica scrivo in volgare…Dunqua per commune utiilitate e diletto fo opera volgare, benché io l’aia ià fatta per lettera con uno latino moito…”[54] e l’utilità è per i volgari mercatanti, come dicevamo, o le persone che semplicemente leggere sanno.

 

Per quanto riguarda le questioni di stile vere e proprie vorremmo annotare come li fatti “avanzarani e mannifichi”, “ ché cosa de poco omo non cura, lassala stare, cosa granne scrive” sono tra gli intenti narrativi anche del padovano, allorché scrive “ …copiosam haberent materiam, qua suum altum ingenium possent exercere”, “alta materia de miseriis et ruinis insignum et excellentum”[55].

 

Dunque la “memoria de li fatti” è una condizione indispensabile per l’incivilimento umano, così dettava anche il maestro bolognese di Rolandino, Boncompagno da Signa. Quella stessa memoria tenace, matrice di progressi, che non era certo mancata ai governatori della chiesa, ricordava il Tabacco, perché  è nella biblioteca della memoria che si può leggere la Cronica romana. In essa gli indici sono quasi un catalogo per argomenti, (“distinti per capitoli, perché volendo trovare cobelle, senza affanno se possa trovare”) di una vecchia biblioteca in cui le schede iniziano con la dicitura de-dello-della-como, traduzione del vecchio complemento latino.

 

Sempre a proposito della memoria, Boncompagno da Signa nel suo famoso e studiatissimo Liber de obsidione Ancone si sofferma a considerare come in passato per la trasmissione e la conservazione dei ricordi di interesse collettivo fossero utilizzate da parte dei Greci le statue e da parte dei romani i bassorilievi. Ciò significa che anche l’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone ha letto questo testo, perché subito in apertura del suo prologo troviamo: “ Nanti lo tiempo de questo non era lettera. Donne quanno faceva bisuogno de fare alcuna cosa memorabile, scrivere non se poteva. Donne le memorie se facevano con scoiture, in sassi e pataffi, le quali se ponevano nelle locora famose dove dimoravano moltitudine de iente, overo se ponevano la dove state erano le cose fatte…”[56].

 

Questi percorsi di lettura, se sono fondati, mostrano, da parte del nostro autore, un’attenta partecipazione, un entusiasmo per le espressioni della cultura bolognese e settentrionale, per la scuola di retorica, per le tensioni politiche e culturali della Marca trevigiana, che vanno certo sottolineati.

 

Collegabile poi al discorso sui moduli narrativi acquisiti presso lo studio bolognese, c’è il problema dei discorsi in prima persona pronunciati dai protagonisti. Si tratta di uno schema narrativo che troviamo anche in Rolandino. Qui, tuttavia, precisa l’Arnaldi, l’intento chiaramente perseguito è soltanto di interrompere il discorso con delle pause, durante le quali i protagonisti sono introdotti ad esporre il loro punto di vista sull’accaduto, mentre nel nostro, dice l’Anselmi, introducono elementi attualizzanti e quotidiani, tali da aprire squarci privati fra le maglie pubbliche della storia. Sembra, insomma, che l’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone riprenda lo stesso schema narrativo del padovano, o come, per giunta, quando usa inframmezzare la narrazione con citazioni dal patrimonio letterario antico. Qui, poi, si pone il problema della fedeltà storiografica tenuta dagli autori nel trascrivere tali discorsi, soprattutto se si pensa al fatto che, dopo la pubblicazione dell’imponente epistolario di Cola di Rienzo, il nostro autore dimostra una certa precisione riguardo gli avvenimenti; e ciò fa supporre ( come per quattro discorsi di riunioni cittadine riportate dal Rolandino ), una sua diretta partecipazione alle travagliate vicende del comune.

 

Abbiamo dunque visto come attraverso il confronto dei prologhi sia possibile individuare le mappe delle letture compiute da Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, ed abbiamo analizzato in particolare le singolari coincidenze con la Cronica di Rolandino, e con il Liber de obsidione Ancone di Boncompagno da Signa. Ora vediamo quella che abbiamo definito la diretta partecipazione della tradizione nell’universo culturale della Cronica in quelli che sono i testi più significativi per l’epoca: la Bibbia, Valerio Massimo, Tito Livio, Seneca, Sallustio, Lucano. Ma prima di iniziare questo lavoro di spoglio, vorremmo notare che l’attenzione alle fonti implicite da noi compiuto non ha seguito i criteri della metodologia positivistica, quasi si trattasse di stabilire un rapporto causa effetto tra il testo di Rolandino e quello volgarizzato in lingua romana dal nostro autore, ma piuttosto abbiamo cercato di individuare quella griglia interpretativa, e quelle strutture narrative che sono proprie della varietà delle cronache della Marca trevigiana, e come questi schemi trovino la loro funzionalità all’interno della Cronica romana.  Soprattutto nei capitoli su Cola è verificabile questo intreccio di strutture, con una narrazione concitata, cruda, espressionista che ha il tono e le profondità tragiche e violente della fine di Ezzelino.

 

La pagina allora ha il fetore putrido della morte, i colori abbaglianti e intensi di un teatro di provincia dove sembra che il pubblico sia cieco e sordo e dove l’odio tocca, a slanci inusitati, le vette della follia. La leggenda di Ezzelino è anche la grande pantomima agitata nelle tenebre misteriose della paura nel Medioevo, nei cui recessi di nascondono silenziose voragini e matte elevazioni, dove la carne umana macellata a brani viene ostentata con atto sacrificale, nella vana ricerca di una purezza, di una redenzione. La vita allora è una turba feroce di moti e di scontri. Nell’efferatezza e nella crudeltà vive il mito delle sue gesta, ricorda Ottone Brentari nel suo libro Ecelino da Romano nella mente del popolo e nella poesia, stampato a Padova nel 1889[57]; anche il Novellino narrò quelle imprese, e forse una interpretazione delle tesi di Gianfranco Contini sulla lingua di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone potrebbe postulare, per ipotesi, che quella nozione di primitivismo sintattico tipica del Romano, gli sia giunta anche attraverso queste pur labili relazioni che dal Novellino passano per Padova e trovano nella Cronica il loro ricettacolo migliore.

 

Come da premessa, vediamo ora schematicamente la lettura che il nostro fa della Bibbia e in ciò ci soccorre l’intervento dell’Anselmi che del testo sacro, attraverso le pagine del nostro, da questa interpretazione: “Non a caso, della scrittura Sacra, è riportato uno dei passi che più apertamente si commisurano a questa concezione classica del tempo senza dare spazio a quei testi scritturali e patristici, tendenti a leggere un senso teleologico nella storia umana”[58]. E’ proprio questo, tra l’altro, il motivo che ci consentirà di distinguere la nostra Cronica da quella fiorentina del Villani, a partire proprio dalla assenza del provvidenzialismo teleologico presente nelle cronache della borghesia mercantile fiorentina.

 

La lettura della Bibbia la troviamo poi nel Capitolo IX, dove si narra “Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Prabianco in Lombardia e delli novelli delle vestimenta muodi” in un esempio di carità esemplare nella cui generalità, come dicevamo, sembra vivere anche una delle intenzioni della scrittura. Poi ancora nel Capitolo XVIII “Delli grandi fatti…Cola de Rienzi” con una citazione che è inscritta nel famoso dipinto/allegoria fatto apprestare da Cola in Campidoglio[59], e, sempre nello stesso capitolo, varie citazioni dai Salmi e Maccabei pronunciate da un Cola che fu un vero e proprio atleta della Sacra Scrittura, declamata sempre con  grande solennità. E, per finire, nel Cap. XXVII, sulla fine di Cola, dove, dai Salmi, egli trae l’iconologia anche qui per una pittura. Ma la lettura della Bibbia, in fin dei conti, non si costituisce mai in struttura portante della argomentazione come per altre cronache cittadine, viene piuttosto sfruttata o come serbatoio di sentenze morali o come chiave di interpretazione per chiarire la personalità di Cola nel suo atteggiamento verso la tradizione. Un po’ come le strade secondarie che conducono alla piazza e che rappresentano l’antefatto a introdurre la vera propria narrazione. Vedremo nel prossimo capitolo che significati, a nostro avviso, la lettura della Bibbia da parte di Cola; ora riprendiamo le fonti.

 

Nel cap. XVIII fa menzione del Valerio Massimo dei Factorum ac dictorum memorabilium , in un luogo sui sogni premonitori; inoltre,  non distante, troviamo anche il Gregorio Magno dei Dialoghi. Tutti testi molto conosciuti nel Medioevo, specie quello di Valerio Massimo ai cui esempi morali si rivolgeva l’attenzione dei lettori. Bisogna ricordare che anche Valerio Massimo era un lettore di Tito Livio, al punto che, come nell’esempio del nostro, troviamo la stessa parola, la stessa descrizione. Di Sallustio, Seneca, Lucano non abbiamo trovato citazioni dirette, se non in pura e semplice nominazione; risulta tuttavia evidente che il conservatorismo stilistico, se ci è concessa questa espressione, è forma imponente e rigogliosa, una scelta consapevole di lettura in sintonia con la concezione statica della cultura propria del medioevo, che non consentiva variazioni al ductus espressivo, se non per accidente. Per lo storico latino Tito Livio non occorre citare espressamente  i luoghi di questa mimesis stilistica perché, sia direttamente, in più punti della Cronica, che indirettamente, come imponente miniera di storie o come vero e proprio tracciato argomentativo, gli Ab urbe condita sono la lettura sulla quale si struttura tutta la pagina di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone. La conoscenza di questo testo svela un amore sacro; e leggerlo e riscriverlo significa mettersi in competizione con la cultura del proprio tempo, ricorda Giuseppe Billanovich nel suo La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo [60].

 

All’opera di Lovato Lovati, energico restauratore, si deve la fortuna che l’antico testo liviano avrà nei secoli successivi e non stupisce, in un Paese come il nostro, che l’operazione sia effettuata da un padovano su un padovano. Il Lovato nacque nel 1240, e forse assisté alla lettura pubblica della Cronica di Rolandino; certo la sua spiccata personalità di erudito e letterato è un capitolo di storia dello studio padovano e, con molte probabilità, fu allievo dell’anzidetto maestro di Retorica. Lovato si occupò di Tito Livio con la tempra forte ed energica della sua erudizione; di li a poco doveva nascere anche un altro grande lettore dello storico latino, vale a dire Alberto Mussato, il quale scriverà Ecerinide, ovverossia la tragedia del tiranno Ezzelino, sul modello del Seneca tragico, che solo poco prima il Lovato aveva dato a ricopiare.

 

Seneca, Tito Livio, la tragedia di Ezzelino sono letture che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone deve conoscere, se non altro per le novità di cui sono portatrici, dopo il recupero dei padovani. A un affamato di novità come lui non potevano sfuggire certi bocconi, soprattutto se si pensa alla carestia culturale che si doveva patire a Roma di quei tempi.

 

In conclusione vorremmo interrogarci sul rapporto del nostro con Dante e Petrarca. Perché gli editori antichi hanno tagliato un intero capitolo riguardante la vita di Dante? E Petrarca? Avrà assistito alla sua incoronazione in Campidoglio l’8 aprile 1341? Avrà attinto alla sua biblioteca viaggiante e sovra cittadina? Che le notizie padovane giungano da Petrarca?

 

Note: 

 

[1] G.F.Contini, La Cronica di Anonimo Romano, ora in Letteratura delle Origini; Firenze, Sansoni, pp 504-506

 

[2] Anonimo Romano, Cronica, edizione critica a cura di Giuseppe Porta, Milano, 1979, Adelphi edizioni. A questo testo faremo riferimento per qualsiasi citazione della Cronica

 

[3] G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la 'Cronica' del non più Anonimo romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei - Classe di scienze morali, storiche e filologiche", s. IX, 6 (1995), pp. 195-211.

 

[4] L.D.Rejnolds, N.G. Wilson, Copisti e filologi, Padova 1973, Editrice Antenore

 

[5] G.F. Contini, op.cit., p.504

 

[6] In “Studi e problemi di critica testuale” n.21, ottobre 1980, pp. 181-184

 

[7] Nota introduttiva, pp. XI-XVII in Anonimo Romano, Cronica, 1981, Milano, Adelphi

 

[8] Huizinga, L’autunno del Medioevo, Firenze, 1953, Sansoni p.53

 

[9] Girolamo Arnaldi, Il notaio cronista e le cronache  cittadine in Italia, in La storia del Diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del 1° Congresso internazionale della Società italiana di Storia del Diritto, Firenze 1966,Olscki, pp.297-298

 

[10] Giovanni Tabacco, La Storia politica e sociale. Dal tramonto dell’Impero alle prime formazioni degli stati regionali, in Storia d’Italia, volume secondo, tomo secondo, Torino 1974 Einaudi p.1978.

 

[11] J. Le Goff, L’Italia fuori d’Italia. L’Italia nello specchio del Medioevo, in Storia d’Italia, tomo II, vol. II, Torino, 1974

 

p.2030

 

[12] A questo riguarda è utile anche lo studio, nel volume Storia d’Italia Einaudi Annali, dedicato al Paesaggio, a cura di Elizabeth e Jorg Garms: Mito e realtà di Roma nella cultura europea. Viaggio e idea, immagine e immaginazione. Torino 1982

 

[13] J. Le Goff, op.cit., p.2019

 

[14] Giovanni Tabacco, op. cit. p. 269

 

[15] Ed. Porta, op. cit. , p.41

 

[16] Giovanni Villani, Cronica, Torino, 1979, Einaudi, p. 5.

 

[17] Felice Papencordt, Cola de Rienzi e il suo tempo, traduzione a cura di Tommaso Gar, Torino, 1844, Giuseppe Pomba e comp. Editori. P. 40

 

[18] G.M.Anselmi, op. cit. e Massimo Miglio, Et rerum facta est pulcherrima Roma. In Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Accademia tubertina, 1981, pp.331-369

 

[19] Jacques Le Goff, Alle origini del lavoro intellettuale in Italia. I problemi del rapporto fra letteratura, università e professioni, in Letteratura italiana, Torino, 1982, Einaudi.  p.650

 

[20] Cronica, ed. cit. p.90

 

[21] Giuseppe Billanovich, Gli umanisti e le cronache medievali. Il Liber pontificalis, le Decadi di Tito Livio e il primo umanesimo a Roma. In Italia medievale e umanistica (1958)

 

[22] J. Le Goff, op.cit., p.663

 

[23] http://www.thelatinlibrary.com/liberpontificalis1.html  si veda anche “Si tratta della serie di biografie papali conosciuta con il nome di Liber Pontificalis : un’opera notevolmente complessa, che ha giocato un ruolo di importanza capitale nella cultura del medioevo, visto che è stata per secoli e in tutta Europa il tramite principale della conoscenza delle azioni dei papi, il veicolo di un’ideologia della chiesa romana – del suo fondamento divino, del suo primato e della sua funzione rispetto all’intera comunità cristiana –, che per essere sostanzialmente implicita era di fatto ancora più efficace, e un modello su cui si sono strutturati il ricordo e la coscienza di sé di molte altre chiese. La straordinaria tradizione manoscritta del Liber è la miglior prova di questo successo e di questa importanza, e il collegamento che il testo ha nei codici con scritti di natura dottrinaria, con collezioni di canoni e con opere di storia indica con chiarezza le direttrici secondo le quali soprattutto ha esercitato la sua influenza” Lidia Capo da pdf disponibile sul web

 

[24]http://www.mediterranees.net/mythes/troie/storie.html  

 

[25] http://www.info.roma.it/documenti_dettaglio.asp?css_font=arial

 

[26] Emilio Pasquini, in Letteratura italiana Laterza. Volume dedicato al Trecento. Bari. Laterza. P.7

 

[27] G.M.Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa, 1979, Pacini

 

[28] J.Le Goff, op.cit. in Letteratura italiana Einaudi, p.659

 

[29] Girolamo Arnaldi, Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma 1963, Istituto storico italiano per il medioevo.

 

[30] Rolandini Patavini, Cronica in factis et circa facta Marchie Trevixanae,a cura di A Boiardi. R.R.I.I.S.S. 8/1 (1905-1908).

 

[31] Cronica extravagans de antiquitatibus civitatis Mediolani di Galvano Fiamma

 

[32] Giovanni Villani, Nuova cronica. In rete il testo integrale prodotto da Giuseppe Porta http://www.classicitaliani.it/index144.htm

 

 

 

[33] Ugolini, La prosa degli “Historiae Romanae Fragmenta” e della cosiddetta “Vita di Cola di Rienzo” in Archivio della R. Deputazione Romana di Storia Patria, 1935, p.70

 

[34] Paul Zumthor, Semiologia e poetica medievale, Milano 1973 Feltrinelli P.70

 

[35] Luciano Anceschi, Poetiche del novecento in Italia, Milano, 1963

 

[36] Arsenio Frugoni, La biblioteca di Giovanni III duca di Napoli, in Annali della scuola speciale per archivisti e bibliotecari dell’Università di Roma, IX, (1969) p.161-171

 

[37] Cronica, ed.cit. p.3

 

[38] Isidoro di Siviglia (in latino Isidorus Hispalensis; Cartagena, 560 circa – Siviglia, 4 aprile 636) fu vescovo della città spagnola durante il dominio dei Visigoti e prominente esponente del mondo culturale suo contemporaneo. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che lo considera Dottore della Chiesa

 

[39] Si veda Tommaso Giordani, L’uomo soggetto e oggetto nel tempo, e la memoria in http://www.bibliomanie.it/memoria_uomo_soggetto_oggetto_tempo_giordani.htm

 

[40] Aron Gurevic, Le categorie della cultura medievale, Torino, Einaudi, 1982. P. 72

 

[41] P. Zumthor, op.cit. p. 69

 

[42] Ibidem, p. 83

 

[43] Cronica, ed. cit. p. 3

 

[44] G.M. Anselmi, Il tempo… P.193

 

[45] Si vedano in particolare i già citati testi di Anselmi e M. Miglio

 

[46] Girolamo Arnaldi, Studi sui cronisti… cit. P.73

 

[47] Ibidem

 

[48] Ibidem,  P. 160.

 

[49] Cronica, ed. cit. P. 5

 

[50] Ibidem. P. 12

 

[51] Rolandini Patavini, Cronica…cit. P. 5.8-10

 

[52] Cronica, ed.cit. P.4

 

[53] Per il testo di Livio si veda l’edizione B.U.R. Milano 1982 Rizzoli P.224

 

[54] Cronica, ed. cit. P. 6

 

[55] Rolandini Patavini, Cronica. cit. Prologo p.7

 

[56] Cronica, ed.cit. P.3

 

[57] Ottone Brentari, Ecelino da Romano nella mente del popolo e nella poesia, Padova, 1889

 

[58] G.M.Anselmi, op.cit. P.183

 

[59] Cronica, ed.cit. P. 147

 

[60] Giuseppe Billanovich  La tradizione del testo di Livio e le origini dell’Umanesimo, Padova 1981, Antenore, tomo

 

secondo

 

CAPITOLO SECONDO

 

 

 

Il 29 novembre 1347, il Petrarca, di ritorno dalla Francia, indirizzava al Tribunum urbis Rome, Nicolaum[61], una lettera di sdegno misto a preghiera per il motivo del suo mutato contegno nella direzione dell’Urbe.

 

La lettera, raccolta nei Familiarum rerum libri [62] è piena di rimproveri e avvertimenti all’indirizzo di Cola affinché desista dal seguire quella china fatale verso cui lo spingono gli avvenimenti e nella quale precipita, inebriato come si trova, dal favore popolare e dalla sfrenata sua ambizione. Attento! “Facilis descensus Averni” e “Magnus enim labor est magne custodie fame”. “O multum pricipium dissimilem finem” apostrofava il poeta deluso per l’evolversi degli eventi: “ et hanc michi quoque durissimam necessitatetem exime, ne liricus apparatus tuarum laudum, in quo  teste quidem hoc calamo multus eram, desinere cogatur in satiram”. Insomma Petrarca vedeva volgere in ridicolo e doloroso spettacolo quell’impresa in cui egli stesso aveva sperato, in cui egli stesso si era impegnato, segretamente aspirando, come ricorda il Billanovich, in favori e onori.

 

La lettera, pur non presentando elementi significativi utilizzabili  direttamente nella nostra ricerca, è tuttavia analizzabile per comprendere le posizioni di entrambi gli scrittori circa la concezione del tempo e della storia.[63]

 

Se Petrarca, attraverso proposizioni come “ibunt res quo sempiterna lex statuit” e “secundet Deus haec et letiora faciat quem narratur” fa riferimento alla temporalità e alla dottrina della predestinazione che si desume dalla teoria agostiniana, Bartolomeo di Iacovo da Valmontone invece, nel considerare queste cose, pare riferirsi a posizioni diverse. Il nostro cioè sembra tendere a una più naturalistica visione delle cose umane, e forse anche una concezione classica nel tempo nella quale gli avvenimenti della storia sono visti rivolgersi come in un simbolico circolo. Ma se nella teoria le posizioni sembrano divergere, come dimostreremo con più accuratezza nelle pagine seguenti, nella dispositio dell’ argomentazione i due scrittori sembrano in un punto convergere. Quel luogo in cui entrambi gli scrittori utilizzano il patrimonio esemplare della tradizione classica per esortare Cola, nel caso di Petrarca, a desistere dal compiere azioni insane e truci imprese, e Bartolomeo quando deve indagare le cause dell’errore di Cola che utilizza un esempio desunto da Tito Livio[64].

 

La lettera del Petrarca, che cita Virgilio, Terenzio e un proprio versiculo dell’Africa, è scritta per segnalare la china discendente verso cui precipitano gli avvenimenti prima ancora che si compiano, ma è anche fra le letture che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone segue al momento della stesura della sua Cronica, allorché deve narrare il precipitare degli eventi che segnano la sconfitta del tribuno. Infatti, prima di iniziare la descrizione della caduta del Tribuno, utilizza lo stesso procedimento di rimando all’esemplarità della storia antica (Tito Livio) che ritroviamo nella suddetta missiva che il Petrarca aveva scritto una decina di anni prima. Il nostro parere è che il nostro autore, dovendo strutturare una formula consona a quel tipo di spiegazioni, si sia ricordato di quel passo del Petrarca in cui il ruolo del consiglio e della prudenza è assunto per la sua esemplarità dalle antiche narrazioni. Naturalmente tutto ciò non può che essere relegato nel regno delle ipotesi, delle congetture, anche perché se si confermasse una imitiatio di strutture narrative petrarchesche si dovrebbe pure postulare la diretta partecipazione di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone alle questioni interne dello sfortunato Tribuno. Certo, la pubblicazione dell’Epistolario di Cola ha dimostrato che il nostro ha una non superficiale conoscenza di quegli avvenimenti; tuttavia, in mancanza di riscontri sicuri non è il caso di azzardare avventurate risoluzioni. E poi le concordanze si possono sempre spiegare facendo riferimento al clima culturale del  luogo e dell’epoca.

 

Il recupero dell’antico e la conoscenza approfondita dei testi classici è nelle intenzioni di un altro grande personaggio dell’epoca: Giovanni Colonna. Amico del Petrarca, con lui intrattiene un frequente e familiare epistolario. Inoltre fu autore di un Liber de viris illustribus in cui, per usare le parole del Muscetta, “ già colpisce un certo spirito critico nell’uso delle fonti, alla definizione del quale contribuì la permanenza presso la corte avignonese.”[65] Per non dire di Pietro Cavallini, canonico di Santa Maria della Rotonda, riscopritore della grandezza di Roma nelle pagine della sua Polistoria, composta tra il 1345 e il 1347 in un eloquente latino, secondo la definizione del Muscetta. Volendo riprendere poi le ipotesi sostenute della conoscenza, da parte del nostro, dei contenuti dell’opera del Mussato, occorre qui ricordare due testi del famoso poeta: “De gestis Henrici VII Caesaris” e il “De gestis italicorum postmortem Henrici VII” che possono costituire un utile riferimento alla nostra tesi, in quanto, come sottolinea il Muscetta, “le due opere mirano a superare i limiti del cronachismo, riprendendo non solo la tradizione romana della storia imperiale, ma lo stile della più autorevole storiografia antica.”[66]

 

Livio diviene il modello letterario del Mussato, lo imita nei modi del racconto, intramezzato da orazioni e illustrato da prodigi che accompagnarono i grandi avvenimenti, ma anche nella struttura solenne del periodo. I propositi letterari del Mussato sono chiaramente enunciati nel prologo delle storie di Arrigo VII, dove il ricorso agli antichi modelli viene prospettato come necessario perché la fama corrisponda alla maestà del tema: un principio che rimarrà uno dei canoni fondamentali della letteratura umanistica.

 

Questi testi, dicevamo, così come altri del Petrarca, paiono offrirsi all’universo letterario in cui gravita Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, la cui pagina sostanzia in narrazione originale ed espressiva le infinite pulsioni di quel mare agitato dai venti della crisi che colpisce il nostro tardo medioevo. Difficile però ricercare nell’esempio più precisi raffronti con l’opera poetica del Petrarca, e in ciò siamo confortati dal magistrale saggio di Gian Franco Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in cui l’indagine sul temperamento linguistico del poeta individua nell’unilinguismo, nell’unità di tono e di lessico, nella mancanza di interesse teoretico e di esperimenti, le caratteristiche proprie della lingua petrarchesca, tutti motivi che invece possono approssimativamente trovarsi ribaltati nella Cronica, dove, semmai, siamo  più vicini a quella sensibilità linguistica dantesca, con la quale il Contini istituiva la sua argomentazione. Ma all’indagine stilistica dedicheremo altro spazio più avanti; per ora seguiamo i nostri referenti culturali i quali ovviamente non possono mancare di un discorso su Aristotele, sulla teoria medica di Galeno e sul naturalismo padovano.

 

Ad illustrare quello spirito scientifico che, a nostro giudizio è una delle componenti rilevanti della Cronica, rileggiamo questa pagina tratta dalla Storia della filosofia di Nicola Abbagnano[67], la quale presenta quelle premesse concettuali dell’indagine averroistica e aristotelica dell’epoca, che avranno una diretta rispondenza nelle elaborazioni dei maestri della scuola bolognese e padovana: “ Il secolo XIII segna una grande fioritura della ricerca scientifica. Già nel secolo precedente la scuola di Chartres, riprendendo e amplificando le speculazioni di Scoto Eriugena,[68] di Abelardo[69], aveva considerata la natura come parte o elemento del ciclo creativo divino e aveva con ciò richiamato su di essa l’attenzione della filosofia. Ma si trattava di un’ esaltazione teologica e poetica della natura più che una disposizione allo studio sperimentale su di essa. Dall’altro lato, neanche questa specie di studio era completamente mancato nei secoli del Medioevo; era piuttosto respinto fuori della filosofia e, in generale, del sapere ufficiale e riservato ad alchimisti, maghi e simili diabolici dottori, intenti a capire con arti subdole i segreti del mondo naturale, per dare all’uomo, con poca fatica, la ricchezza, la salute, la felicità. Ma l’affacciarsi della filosofia araba e dell’aristotelismo, il carattere della ricerca sperimentale muta completamente. La matematica, l’astronomia, l’ottica, la fisica, la medicina degli Arabi, che avevano continuato per loro conto, sia pure con risultati modesti, il lavoro di ricerca della scienza classica, giungono ora a conoscenza dei filosofi del mondo occidentale. L’aristotelismo, che si presenta come una completa enciclopedia del sapere, comprendente in sé le discipline scientifiche particolari, vale ora agli occhi degli stessi filosofi come la giustificazione sufficiente di queste scienze e delle ricerche sperimentali su cui esse si fondano. Con ciò tali ricerche cessano di essere un lavoro segreto riservato agli iniziati, tendono a diventare un aspetto della ricerca filosofica e assumono un posto riconosciuto nell’economia generale del sapere. Questa più vasta e forse più radicale influenza della diffusione dell’aristotelismo non si restringe a coloro che rimangono più aderenti alla lettura del sistema aristotelico ma investe l’intero campo della cultura, Agostiniani e aristotelici la risentono in eguale misura.”[70]

 

Non è certo per legare la Cronica ai parametri della filosofia averroista che ci siamo rivolti alla scuola naturalista padovana; tuttavia è innegabile che alcune tra le intenzioni che presiedono al lavoro dell’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone possano venire richiamate da quel metodo prescientifico, da quella indagine del pensiero. Pietro d’Abano, per esempio, è un esponente tipico di quella indagine naturalistica che caratterizzerà la scuola padovana e che conquisterà talora anche quella bolognese[71]. A lui si deve la fondazione dell’’averroismo padovano, prodotto caratteristico dell’influenza degli Arabi e degli Ebrei nell’indagine scientifica. A lui si deve la rielaborazione della tesi averroista sull’eternità del mondo. La stessa ripresa averroistica era dovuta al fatto che si vedeva nell’Arabo, oltre a colui che aveva illustrato nel modo più completo il Maestro di color che sanno, lo scienziato e il medico insigne, alieno da ogni volgare superstizione, rigoroso scrutatore dei segreti della natura.[72]

 

 Comprendiamo che una semplice elencazione di testi, oppure di autori che potrebbero avere delle influenze sulla Cronica non avrebbe un senso qualora poi non fosse corredata da più precisi riferimenti, perciò rientriamo senz’altro nei ranghi dell’Bartolomeo di Iacovo da Valmontone avvertendo che nella elencazione di quei professori padovani e bolognesi è possibile anche individuare i testi e le istanze di scuola verso le quali l’identità della Cronica si confronta.

 

A questo punto è giunto il momento di seguire quella direzione a cui tutta questa premessa sottostà, vale a dire Aristotele. Aristotele è tenuto in grande considerazione dal nostro autore; per lui, come per Dante, ma prima ancora Tommaso, è il Maestro di color che sanno, è il manuale della sua esperienza universitaria e l’enciclopedia del sapere dai cui deduce il metodo per ogni tipo di spiegazione. Molti rimandi all’opera di Aristotele sono disseminati nella Cronica e in particolare il passo del Cap. XVIII sul tema della divinazione attraverso il sonno, un punto che ci pare significativo del metodo, di come la lettura del grande filosofo divenga una vera e propria visione del mondo. Si noti, tra parentesi, che il brano è un tentativo di spiegare scientificamente secondo il sapere aristotelico un passo tratto dai Fatti e detti memorabili di Valerio Massimo, riguardante un sogno premonitore fatto da Cassio Parmese: “Aristotile lo filosofo de ciò fao menzione e speziale trattato in un sio livro lo quale hao nome De Suonno e Vigilia, nello capitolo della divinazione nello suonno. Dice Aristotile e quelli li quali sequitano la soa opinione che·llo suonno pote essere vero naturalmente. E ciò sottilemente demustra per una cutale via. In prima suppone lo filosofo che questa differenzia sia fra lo vigliare e·llo dormire. Nello vigliare granni movimenti pargo allo imaginare piccoli, nello dormire li movimenti e·lle cose piccole pargo granne. Como incontra che in alcuna perzona poca de flemma dolce li destilla per la vocca e pareli assaiare zuccaro, mele e cennamo. In alcuno abunna poca de collora e pareli vedere saiette volare per lo cielo, focora, fiamme e tempestate. In alcuno se move ventositate overo alcuno piccolo ventariello e pareli vedere che tutte le ventora tempiestino. La cascione de ciò sì ène che nello sopore tutti li spiriti staco insiemmora redutti drento alla fantasia ed alla imaginativa, donne soco più temperati a comprennere; anco, perché soco adunati, soco più potienti in soa operazione. Nello vigliare li spiriti so' despierzi, le cose soco varie e moite; e quanno la virtute stao unita, ène più forte che quanno ène sparza. Ià avemo che li spiriti nella notte staco solliciti, intentorosi, e piccola cosa li move. La secunna cosa presuppone Aristotile ène questa. Dice: “Ciò che noi operamo ène per l'airo, senza lo quale vivere non se pote. L'airo ène in mieso de noi. La favella umana vao da omo in omo, perché l'airo ène refratto da omo in omo. L'airo se muta e move secunno le mutazioni le quale l'uomini faco, como è delle densitati delle forme che apparo nello spiecchio”. Pone un aitro esempio: “Alcuno ietta la preta nello laco. La preta move l'acqua. L'acqua, mossa una parte, move l'aitra parte vicina in muodo de rota e tante rote fao quanto dura la potenzia dello vraccio. Stao lo pescatore con sio amo, pesca, non vede quello che la preta iettao, ma vede li cierchi che l'acqua fao. Conosce che omo li fao impaccio allo pesce prennere. Movese e veone a pregare che non ietti prete più”. Così, dice Aristotile, la favella, le operazione umane mutano l'airo. L'airo mutato da parte in parte perveo allo sentimento umano e delli aitri animali, como incontra che·lla camarda e·lle morte corpora iettano vapori corrotti per lo airo e perveo allo odorato delli lopi e delli avoitori, donne se scrive che cinqueciento miglia lo avoitore curre alle corpora morte. Questo non fora per aitro se non per la mutazione che fa l'airo continuato da cuorpo a cuorpo. Ora vole Aristotile che non solamente li effetti delle cose mutino l'airo, ma anco se muta l'airo per lo volere, li penzamenti dello omo; ché, quanno uno vole occidere un aitro, li spiriti se·lli infiammano aduosso. Li spiriti infiammati mutano l'airo secunno qualitate de quella collora accesa. L'airo mutato se continua colla perzona che deve essere offesa. Nella perzona che offesa deo essere staco li spiriti temperati secunno la connizione ello suonno, comprenno l'ira dello omo sopra de sé secunno alcuna specie, in tale specie o simile. Questa ène la rascione naturale la quale adduce lo filosofo.”[73]

 

Questa pagina merita più di un ragionamento, anzi, ne merita tanti quanti sono i possibili livelli di approccio che ce ne permettano la sua piena lettura; intanto “la rascione naturale” e la stessa dispositio della spiegazione, della argomentazione non possono indurre in equivoci: il nostro è un profondo e fantasioso conoscitore della trattatistica scientifica e naturalistica dell’epoca; i professori universitari ai quali prima abbiamo accennato potrebbero essere o diventare qualcosa di più di semplici referenti, anche perché la traduzione di Aristotele passa attraverso i loro stiletti e i loro calamai. Bartolomeo di Iacovo da Valmontone possiede l’ordine e la chiarezza che sono proprie del trattato di indagine scientifica, possiede quella retorica della esposizione che sarebbe stolto trattare sola alla stregua di mero ricordo scolastico. Non si spiegherebbero altrimenti i frequenti riferimenti aristotelici, a Galeno ( certo comprensibili, dato che i suoi testi erano una vera e propria Bibbia per lo studente iscritto alla facoltà medica o comunque ad un praticante di Medicina nel Medioevo ). Dai Metereologici, per esempio, troviamo un accenno al Cap. VIII dove si narra “Della cometa la quale apparze nella parte de Lommardia e della abassazione de Missore Mastino tiranno per li Veneziani” in cui si riprende la credenza antichissima, che riscontro anche in molti cronisti della Marca, di sconvolgimenti naturali corrispondenti a quelli operati dagli uomini. In generale il mestiere del “filosofo” è motivo si stima e ammirazione; naturalmente di filosofi ce ne sono di buoni e altri, per così dire, cattivi. Il re Roberto, per esempio, oltre ad essere “granne litterato ed esperto nella arte della medicina, fone franne fisico e granne filosofo”, qui concordando col Petrarca e il Boccaccio, mentre è noto il giudizio negativo su di lui nel Paradiso di Dante. Ce n’è poi un altro, di cui non si dice il nome,  di cui si diverte a osservare “siccome era uso sputare nella barba dei vicini quando non trovava altro luogo in cui scaracchiare.” Queste non episodiche simpatie per i fisici, per i medici, per i filosofi savi e sapienti o per i letterati non sono, a nostro avviso, per ricollegarci al discorso sulla scienza, effimere infatuazioni di un cronista che, dovendo, raccontare molti fatti e personaggi del suo tempo, si diverte a scaricare su di essi giudizi alla moda, gossip, cortesie o incomprensioni., ma sono senz’altro la matrice profonda del suo pensiero, del suo gusto, della sua ottica e del suo spirito, come la struttura basica che materia la sua cifra narrativa, il fuoco nascosto di quel suo lucido giudizio che allora a Roma, tenacemente, cominciava ad irradiarsi proprio dove maggiori erano le forze che lo venivano a sotterrare. A nostro avviso il segno aristotelico e naturalistico è tra i più chiari e profondi nella cultura e nell’anima morale di Bartolomeo e, del resto, si può vedere che la rappresentazione del male si svolge sempre entro il confine di una soluzione catartica, come la rappresentazione di quello che è iscritto nel fantastico, nell’improbabile, sia affiancato dalla stessa ragione naturale, come addirittura il comico (inteso come contrario del tragico in quest’età di forti emozioni) nell’esempio del personaggio a cui sbiancano i capelli a metà per la paura possa essere letto, insomma, entro la cifra aristotelica che  abbraccia il testo in ogni aspetto riflessivo ed ermeneutico.

 

In quest’ottica si comprende come l’aristotelismo della scuola bolognese e della scuola padovana, o il naturalismo, non siano più delle semplici piste, delle semplici strade verso le quali far confluire quello che non trova altrimenti spiegazione, quasi che questi parametri filosofici spiegassero quel prima che certa critica ha sempre voluto vedere in ogni autore, ma siano altresì quel territorio nel quale si svolge gran parte della sua precipua riflessione. E certo sono luoghi a loro modo scostati rispetto alla topografia in cui è situato il panorama letterario italiano. Le peculiarissime caratteristiche culturali e scrittorie del Nostro autore sono forse, per riprendere la pagina citata sopra, nel breve esempio della “preta gettata nell’acqua”. E’ un esempio  calzante, sul paino del procedimento narrativo, di logica scientifica e aristotelica. In esso possiamo vedere come la prassi retorica che procede dalla inventio si strutturi in dispositio secondo un andamento che definiremmo metonimico, come se i singoli elementi semantici – ma il discorso a nostro avviso vale per la generalità del procedimento narrativo –si disponessero slittando lungo una scala, come se fossero collegati con gli anelli di una catena secondo una relazione di contiguità e di concatenazione in direzione orizzontale per sciogliersi poi o in catarsi, o in scientifica o in umana riflessione ( nell’opposta, ossia verticale, direzione sappiamo era orientata quella di Scoto Eriugena sulla scorta delle letture platoniche ). Ma queste riflessioni di ordine narratologico e stilistico le riprenderemo nel prossimo capitolo, a noi piuttosto preme sottolineare di sfuggita come anche il procedimento paratattico, che a giudizio della critica specializzata costituisce l’eccellenza delle caratteristiche della Cronica,  possa venire interpretato secondo questa  ottica naturalistico-aristotelica-scientifica e che la nozione di primitivismo proposta, sia pure tra virgolette, appaia assai avventata, trattandosi invece di un autore culturalmente smaliziato. Giunti infine alla conclusione dell’indagine sui referenti culturali della Cronica, non rimane che parlare dell’unico nome di autore contemporaneo a Bartolomeo di Iacovo da Valmontone presente nel testo: Dante Alighieri.

 

Ultimo tra i referenti culturali nell’ordine che abbiamo dato al nostro testo, ma senz’altro il primo per importanza culturale e linguistica. La notizia su di Dante,  completa del “que fine abbe soa vita” , se non fosse stata cassata ce l’avrebbe fornita il capitolo terzo della Cronica e comunque già nelle pagine precedenti avevamo accennato all’uso di certi sintagmi  - cfr. quanno la iente lassa opera – che ipotizzassero in generale l’apporto dell’opera dantesca e la sua tenuta in considerazione. Del resto, come nota il Pasquini nel suo saggio : Il mito polemico di Avignone nei poeti italiani del trecento, “Dante è il nucleo generatore e il crocevia di quei fermenti politici e religiosi che riguardano la questione romana, la fonte di quel perpetuo atteggiamento di condanna della chiesa corrotta, di richiesta di renovatio o di satira dei vizi del clero…ma comunque occorre anche ricordare che dietro il cosiddetto filone del realismo in volgare – in cui con piena legittimità possiamo inserire l’Anonimo romano– la drammaturgia del quotidiano e la satira di costume, specie anticlericale, sta la straordinaria operazione realistico-figurale di Dante, il suo strapotente vigore narrativo e drammatico.”[74]Insomma era impossibile non leggerlo, in quanto, osserva il Pasquini, “ quello stesso Dante che si suole indicare come reazionario e conservatore, incapace di cogliere i mutamenti della società in cui vive, nostalgicamente rivolto a un passato irripetibile, è per contro il primo intellettuale e poeta italiano a percepire l’importanza della crisi avignonese, a farne un mito polemico, a raffigurare la cattività in immagini che segneranno un intero secolo nella sensibilità comune non solo della intelligenza trecentesca, ma anche di masse assai vaste.”[75]

 

Quantificare i riferimenti nella Cronica all’opera dantesca non è possibile, e nemmeno sarebbe utile ai fini del nostro lavoro. Ci basti comunque pensare a quel carattere di innovazione e di necessario riferimento che contiene l’opera dantesca per qualsiasi tipo di narrazione successiva nel tempo, sia essa un romanzo o un’elencazione di date sul tipo dell’annuario. Specie dopo gli studi di Auerbach e di Contini, che riprenderemo nel prossimo capitolo, appare evidente che la portata storica di quella operazione trova, a nostro avviso, anche nella Cronica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone una originale lettura e ricchi  aggiornamenti, che non potevano mancare, soprattutto se si pensa alla straordinaria sua capacità di recepire le avanguardie e i punti alti della cultura del suo tempo.

 

CAPITOLO TERZO

 

Esaurito, senza nessuna pretesa di completezza, il discorso sui referenti culturali del nostro autore, non rimane che avviarci, come abbiamo detto nell’introduzione, all’indagine della struttura narrativa e stilistica della Cronica, nella quale poi ovviamente raccoglieremo anche quella più propriamente contenutistica. E’ nell’atto di domandare, ricorda Jean Starobinski, che si precisano queste strutture: “ Le strutture non sono cose inerti né oggetti stabili. Esse emergono a partire da una relazione instauratasi tra l’osservatore e l’oggetto; si destano in risposta ad una domanda preliminare, ed è in funzione di questa domanda posta alle opere che si stabilirà l’ordine di preferenza dei loro elementi decifrati. E’ al contatto con la mia interrogazione che le strutture si manifestano e si rendono sensibili, in un testo da molto tempo fissato sulla pagina del libro. I diversi tipi di lettura scelgono e prelevano strutture preferenziali.” [76]

 

Dunque anche la domanda, l’interrogazione contribuiscono alla definizione del significato dell’opera, all’organizzazione della lettura in strutture: “Sistema chiuso e immobile – ricorda Cesare Segre nel suo I Segni e la Critica – quello dell’opera d’arte; esso ritorna alla vita, al movimento, attraverso la lettura. La lettura stilistica, che non si differenzia da qualunque altra lettura se non per la maggiore consapevolezza del metodo interpretativo, riattiva le differenze e le opposizioni tra le parti dell’opera: riscopre insomma il funzionamento del sistema. Ma difficoltà nascono per esempio dal fatto che a) il sistema stilistico di una singola opera costituisce di per sé un corpus linguistico, retorico, metrico ecc. con confini determinati, in altre parole una somma di parti di sistemi più che di sistemi; b) gli elementi di queste parti di sistemi, se anche sono spesso definibili in praesentia mediante il confronto con altri elementi, recalcitrano ad essere definiti in absentia, cioè ad essere sottoposti a una prova di commutazione stilistica con possibili concorrenti.”[77]

 

Per impostare subito il problema dell’analisi stilistica della Cronica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone rileggiamo anche questa breve, ma riassuntiva di intenti, dichiarazione di Leo Spitzer, tratta dal suo Critica stilistica e semantica storica: “l’indagine stilistica, quale svolgo da anni, applicando praticamente il pensiero vossleriano riposa sul postulato che a qualsiasi emozione, ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale, e viceversa, che un allontanamento dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto. Una particolare espressione linguistica è insomma il riflesso e lo specchio di una particolare condizione dello spirito.”[78]

 

Il problema è proprio definire l’uso linguistico normale, la lingua romana medievale, il volgare dell’epoca. In sostanza, “per essere sensibili a quanto vi è di individuale e creativo nell’uso verbale di uno scrittore – ricorda  Viktor Vinogradov nel suo saggio sull’analisi stilistica – è necessario possedere in comune con esso i lessemi del linguaggio letterario. Il lessema è l’unità linguistica semantica intesa come l'insieme, percepito almeno potenzialmente , dei significati e delle loro sfumature, collegati ad un segnale dato (parola).”[79] Noi, pur non possedendo la testimonianza dell’uso contemporaneo, possiamo tuttavia cogliere l’originalità stilistica della Cronica, riguardando ai testi in volgare romano precedenti e successivi alla data che essa reca. Questo, a nostro giudizio, intende forse Porta nella prefazione all’edizione economica della Cronica: “ Innanzitutto il fatto che essa si presenti come un esemplare del dialetto di Roma, compreso anche dalle classi meno avvezze alla cultura, (i volgari mercatanti cui programmaticamente si rivolge l’autore nel prologo) di purezza tale e quale non è possibile riscontrare in nessun’altra fonte linguistica locale pre o post rinascimentale. Si ponga mente ai volgarizzamenti di materia troiana e romana che precedono il nostro testo di almeno un cinquantennio o alle laudi e agli altri componimenti religiosi che si sogliono ancora includere nel secolo XIV; si guardi anche ai testi schiettamente quattrocenteschi, di carattere edificante o documentario, lasciando però fuori dalla nostra considerazione le opere redatte nei secoli immediatamente successivi in un linguaggio artificioso, e si dovrà convenire che in nessun caso ci si troverà difronte a qualcosa di pari valore letterario o di altrettanta sicura affidabilità dialettale.”[80]

 

Ovviamente il contesto in cui leggere e in cui far reagire la nostra Cronica è dato non solo dalle opere della stessa area geografica, ma anche da quelle coeve e da quelle cui, per esempio, abbiamo fatto riferimento nel precedente capitolo sulle fonti. Si tratta cioè di individuare le peculiarità del testo attraverso un’analisi contrastiva con la sintassi e, in generale, con lo stile dei principali usi (per ricollegarci a una terminologia spitzeriana) letterari dell’epoca, così da farne risaltare quelle peculiarità che la distinguono, per esempio, dalla  lingua letteraria di Dante, di Boccaccio o del Sacchetti. Ma non solo, ricorda il Porta nello stesso luogo che abbiamo citato sopra, “l’altro elemento che unitamente alla coerenza e alla vitalità del romanesco può spiegare la potenza espressiva della Cronica deriva dalla posizione assunta dall’opera nel confronto delle altre cronache cittadine coeve, prime fra tutte, quelle celebrate dal Villani. Vengono trattati nelle nostra Cronica argomenti di storia spagnola, orientale e francese, oltre a quelli di interesse spiccatamente italiano, se non romano, ma si tratta sempre di avvenimenti racchiusi nelle vita dell’autore che non si fatica ad immaginare, come egli stesso si dipinge più volte, solerte raccoglitore di notizie presso i pellegrini e attento osservatore di ciò che lo circonda.”[81]

 

Definite le potenzialità e quindi anche il riquadro nel quale costruire il nostro mosaico critico sulla storia dell’Anonimo, passiamo ora alla posa vera e propria dei tasselli. La prima considerazione da fare a questo proposito riguarda la paratassi: già il Contini individuava in questa caratteristica il prodigio della Cronica, che definiva “d’un rigore e d’un ‘oltranza che va molto al di là dell’aureo trecento dei puristi.”[82]

 

“La paratassi – come si desume dal Dizionario di Linguistica Zanichelli – è un procedimento sintattico che consiste nel giustapporre le frasi senza esplicitare, mediante una particella di subordinazione o di coordinazione, il rapporto di dipendenza che esiste fra di loro in un enunciato, in un discorso, in un “argomentazione.”[83] Per entrare più a fondo nel discorso sulla paratassi, occorre innanzitutto rilevare l’incidenza stilistica e quindi anche semantica, che questa ottiene; a questo proposito usufruiamo dell’ausilio, ma sarebbe meglio dire guida, del pregevolissimo saggio di Maurizio Dardano: L’articolazione e il confine della frase nella Cronica di Anonimo Romano,[84]  in cui l’autore applicando le metodologie della linguistica testuale e della stilistica alla Rychner sulla Cronica, ha ottenuto rispondenze sul piano sintattico-descrittivo a nostro avviso fondamentali per ogni indagine successiva, se non altro per l’esemplarità del metodo di approccio.

 

La prima considerazione (possiamo anche desumerla scorrendo l’indice redatto dallo stesso Anonimo) è che: “I capitoli di cui si compone la Cronica – osserva il Dardano- hanno in comune il fatto di comprendere più di un episodio. Tale pluralismo tematico comporta la presenza di vari schemi di inquadramento, di collegamento, di determinazione temporale e/o circostanziale. Questi fenomeni e, al tempo stesso, il frequente intervento dell’io narrante, il ricorrere di ‘certi segnali.. li quali fuoro concurrenti con esse cose’, le digressioni esemplari, sono fattori che, con mutamenti prospettivi e strumentazioni formali, condizionano le configurazioni frasali del testo, …) [85] e, aggiungiamo noi, marcano anche quello che dicevamo essere il suo plurilinguismo.

 

Nonostante ciò la Cronica, pur mantenendo questa sua peculiarità, presenta – riprende il Dardano- “Come altre opere di tal  genere, caratteri di ripetitività di situazioni e di forme. Questo susseguirsi di scontri, battaglie, sommosse, spostamenti armati, cortei, esecuzioni ecc., comporta una certa continuità di formalismi. Gli stessi procedimenti sintattici e testuali ricoprono per lo più diversi tipi di discorso. Non c’è, tra l’altro, una vera e propria differenza compositiva tra il racconto e il discorso diretto. Quest’ultimo non ha largo spazio; più frequenti, semmai, sono la battuta pointe e lo scambio di battute. Ma degno di nota è soprattutto il fatto che il discorso diretto presenta la stessa predilezione per l’asindeto che appare nel racconto.”[86] Il parlare in prima persona ha, in altre parole, anche la funzione di svolgimento del processo espositivo, quasi si trattasse di montare l’azione attraverso il narrare dei personaggi stessi.

 

Ma per ritornare alla vera e propria paratassi, vediamo che questa caratteristica è confermata anche dall’uso ridotto delle relative; come veri e propri tratti originali, troviamo, inoltre, frequenza di asindeto e strutturazione infra e inter-frasale mediante addizioni successive, nonché l’uso ripetuto del pronome anaforico ad evitare la prospettiva della relativizzazione. “Un aspetto peculiare della Cronica – precisa il Dardano – è la successione di frasi monoproposizionali asindetiche che si susseguono in serie estese… La serie asindetica svolge due funzioni fondamentali: proseguimento dell’azione e descrizione.”[87] Questa anatomia sul corpo della sintassi della Cronica vede, poi, un altro elemento caratteristico molto importante: l’uso dell’avverbio all’inizio di frasi inserite in serie asindetiche, per la qual cosa l’Ugolini osservò che: “Le relazioni logiche fra membro e membro sono messe in rilievo incisivamente da avverbi piuttosto che dalle scarsamente espressive non necessarie congiunzioni.”[88]  Importa, dunque, anche l’organizzazione testuale della Cronica che spesso è caratterizzata da un certo parallelismo del confine frasale. E il collegamento delle frasi avviene mediante la ripetizione di un elemento identico o con la stessa base. Non è il caso di riportare qui i campioni di testo che sono stati adoperati per trarre quelle conclusioni, in quanto, per il merito del saggio di Dardano, essi possono ben dirsi applicabili alla totalità del testo della Cronica e, sebbene la ricerca sia stata svolta sul campo dei primi dieci capitoli, questi elementi trovano la loro funzionalità effettiva nel testo integrale che l’edizione del Porta ci ha dato. Il saggio del Dardano è ricco poi di altri e molteplici spunti applicabili alla nostra analisi stilistica. Un tratto ricorrente nella Cronica è, per esempio, il passaggio dal passato remoto, o dall’imperfetto, al presente. Di questa attualizzazione della struttura narrativa, di questa organizzazione modale del testo, sono suscettibili varie interpretazioni. La più evidente pare richiamarsi allo stile epico, il quale adotta lo stesso modello di variazione dell’aspetto verbale quando si occupa della descrizione attualizzata dei fragori e dei convulsi rumori di scontri e battaglie. Questa rispondenza sul piano formale della scrittura la segnalammo anche nel precedente capitolo, allorché ricordammo la lettura di Lucano tra le fonti possibili di queste così vivide ed espressionistiche descrizioni.

 

A questo punto seguiamo l’analisi che il Dardano fa sul rapporto intercorrente fra due frasi; essa ci permetterà di riallacciare il discorso con quelle ipotesi naturalistico-scientifiche che avanzammo circa la logicità e la circolarità della prosa di Bernardo di Iacovo di Valmontone.

 

Dardano distingue quattro tipi di rapporti interfrasali (presi a due o tre alla volta): specificazione, causalità, conclusione e proseguimento. “Nel rapporto di specificazione la seconda frase specifica il contenuto della prima illustrandone le circostanze, le modalità di svolgimento o di attualizzazione, i  componenti … Nell’ambito del rapporto di causalità si possono distinguere due modelli a seconda della posizione della frase che si considera esprimere la causa rispetto alla frase principale… Se i rapporti di specificazione e di causalità sono di natura statica, quelli di conclusione e di proseguimento indicano invece un moto in avanti: il confine della frase coincide con lo svolgersi dell’evento. L’asindeto binario conclusivo è uno dei tipi sintattici più frequenti della Cronica:  ‘Puoi deruparo a terra quello nobile castiello che ditto aene. Aitro non lassaro se non la chiesa (p. 23)…’. Nella Cronica la conclusione di un evento appare spesso quale ultimo componente di una struttura ternaria: ad esempio ‘li legni tornaro. Là li lassaro senza pane. Là muoriero di pura fame (p.64)…’. Inoltre per indicare il rapporto di proseguimento tra due o più frasi si ricorre più di frequente all’imperfetto: ad esempio ‘forte tenevano mente Romani. Queti staveno. Ponevano cura se peccava in faizo latino (p.26)’. ” [89]

 

Questi fenomeni accertati vanno ovviamente visti nella loro interrelazione; il metodo additivo, rileva, per esempio, il Dardano, variamente presente nella prosa media del tempo, è eseguito originalmente dal nostro, in modo tale che esso si accordi sia alla prevalente linearità paratattica, sia agli innesti colti che affiorano non raramente nell’opera. “ Il comune denominatore di questi fenomeni è la pregnanza stilistica, l’abbreviatio conseguita con una ricca e varia strumentazione. La presenza dell’influsso del latino , per esempio, nel campo della sintassi, si avverte in vari aspetti: dalla omissione dell’articolo e dalla proposizione all’accusativo con l’infinito, dall’ordine delle parole ad una sorta di ablativo assoluto.”[90]

 

Sono poi da considerare, con particolare attenzione, la ripresa nominale nell’ottica di una contiguità cui abbiamo sempre fatto riferimento e, a nostro avviso, punto qualificante di una struttura basica, la struttura circolare. “La struttura circolare – osserva il Dardano – evidenzia il confine di un modulo narrativo, attuando al suo interno una corrispondenza e, talvolta, una certa simmetria di alcuni componenti.”[91]

 

Legittimo è ricordare a questo proposito l’aneddoto  del sasso lanciato in uno stagno e i suoi prodotti movimenti circolari; un esempio tratto da un testo pseudo aristotelico che ebbe molta fortuna nel Medioevo e che, per la sua portata simbolica, secondo noi, è fecondo di generali interpretazioni.

 

“Vero è tuttavia – riprende Dardano – che nella Cronica la connessione delle frasi si attua secondo una tipologia piuttosto varia, la quale dovrà essere studiata con riferimento alle situazioni espressive e alle strategie discorsive di volta in volta presenti nell’opera. In uno sviluppo prevalentemente lineare, si inseriscono formule introduttive, simmetrie, strutture prolettiche e antitetiche che rendono mosso il confine e l’articolazione della frase.”[92]

 

L’attenzione rivolta alle forme sintattiche, parte sostanziale di una disamina sullo stile, implica, come abbiamo visto, il riferimento ai moduli narrativi. Nella pratica della scrittura, la microscrittura della frase trova estensione nell’assunto della macrostruttura narrativa; il genere letterario della Cronica informa la percezione della scrittura e l’andamento dello stile, anche se, come ha notato lo stesso Dardano, nella Cronica non sono riscontrabili quelle regolari simmetrie dell’impianto narrativo che definiscono, per esempio, il disegno della Comedia dantesca. La geometrizzazione del racconto appare strutturata piuttosto secondo una prospettiva che si precisa di volta in volta e che si organizza secondo la finalità dell’exemplum. Difficile, peraltro, istituire paragoni con la cattedrale dantesca, anche perché, sebbene gli anni che la separano dalla Comedia non siano poi molti, la Cronica viene scritta in un altro tempo e, come ci ricorda l’Anselmi, in altre circostanze e tuttavia dimenticare non era nelle facoltà di Bernardo di Iacovo di Valmontone; la sua solerzia anzi la sua curiosità, la sua passione furono sempre vigili e attente a rispolverare i magazzini del passato e della memoria, a riutilizzare quello che sembrava morto, incolto.

 

Gli aggiustamenti, i tagli del montaggio narrativo, le pluralità delle concezioni nella sua scrittura ci trovano per esempio disorientati quando ci accingiamo a definirne i riferimenti temporali; nella Cronica, infatti, paiono convergere, oltre a quelle enunciate dall’Anselmi, posizioni contrastanti, quali, per esempio, si trovano noto saggio di Jacques Le Goff Il tempo del mercante e quello della chiesa : “Questo fu ricco massaro. Figlioli non avea, ricchezze moite: fanti, fantesche assai, pecora, vuovi, iumente, campi seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentiu.”[93] E poi, a lato, l’esaltazione dell’utilità, dei mercatanti, dell’abilità artigianale e della ragione naturale che parrebbero riferirsi ad una temporalità laica e commerciale. Ma non è solo il problema della temporalità, che ci porterebbe fuori del discorso, a definire l’eclettismo di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone in campo culturale, ma soprattutto quella che abbiamo definito la sua plurivocità stilistica, la dialogicità della sua scrittura sociale. Dopo Dante, sembra dire Auerbach, quella ricchezza di tonalità pare possibile; Bartolomeo di Iacovo da Valmontone va debitore al sommo poeta della possibilità di fare un così libero uso del suo ingegno, di conquistare il posto da cui dominare il mondo presente dei fenomeni, afferrandoli in tutta la loro complessità per poterli poi riprodurre in una lingua pieghevole ed espressiva.

 

Dice Auerbach in Mimesis: “I soggetti che la commedia presenta offrono una mescolanza di sublime e di infimo che agli antichi sarebbe sembrata mostruosa… Molto di frequente essi vengono rappresentati realisticamente e senza ritegni nella loro cerchia di vita umile e in genere, come ogni lettore sa, Dante non conosce limiti nella rappresentazione esatta e schietta del quotidiano, del grottesco e del repellente.”[94] Sono caratteristiche che definiscono la linea stilistica di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, per non dire il suo programmatico riferimento. Allo stile alto e sublime sembra rivolgersi direttamente il nostro autore in apertura di Cronica allorché dice di voler scrivere “li fatti avanzarani e mannifichi”; in generale comunque, come per esempio notava il Dardano a proposito della mutazione attualizzante dell’aspetto verbale, c’è in Bartolomeo di Iacovo da Valmontone una volontà espressiva che possiamo ricollegare allo stile alto (notavamo nel capitolo precedente che tra le sue letture doveva esserci per esempio anche un posto per quelle di argomento epico).

 

Ora esaminiamo da vicino la pagina per vedere come questo innalzamento si attui nella struttura stilistica; ci fornisce lo spunto un attacco che Auerbach ha analizzato in Dante e che il nostro autore, in più punti della narrazione, sembra non disconoscere: “ed ecco”… “allora…” della Cronica (come in Rolandino) richiamano: “l’ez vos” dell’antico francese. Questo – sostiene Auerbach – ci conduce sulla giusta traccia qualora si cerchi l’espressione latina per questo “allora” che produce un’interruzione repentina: essa non è un tum o un tunc, bensì in molti casi un sed o iam, ma la parola veramente corrispondente in tutto il suo vigore è “ecce” o ancor meglio “et ecce”, che si incontrano più di rado nello stile sublime che non in Plauto, nella lettera di Cicerone, in Apuleio e soprattutto nella vulgata dove, quando Abramo afferra il coltello per sacrificare il figlio Isacco è detto: “ Et ecce angelus domini de coelo clamavi diceans: Abraham, Abraham”. A noi sembra che questa interruzione così tagliente sia troppo brusca perché possa avere origine dal latino classico: corrisponde invece pienamente allo stile illustre della Bibbia. “Tuttavia non vogliamo affermare che sia stato Dante a introdurre nello stile illustre questa locuzione interruttrice, ma dovrebbe apparire chiaro che quel drammatico “allora” in quel tempo in cui egli scriveva, non era così naturale e di uso comune come oggi, e che egli l’usò più radicalmente più di ogni altro prima di lui nel Medioevo.”[95]

 

E si veda nel capitolo VIII della Cronica : “ Allora apparze quella cometa…”, “allora incontinente commannau…”, come “allor surse…” del Farinata dantesco segnano un cambio di registro. La stessa descriptio in stile nominale non rimanda forse ad una stilistica epica? Si rilegga per esempio nel capitolo XI “della sconfitta d’Espagna e della toita della Zinzera e dello assedio de Iubaltare” la descrizione dei contingenti dell’esercito cristiano; sembra un’anticipazione di quello del Tasso: “Lo primo aiutorio fu quello de papa Benedetto… Lo secunno aiutorio fu lo re de Navarra con quelli de Pamplona… lo terzo… lo quarto… lo quinto… ecc.” [96]; oppure non c’è dubbio che quei : “Vedesi levare cappucci de capo, vedesi Todeschi inchinare, ecc.” contribuiscano all’innalzamento. Si potrebbero a questo punto citare moltissimi altri esempi, quali per esempio le esclamazioni: “ Deh, quanto ene cosa orribile!” ed altri procedimenti ancora, ma vorremmo per un attimo soffermarci sui suggerimenti Auerbach in quanto siamo convinti che l’innalzamento stilistico attuato da Bartolomeo di Iacovo da Valmontone sia ben germinato dal seme dantesco; proposizioni come: “crese lo tiranno alli fallaci ditti, credennose volare più aito che Dio non consentiva”. Oppure un attacco come: “ Era lo tempo de maio…” non possono non ricordare, pur essendo più antichi, la commedia.

 

Quel “gradus excelsus” dantesco che abbiamo individuato nei passi sopraddetti, lo troviamo poi intercalato alla gamma dei toni intermedi dello stile; la piana intonazione espositiva è presente infatti nella scrittura della Cronica. Ad essa, si ricorderà, ha fatto riferimento il Dardano, notando come il discorso diretto nella pagina di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone sfrutti le stesse modalità sintattiche che sono presenti nel normale procedere narrativo. Questa ipotesi, che ricollega i dati osservati alla categoria continiana di primitivismo e alla prosa media del Novellino, meriterebbe da parte dello stesso formulatore di essere precisata con più chiarezza, soprattutto se si pensa, con l’ausilio della teoria bachtiniana, alla portata di novità che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone introduce nella prosa romanzesca. Riteniamo infatti che questa riconosciuta brevità sintattica unita, criticamente, alla medietà stilistica del suo procedere, possa, sì, essere ricollegata alla scrittura veloce degli exempla, o agli schemi del romanzo francese, ma debba anche essere correlata criticamente con la realizzazione della sostanziale novità che le Cronica viene a costituire rispetto a quegli esempi; una novità che è sostenuta da una straordinaria potenza espressiva, da una complessa dispositio narrativa, dal fattore della dichiarata committenza. In pratica non si può sostenere che la paratassi  sia sintomo di primitivismo, o che la generalità della sintassi debba essere ricollegata alla prosa del Novellino solo perché anche Bartolomeo di Iacovo da Valmontone riprende quei moduli di stile. M. Bachtin, per esempio, ci ricorda che: “La parola altrui introdotta nel contesto di un discorso stabilisce col discorso che l’incornicia non un contatto meccanico, bensì una combinazione chimica sul piano semantico ed espressivo; il grado di reciproco influsso dialogizzante può essere enorme.” [97]; il contesto, lo spazio dialogico in cui si svolge l’incontro tra il tipo narrante e il tipo della parola altrui non può essere ricondotto unicamente ad una unità sintattica, come fa il Dardano, richiamando precedenti esperienze espositive (cfr. Novellino), ma è ricco altresì di significati e di contenuti soprattutto se si coglie ogni aspetto della istituita relazione. In fin dei conti a nostro avviso, è un problema di retorica, un problema di destinazione e di destinatario. Dice Bachtin nel suo saggio La parola del romanzo : “ Tutte le forme retoriche, monologiche per la loro costruzione compositiva sono orientate verso l’ascoltatore e la sua risposta. Di solito si ritiene addirittura che questo orientamento verso l’ascoltatore sia la peculiarità costitutiva della parola retorica. Per la retorica, effettivamente, è caratteristico il fatto che il rapporto con l’ascoltatore concreto, il tener conto di questo ascoltatore, entra nella costruzione esterna della parola retorica. Qui l’orientamento verso la risposta è aperto, manifesto e concreto”.[98]

 

In questo senso Bartolomeo di Iacovo da Valmontone è originale; in questo senso la sua parola si caratterizza aprendosi nei confronti di quel destinatario così precisamente individuato nel prologo; è in queste tendenze che si comprende l’uso medio dello stile; è nei libri di scienza medica e in quelli di scienza retorica che si precisa l’andamento colloquiale, ordinato secondo precise connessioni, del suo stile; è nel rapporto dialogico che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone viene ad istituire con il proprio tempo, con la tradizione, che si spiegano le sue ipotesi critiche e conoscitive.

 

Ma leggiamo questo passo tratto dal capitolo sulle vicende del Duca d’Atene: “ Voi dovete essere muorto. Lo duca: Da chi? Dallo puopolo. Quanno? Lo die de santo Iacovo. In que modo? Quanno cavalcherete per la terra verrao uno e stennerao sio arco turchesco e percoterao te de una frezza. Dallo lato starrao uno con uno spontone. Dallo altro verrao uno con un stuocco. Puoi se gridarao: puopolo, puopolo!”. Disse lo Duca: “Questo da chi sai?”[99].

 

E’ un procedimento espositivo che ricorda quello di una moderna indagine giudiziaria, ma, a nostro avviso, è anche, e soprattutto, la messa in scena di una disputatio retorica tra maestro e alunno, un esercizio retorico molto frequente nel Medievo. La pratica didattica, la sapienza, l’abilità di un peritissimo artigiano, l’amore del sapere e la scienza intesa come “maraviglia” sono tra i personaggi del teatro vivente della Cronica, parti del suo copione. Il carattere dialogico della scrittura di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone lo possiamo ovviamente rilevare non solo da quanti scambi di battute o dal verbo in seconda persona singolare col quale l’autore spesso subentra a commentare una situazione rivolgendosi al lettore (ad es. “Vedi que dovevano penzare quelli che suoglio essere signori e non haco cobelle”), ma anche attraverso la dialogicità della parola stessa.  Per usare ancora un termine retorico, è in gioco l’elocutio; è in questo “mettere in parola” che si coglie lo spazio dialogizzante della scrittura del nostro, la sua novità; è il problema della raffigurazione artistica della lingua, il problema dell’immagine della lingua. Dice Bachtin: “ Ogni parola  concreta (enunciazione), infatti, trova il suo oggetto verso il quale tende, sempre, per così dire, già nominato, discusso, valutato, avvolto in una foschia che lo oscura oppure, al contrario, nella luce delle  parole già dette su di lui. Esso è avviluppato e penetrato da pensieri generali, da punti di vista, da valutazioni e accenti altrui. La parola. tendendo verso il proprio oggetto, entra in questo mezzo, dialogicamente agitato e teso, delle parole, delle valutazioni e degli accenti altrui, s’intreccia coi loro complessi rapporti reciproci, si fonde con alcuni, si stacca da altri, si interseca con altri ancora; e tutto ciò può servire enormemente a organizzare la parola imprimendosi in tutti i suoi strati semantici, complicandone l’espressione, influendo su tutta la sua fisionomia stilistica”.[100]

 

Il discorso sulla dialogica ci introduce anche al terzo livello dello spessore stilistico che, per scelta critica, ci siamo proposti di indagare: lo stile umile, basso-popolare. In questo campo la Cronica  offre un ventaglio ricchissimo di possibilità. La cultura della gente umile e povera è un termine con il quale spesso si istituisce il dibattito dialogico, una platea che entra in scena nella scrittura del nostro autore.

 

Cominciamo con i proverbi: “La forza del proverbio, sostiene Zumthor, risulta dall’effetto di senso prodotto da una contrazione particolare di una forma sintattica e lessicale, contrazione tendente a rendere statico un contenuto i cui procedimenti si possono facilmente inventariare; così, la brevità della frase e la combinazione frequente delle categorie [101] dell’indeterminato e del presente o dell’imperativo, il parallelismo, l’allitterazione, l’assonanza, la rima e altri giochi fonici allo scopo di condensare il ritmo dell’enunciato. Questi procedimenti concorrono a universalizzare l’affermazione, a promuoverla a livello metaforico, in modo che costituisca l’equivalente tipico di un numero in teoria illimitato di situazioni”.

 

Crediamo non ci sia una definizione migliore per raccogliere in un significato i tanti proverbi presenti nella Cronica; ad esempio il proverbio forse più famoso della Cronica, perché è nel capitolo di Cola: “Chi vuole pedere, poi culo stregnere, fatigase la natica”, pare sfruttare proprio questa tendenza metaforica alla universalizzazione dell’affermazione nel contesto degli atti megalomani e nei risentimenti delle imprese di Cola. Inoltre, l’esempio che abbiamo citato si presta ad un altro ordine di considerazioni, le quali ci introducono direttamente nell’analisi dello stile umile e basso-popolare.

 

A giudizio dell’Anselmi, in più punti della Cronica: “La cifra narrativa si fa radicalmente diversa: dominano il dialogato, la drammatizzazione che tende ad attualizzare l’evento, la vivacità insita nel ricordo personale. Il tono narrativo sembra tramutarsi in quello proprio della novellistica: spazio realistico, accuratezza descrittiva, scambio di battute con considerazione finale gnomico-sentenziosa. E unito a ciò il farsi largo del parlato, della consuetudine orale, fortemente attualizzante e saporosamente radicata nel linguaggio di piazza (Bachtin), nelle scene teatrali giullaresche come sacre. La verticalità consequenziale del narrare storiografico è spezzata dall’orizzontalità pulsante e analogica del linguaggio recitato e orale, patrimonio espressivo inciso nella memoria del narratore e riproposto senza alcuna sedimentazione riflessiva ossificata”. E più avanti “Come senza mediazioni deve presupporsi la mescidanza del linguaggio e dei registri linguistici; cosicché alla sentenza dotta e misurata possa venire contrapposta l’espressione scurrile e carnevalesca, in grado di rispecchiare i vivi bagliori delle passioni in campo anche all’ordito della Cronica.” [102]

 

Cifra narrativa saporosamente radicata nel linguaggio di piazza e proverbio universalizzante: tematiche dell’analisi bachtiniana nella teorizzazione del carnevalesco.

 

Vediamo ora, con l’ausilio del fondamentale studio di M. Bachtin L’opera di Rabelais e la cultura popolare, quali significati e quali applicazioni culturali sulla Cronica è possibile dedurre da questa plurivocità bassa, che Gadda avrebbe definito “epos popolare”. Dobbiamo subito dire che nella Cronica c’è poco da ridere: “La cultura ufficiale del Medioevo è caratterizzata da un tono esclusivamente serio. Il tono serio si è affermato come unica forma per esprimere la verità, il bene, e, in generale, tutto ciò che poteva esserci di importante e significativo. La paura, la venerazione, la remissività, ecc. erano i toni e le sfumature di tale serietà. Già il Cristianesimo delle origini condannava il riso.”[103]

 

Che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone fosse un pauroso, uno di quegli uccelli che coperta la testa nella sabbia credono di avere coperto tutto il corpo, lo sapevamo; egli stesso ce lo dice nel prologo: “Mentre che prenno diletto in questa opera, sto remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo paese, li quali per la moita tribolazione siento tristi e miserabili non solamente chi li pate ma chi li ascolta”[104], anche se per il vero non è detto che questo atteggiamento debba considerarsi negativo per un uomo del trecento; quello che non sapevamo, invece, è che battute del tipo basso materiale come: “Qui se pare chi è figlio de bona mamma” oppure “Chi vole pedere poi culo stregnere fatigase la natica” ribaltano, vincendola, la cultura seria, la paura sociale. Sono la libertà del sistema, lo stesso tipo di detronizzazione e rovesciamento che si attua con il carnevale e che ritroveremo in questo riso, in questa battuta ilare, libera dalle proibizioni autoritarie della paura del sacro, e della violenza; non a caso nella Cronica queste battute sono poste nei momenti di maggiore tensione e concitazione drammatica. L’abbassamento funziona da valvola di scarico e da rigeneratore; l’evento rientra nel circolo vitale. Infatti, secondo Bachtin : “Il potente elemento materiale e corporeo di tali immagini destituisce e rinnova tutta la realtà legata alla concezione ed all’ordinamento medievale, con la sua fede, i suoi santi, le sue reliquie, i suoi monasteri, la sua falsa ascesi, la paura della morte, la sua escatologia e i suoi profeti.”[105] E un medico doveva essere ben sensibile alla realtà corporea e alla sua deformazione. A pagina 262, per esempio, troviamo Cola che : “desformato desformava la favella. Favellava campanino e diceva: suso,suso, agliu tradetore”, echi e umori che a noi paiono bellissimi esempi di spirto e parlare italico; oppure, a pagina 80 “era una donna tanto grassa e grossa che credere non se po’, ma nelle gamme, nelle vraccia e in canna aveva cierchi de aoro purissimo smaitati, ornati de prete preziose” questa reina addirittura pare uscita dal carnevale. Ma la battuta più bella all’indirizzo del legato (figlio di demonio) viene dalle donne bolognesi a pagina 23 : “li fiorentini lo trassero fora dallo castiello. Canto le mura ne iva la strada la quale vao alla porta de Fiorenza. Tutto lo popolo de Bologna li gridava e facevanolli le ficora e dicevanolli villania. Le peccatrice li facevano le ficora e s’lli gridavano dicennoli moita iniuria. Bene se aizzavano li panni de reto e mostravanolli lo primo delli Decretali e lo sesto delle Clementine. Moita onta li fecero. Ben lo ebbero manicato a dienti se non fussi stato in balia de fiorentini”. Ecco nella dotta Bologna cosa si faceva della seriosità del diritto canonico!

 

Ovviamente le descrizioni corporali non fanno riferimento a questo tipo di visione carnevalesca; ci sono anche descrizioni in cui la pinguedine, la carnagione rossa o la barba lunga designano, secondo la morale cristiana, incontinenza : “ Anche pessimamente se temperava dallo soperchio civo. Cadde in pessima infermiatate e incurabile. Li miedici dico reutropico. Sio ventre era pieno de acqua. Como vottieciello pareva…”; “Grasso era dentro come fussi vitiello lattante”. Tratti fisici che risaltano anche nella tragica descrizione dello scempio prodotto sul cadavere di Cola: “Grasso era orribilmente, bianco como latte inasnguianto. Tanta era la soa grassezza, che pareva uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello. Là penneo dii doi, nocte una (…) Là fu fatto uno fuoco de cardi secchi. In quello fuoco delli cardi fu messo. Era grasso. Per la moita grassezza da sé ardeva volentieri.”[106] Insomma, da questi esempi possiamo capire come anche lo stile umile sia strutturato secondo una pluridiscorsività sociale.

 

A conclusione di questa analisi dello stile, che abbiamo attuata attraverso l’ipotesi critica di tripartizione degli stili vigenti in età classica, non rimane che avviarsi all’indagine della struttura narrativa, allo studio della forma testuale. Ma prima di impostare questa indagine, vorremmo soffermarci ancora un poco, sulla mescolanza stilistica. Essa è la cifra primaria della dialogicità sociale rappresentata e della dialogicità dei toni stilistici. Alla compresenza di più strati lessicali e di più lingue è da unire il latino: in certi punti del testo il periodare latineggiante prende addirittura il sopravvento sul volgare. Non si tratta solo di citazioni liviane, ma di veri e propri scambi linguistici. Nella narrazione la maestosa pregnanza della lingua antica viene di fatto utilizzata a risolvere con pathos e intensità drammatica alta una certa situazione. Inoltre, la perentoria brevità dell’ablativo assoluto si può dire non manchi in nessun capitolo della Cronica; del resto, la prima redazione del testo fu proprio in latino.

 

La struttura del periodo latino informa la prosa  di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone e mentre il latino va sempre più richiudendosi nelle aule e nelle liturgie religiose, gli stessi romani : “ponevano cura se parlava in faizo latino” quando frate Venturino venne a Roma, segno, a nostro avviso, di un distacco dall’antica lingua che non è più adatta ad esprimere un rapporto diretto con il reale. Plurilinguismo, dialetto romano, lingua antica e parole che sembrano riferirsi all’area veneta e, in generale, settentrionale, se sono giuste le congetture del Porta su termini, presenti nel testo, come “ cacozzo” e “affarosi”. Dunque un grande sperimentatore di forme linguistiche e costrutti verbali.  Certe parole come “li alfaquecqui, cioene prieti” oppure il sintagma “appistigliati de pistiglioni” sono l’espressione prorompente della lingua volgare in cui si riflette il flusso sociale: le parole sono come fatte di materia stiracchiata, resa aderente alla vita, con la quale ancora conserva una relazione magica.

 

Nelle pagine della Cronica la scrittura non è un lapidario di norme o di forme verbali assunte dalla tradizione, ma anzi essa inventa il rapporto con il reale sperimentando luoghi e colorazioni come sperimentano la vita gli uomini nel volgere del giorno.

 

La plurivocità della Cronica ci dà la vertigine allorché la scaliamo con le categorie del nostro pensiero critico. Il suo vissuto, le sue pulsioni necessiterebbero di una conoscenza empatica, di una macchina del tempo che ci riportasse nel Medioevo per essere comprese. E forse neanche allora, contemporanei a quel passato, riusciremmo a comprendere pienamente la portata di quel modo di scrivere, il valore di quelle imprese.

 

Esploriamo ora la struttura narrativa per comprendere il costrutto tecnico formale della Cronica. Secondo Yuri Tjnjanov : “L’unità dell’opera non è un tutto simmetrico e chiuso, ma un insieme dinamico in sviluppo; i suoi elementi non sono collegati dal segno statico dell’uguaglianza e dell’addizione, ma da quello dinamico della correlazione e dell’integrazione. La forma dell’opera letteraria va riconosciuta come forma dinamica. Tale dinamismo si manifesta: 1) nel concetto di principio costruttivo. Non tutte le componenti della parola hanno lo stesso valore; la forma dinamica non si realizza con la loro unione, né con la loro fusione, ma nelle loro interrelazioni e di conseguenza nella promozione di un gruppo di componenti a spese di un altro. In questo processo la componente promossa provoca la deformazione di quelle secondarie; 2) la percezione della forma, quindi, è sempre percezione dello scorrimento e, di conseguenza, del mutamento, del rapporto fra componente dominante, componente costruttiva, e componente subordinata. Nel concetto di questo scorrimento, di questo sviluppo non è affatto necessario introdurre una dimensione temporale. Lo scorrimento, la dinamica, possono essere considerati in se stessi al di fuori del tempo, come movimento puro. L’arte vive di questa interazione, di questo conflitto. Non vi è fenomeno artistico al di fuori della percezione della subordinazione, della deformazione di tutte le componenti da parte della componente che ha funzione costruttiva.”[107]La componente dominante della Cronica, nella quale si possono cogliere le interrelazioni, i dinamismi, gli scorrimenti, è senz’altro quella rappresentata dalla forma e dalla struttura della novella e dell’exemplum; in questi generi si realizza quello che Tjnjanov definisce il principio costruttivo, e questi generi al tempo stesso organizzano il procedimento del narrare storico, ne definiscono la struttura nell’ambito della concezione della storia.

 

Claudio Moreschini, nel suo saggio Livio nella Roma augustea, prefazione ad una edizione degli Ab urbe condita, nota: “Caratteristica della tecnica narrativa liviana è l’atteggiamento dello scrittore che si cela dietro i suoi personaggi, i quali  racchiudono, nell’exemplum che ad essi è riservato, l’ interpretazione storica, morale e politica di Livio stesso (…) funzione esemplare che è tipica del personaggio liviano, il quale deve personalizzare e incarnare le idee tipo della Weltanschaung dello scrittore: questa funzione dell’exemplum non è espressa a chiare note dallo storico, ma emerge dal suo modo di raccontare.”[108] La novella e l’exemplum sono dunque modelli di narrare storiografico. Che Bartolomeo di Iacovo da Valmontone conoscesse il Decameron del Boccaccio? Il Decameron, se non sbagliamo, viene composto nel 51, e la Cronica, secondo le congetture degli studiosi, sarebbe stata composta nel 57 inoltrato, con postilla di aggiornamento dopo l’ottobre del 1360.

 

E’ indubbio che la Cronica sia strutturata su un principio di tipo novellistico, che abbia una spiccata natura narrativo-descrittiva tra le sue matrici. Si pensi ad esempio che ivi anche il discorso scientifico è declinato secondo l’ottica della “maraviglia”.[109]

 

Nel corpo del testo i capitoli non sono disposti secondo una successione temporale, ma anzi l’importanza di un esempio è suscettibile di avere ricorsi e riprese; sono procedimenti che fanno parte del modello narrativo di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone e che individuano un proposito di stile.

 

Nella Cronica non c’è la percezione di un divenire, non c’è un finalismo, non c’è una teleologia, ma c’è una struttura che ha corsi e rimandi, c’è la costruzione generale attraverso il modello dell’exemplum e della novella. Come l’edilizia e l’urbanistica trecentesca, essa mescola le pietre del passato con i pezzi del presente e costruisce case e piazze nei luoghi degli antichi monumenti, riportando reliquie di preziosi capitelli dal Foro per costruire un palazzo, o una costruzione che sembri un convento. Nella scrittura sono permessi questi ordini e aggiustamenti, ma nella realtà materiale Roma affastellava, dispregiava quelle pietre preziose tanto care alla memoria di Cola e del Petrarca, o, molto più tardi, nelle ombre dolorose e tragiche del segno piranesiano.

 

Ovviamente la Cronica non è né un romanzo, né un dramma, né un componimento epico, ma è tuttavia innegabile che essa contenga in nuce una parte di questi, come è innegabile la straordinaria abilità  di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone di agglomerare tropi e figure narrative, loci e figure retoriche compresa una tendenza alla narrazione simbolistica degli eventi. La Cronica, come il suo protagonista Cola di Rienzo, conosce molti libri e un repertorio sterminato di esempi, anche se poi non fa in tempo a veder realizzato il sogno perché bruscamente interrotta dalle violenze dei Baroni e della Chiesa. In questo clima agitato nasce la Cronica,  si esprime la vita di Cola di Rienzo. Non sono passati dieci anni dall’ultima peste, e i segni si vedono ancora. Gli echi delle imprese, e la crudezza di quelle descrizioni non hanno dismesso la speranza in una rinascita. Il letterato, ritratto nel suo studio dove giungono gli aspri e corposi moti della strada, ricettore fedele e misterioso come il fruscio della scrittura dello scriba egizio, e fluttuante come l’instancabile lavorio della coscienza nella notte del tempo, non ha smesso di scrivere e di raccontare.

 

 

 

 CONCLUSIONE

 

 

 

Concludere quello che, come l’analisi freudiana, è interminabile, comporta sempre problemi. I percorsi del “non detto”, le ottiche e gli strumenti che non abbiamo adoperati, sono nuvole minacciose che consigliano prudenza e cautela, non solo nei confronti di quello che avverrà poi. Possibili indirizzi di studio sono da percorrere sul piano dell’analisi linguistica e nel milieu della cultura settentrionale; come sarebbe utile condurre un’analisi sulla sintassi della Cronica. Andrebbe poi condotta una esplorazione dei testi e dei manuali di retorica che circolavano, per esempio, all’università di Bologna all’inizio del trecento. Noi abbiamo visto le singolari coincidenze della Cronica con quella omonima del Rolandino: probabilmente l’archetipo del modello liviano le influenza entrambe; su questa linea è da intendersi anche l’uso dei modelli di Seneca e Lucano, compresi i riferimenti all’opera del Mussato: la tragedia Ecerinide, ma, soprattutto, i De gestibus…, paiono sfruttare quel reticolo di strutture e modelli narrativi che, notava il Muscetta, discendono direttamente da Tito Livio. La scuola padovana, attraverso l’opera di Lovato Lovati, è la sede nella quale avviene la riscoperta di Tito Livio, e dove, con il Petrarca, si formano i primi cenacoli umanistici, come pure il luogo di diffusione dell’aristotelismo la cui importanza è sottolineata a livello europeo dal Defensor pacis di Marsilio da Padova.

 

Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, probabilmente, conosce l’opera del Petrarca ma tale influenza non sembra mai farsi rilevante come per altri autori; semmai è al polo dantesco che sono da agganciare alcuni punti di lettura. Un capitolo perduto della Cronica conteneva una notizia sulla vita di Dante, e comunque, specie dopo l’analisi stilistica, si è potuto vedere come l’opera di Dante sia tenuta in grande considerazione. In ultimo, la tripartizione degli stili quale vigeva in età classica o anche la sua traduzione per le scuole, opera di Brunetto Latini, ci è servita come ipotesi critica per distinguere la matrice della mescolanza stilistica presso alcuni scrittori. Dante apre a Bartolomeo di Iacovo da Valmontone i campi del pluristilismo, sulla scorta del ricco magistero biblico; la sua curiosità e la sua golosità non tardano a servirsi di queste possibilità.

 

Iniziammo il nostro studio con la parola “capolavoro” e questa parola ci piacerebbe riscriverla in ultimo, lasciandola  alla pronuncia silenziosa del lettore davanti a questo passo  della Cronica: “ Così quello cuorpo fu arzo e fu redutto in polve: non ne rimase cica. Questa fine abbe Cola de Rienzi, lo quale se fece tribuno augusto de Roma, lo quale voize essere campione de Romani. In cammora soa fu trovato uno spiecchio de acciaro moito polito con carattere e figure assai. In quello spiecchio costregneva lo spirito de Fiorone”.[110]

 

Note seconda parte:

 

 

 

[61] COLA DI RIENZO (Nicola di Lorenzo, Roma 1313 - ivi 1354). Politico romano. Di umili natali, divenne, grazie a intenso studio, notaio ed esperto di antichità romane. Convinto assertore del primato politico e culturale di Roma, si impegnò a ripristinare l'antica grandezza. Inviato in legazione presso Clemente VI ad Avignone (1343), lo invitò a rientrare a Roma per instaurarvi la repubblica. Ottenuto il favore del papa e del suo vicario, l'appoggio di comuni e signori di Lazio, Umbria e Toscana, nonché di Francesco Petrarca, sollevò il popolo capitolino contro i nobili e si fece proclamare tribuno (maggio 1347) e liberatore della città (agosto 1347). Abbandonato dal popolo, impaurito dagli interventi armati della nobiltà e del papa a causa della sua intransigenza verso i diritti ecclesiastici e nobiliari, che colpì Clemente VI e lo stesso imperatore Carlo IV, fu arrestato, ma riuscì a fuggire. Concepito un disegno di restaurazione imperiale, fece accoliti tra i gioachimiti dei monti abruzzesi e si recò a Praga presso Carlo IV per convincerlo a intervenire a Roma (1350). Arrestato e tradotto ad Avignone (1352), grazie all'intervento di Petrarca e al favore di papa Innocenzo VI fu nominato senatore e inviato a Roma, al seguito del cardinale Albornoz (1353-1354). Accolto trionfalmente, attuò una politica repressiva e venne trucidato mentre tentava la fuga durante una sommossa nobiliare.

 

[62] Francesco Petrarca, Le Familiari, a cura di Enrico Bianchi, Torino, 1977, Einaudi. Lettera 13 (VII, 7) a pag. 83 della collana Classici Ricciardi.

 

[63] Si vedano, a questo proposito: P.P.Gerosa, L’umanesimo agostiniano de Petrarca, Torino, S.E.I. 1927 e G.F.Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, Paragone 16 (Letteratura)  1951 P. 3-26

 

[64] Cronica, ed.cit. P 164

 

[65] Carlo Muscetta, in Letteratura italiana Laterza, Il Trecento, voll. secondo. Tomo primo. Bari Laterza P. 63 Il testo contiene anche notizie bibliografiche sul Colonna, sul Cavallini, sul Mussato

 

[66] C. Muscetta, op.cit. P. 65

 

[67]Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Torino, U.T.E.T. 1970

 

[68] Le sue origini irlandesi si possono dedurre dal suo stesso nome, infatti egli è Scoto, ovvero abitante della Scotia Maior, nome dell'Irlanda all'epoca; inoltre, nei manoscritti egli si firmava Eriugena, cioè nato (gena) in Irlanda (Eriu). Nel 843 si trasferí in Francia per dirigere la Schola Palatina di Carlo il Calvo; questi gli affidò anche il compito di tradurre dal greco il Corpus Areopagiticum di Dionigi l'Areopagita, che Scoto studiò e commentò in latino, avvicinandosi al Neoplatonismo. Fu studioso e traduttore anche degli scritti di Origene e dei Padri di Cappadocia, tra cui San Basilio Magno, San Massimo il Confessore e San Gregorio di Nissa. La sua filosofia si mantiene sulla linea di Sant'Agostino riguardo al Platonismo e alla teologia negativa. Senza dubbio, Eriugena volle spiegare la realtà mediante un sistema razionale e unitario che contraddiceva il dualismo della religione — secondo il quale Dio e mondo sono due realtà differenti — e i dogmi relativi alla creazione e alla volontà divina. Per Scoto, ragione e fede sono fonti valide di vera conoscenza, per questo non possono essere in contraddizione; però se cosí avvenisse, è la ragione che deve prevalere. Questa affermazione, assieme alla prospettiva di tendenza panteistica che egli sostenne nel De divisione naturae, gli valsero il sospetto di eresia. Sulla sua morte circolarono diverse storie leggendarie o perfino favolose, una delle quali racconta che dopo la morte del suo protettore Carlo il Calvo, si rifugiò in Inghilterra, presso il re Alfredo il Grande, dove venne assassinato da alcuni monaci che lo consideravano un eretico a colpi di penne; sebbene questa storia sia la più pittoresca, non è la più credibile. Sia per le incomprensioni nate da errate interpretazioni della sua dottrina, sia per l'estremizzazione operatane da alcuni filosofi della scuola di Chartres, nel 1210 arrivò contro alcune tesi dell'opera di Eriugena una condanna conciliare postuma, con il rogo di un numero non precisato di copie del De divisione naturæ; ancora nel 1225 papa Onorio III manderà una lettera ai vescovi francesi per chiedere la raccolta di ogni copia del libro da spedire a Roma per esservi bruciata. In tempi recenti, tuttavia, Eriugena è stato largamente riabilitato da eminenti filosofi cattolici, fra cui il neoscolastico Étienne Gilson e il cardinale Hans Urs von Balthasar, che ne hanno riconosciuto la sostanziale ortodossia. Recentemente anche Papa Benedetto XVI ha espresso su Eriugena un giudizio nel complesso positivo

 

[69] Pietro Abelardo (francese: Pierre Abélard; Le Pallet, 1079 – Chalon-sur-Saône, 21 aprile 1142) fu un filosofo, teologo e compositore francese, talvolta chiamato anche Pietro Palatino a seguito della latinizzazione del nome della sua città di origine. Fu uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo, precursore della Scolastica e fondatore del metodo logico. Per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica in base al Concilio Lateranense II del 1139. Nel corso della sua vita si mosse da una città all'altra fondando scuole e dando così i primi impulsi alla diffusione del pensiero filosofico e scientifico. Conquistò masse di allievi grazie all'eccezionale abilità nel padroneggiare la logica e la dialettica, e all'acume critico con cui analizzava la Bibbia e i Padri della Chiesa. Ebbe come temibile avversario Bernardo di Chiaravalle, che non gli risparmiò nemmeno le accuse di eresia. Le sue idee religiose, e in particolare le sue opinioni sulla Trinità, si collocavano in effetti al di fuori della Dottrina cattolica, tanto da essere condannate dai concili di Soissons (1121) e di Sens (1140). Tra i suoi principali allievi vi furono Arnaldo da Brescia, Giovanni di Salisbury, segretario dell'arcivescovo Thomas Becket, Ottone di Frisinga, grande letterato e zio di Federico Barbarossa e Rolando Bandinelli, il futuro papa Alessandro III. Abelardo fu noto anche col soprannome di Golia: durante il Medioevo tale appellativo aveva la valenza di "demoniaco". Pare che Abelardo fosse particolarmente fiero di questo soprannome, guadagnato in relazione ai numerosi scandali di cui fu protagonista, tanto da firmare con esso alcune delle sue lettere. Celebre è la sua storia d'amore con Eloisa, da molti considerato il primo esempio documentato di amore declinato in chiave "moderna", come passione e dedizione assoluta e reciproca.

 

[70] Nicola Abbagnano, op. cit. vol. I Capitolo XIX, P. 584. Ma a questo proposito vanno ricordati i  celebri testi di Bruno Nardi, Saggi sull’aristotelismo padovano, nonché i lavori di Eugenio Garin, primo dei quali la Storia della Filosofia Italiana, Torino, Einaudi 1966, vol. I,  da pag, 170

 

[71] Bruno Nardi, Saggi sull’aristotelismo padovano, cit. p.1-74

 

[72] Giova qui ricordare lo studio citato di Eugenio Garin, il quale in una scheda dello stesso testo ricorda anche altri maestri bolognesi come Cecco d’Ascoli e Taddeo  da Parma.

 

[73] Cronica, ed. cit. P. 33

 

[74]  Emilio Pasquini, ll mito polemico di Avignone nei poeti italiani del trecento, Todi 1981, pp. 259-309

 

[75] Pasquini, op.cit. P.301

 

[76] La citazione è tratta da C. Segre, I segni e la critica, Torino, Einaudi, 1969, p.24

 

[77] C. Segre, I segni e la critica, op. cit. p.32

 

[78] Leo Spitzer, Critica stilistica e semantica storica, Bari, Laterza, p.46

 

[79][79] Viktor Vinogradov, L’analisi stilistica, in I formalisti russi, Torino, Einaudi, 1968, p. 113

 

[80] Anonimo romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano, 1968, Adelphi, p.XII

 

[81] Anonimo Romano, Cronica, op.cit., p. XIII

 

[82] G.F. Contini, La cronica di  Anonimo Romano, in Letteratura delle origini, Firenze, 1972, Sansoni, p.505

 

[83] Voce del Dizionario di Linguistica Zanichelli, Bologna, 1969.

 

[84] M. Dardano, L’articolazione e il confine della frase nella Cronica di Anonimo Romano, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, Il Mulino, Bologna, 1983, pp. 203-222

 

[85] M. Dardano, op. cit, p.205

 

[86] M. Dardano, op.cit., p.205

 

[87] Ibidem, p.207

 

[88] F. Ugolini, La prosa di Historiae romanae fragmenta e della cosiddetta Vita di Cola di Rienzo, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria”, LVIII, N.S.I., p.22-23

 

[89] M. Dardano, op. cit., pp. 212-215

 

[90] Ibidem, p.206

 

[91] Ibidem, p.219

 

[92] Ibidem, p.220

 

[93] Anonimo Romano, ed. cit., p.45

 

[94][94] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentle, Torino, Einaudi, 1977, p. 200

 

[95] E. Auerbach, op.cit. , p.195

 

[96] Anonimo Romano, op. cit., p.72

 

[97] M. Bachtin, La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 1979, p. 148

 

[98] M. Bachtin, op. cit., p.88

 

[99] Anonimo Romano, Cronica, ed. cit., p. 96

 

[100] M. Bachtin, op. cit., p. 84

 

[101] P. Zumthor, Semiologia e poetica medievale, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 80

 

[102] G. M. Anselmi, Il tempo della e quello della vita nella Cronica di Bartolomeo di Iacovo da ValmontoneRomano , in Studi e problemi di critica testuale, vol. n°21, ottobre 1980, p. 186

 

[103] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, p.37

 

[104] Anonimo Romano, ed. cit., p. 5

 

[105] M. Bachtin, L’opera di Rabelais, op. cit., p. 118

 

[106] Anonimo Romano, ed. cit., p. 265

 

[107] Yuri Tjnjanov, Il concetto di costruzione, in I formalisti russi, Torino, 1968, Einaudi, p.122

 

[108] Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, Milano, Rizzoli, 1982, p. 152

 

[109] Sull’area semantica coperta da questo termine, nel Medioevo, si veda Jacques Legoff, Il Meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Bari, Laterza, 1983.

 

[110] Anonimo romano, Cronica, ed. cit., p. 265

 

 

 

 

 

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Cinema e paesaggio dell’Emilia Romagna

 

 

 

Mauro Conti

 

 

 

 

 

 

 

Il cinema può, a buon diritto, essere considerato un’arte guida dell’espressività italiana, proprio come lo sono state la musica operistica nel Romanticismo e l’architettura durante il Rinascimento; è raro, non di meno, che esso figuri come strumento didattico tanto nella scuola media quanto nella superiore. Le ragioni di questa latitanza sono forse da attribuire alla difficoltà di organizzare delle visioni didattiche in aule poco attrezzate, ma anche alla scarsa conoscenza storica, oltre che geografica, del nostro patrimonio filmico. Il percorso didattico che qui viene presentato intende indagare i rapporti tra arte cinematografica e paesaggio dell’Emilia Romagna, in particolare il litorale, l’entroterra ravennate ed il Delta del Po, così come essi sono stati svolti da tre registi come Luchino Visconti, Roberto Rossellini e Michelangelo Antonioni; i film scelti sono, nell’ordine, Ossessione, Paisà e Deserto Rosso.

 

Quello proposto è un percorso all’interno di un laboratorio didattico integrato di storia e geografia e va, quindi, subito precisato che, anche in relazione agli obiettivi prefissati, il nostro lavoro, più che di un percorso estetico narrativo strutturalmente organizzato, avrà il suo fine precipuo nella definizione degli elementi fondamentali della griglia storico geografica di cui i film sono testimonianza . In sostanza, fatte le debite premesse, i film verranno utilizzati più per la loro forte valenza documentaria e meno come frammenti di un discorso poetico. Del resto, la capacità di pensare il paesaggio non come il mero fondale di un dramma è prerogativa dei grandi registi che abbiamo analizzato e ogni altro percorso che non ne includesse la citazione, il riferimento, ci sarebbe apparso meno convincente al nostro fine.

 

Rappresentare il paesaggio, vederlo, significa in qualche modo possederlo. E’ noto come, specialmente nella pittura italiana, le prime rappresentazioni affrescali di paesaggi o di città avessero la funzione simbolica della rappresentazione del dominio. In sostanza si mostrava, sia nella rappresentazione laica come in quella ecclesiale, il simbolo di un possesso al fine di consacrarlo al controllo sociale. Vedere è al contempo un controllare ed un essere. Il Guido Riccio di Simone Martini è il signore di un paesaggio la cui rappresentazione ne simbolizza la potenza. Il Potere e la  rappresentazione vedutistica; “tutto ciò che vedi ti appartiene…” sembra voler dire il Principe e, allo stesso modo, se si scorre la pittura del medioevo, si vedono Santi che tengono in mano la forma miniaturizzata di una città come consacrazione della loro protezione. I luoghi comuni sono letteralmente lo spazio rappresentato di un dominio simbolico della collettività e non solo dei loci retorici… ma, se questo è vero, allora lavorare sulla percezione dello spazio ed in particolare dello spazio paesistico significa lavorare sull’essere, definire il significato di una identità collettiva che è allo stesso tempo lo spazio di una individualità, il suo statuto costitutivo nel gioco della riflessione simbolica.

 

Non è un caso se con le scoperte geografiche si afferma anche la tipologia della rappresentazione cartografica. Non solo strumento di osservazione scientifica, il vedere affina la volontà di potenza, e struttura il nucleo della persona, come nota uno storico come Lucien Fevre: Singula cernere et omnia circumspicere.

 

 

 

È, forse, nel Settecento che si afferma la veduta, o meglio la rappresentazione paesistica come genere autonomo, privato. Gli aristocratici che vengono in Italia per il loro Grand Tour sviluppano una attitudine documentaria del rappresentare nei pittori che lavorano per loro. Richiedono souvenir, memoria, ma anche il repertorio documentario di una passione didattica, di un amore per la sapienza, la bellezza. Il paesaggio diventa pittoresco e si avverte quasi un’esigenza enciclopedica che mira a cogliere ogni aspetto del reale come nel celebre, anche se a noi contemporaneo, personaggio di George Perec ne La vita: istruzioni per l’uso. Ben presto il romanticismo manderà in frantumi certe geometrie e ordini razionali e la storia del guardare, come la storia delle idee e degli uomini che le incarnano, sarà una storia di naufragi dove affonderanno i gesti emotivi e sentimentali di un Turner, di un Constable, di un Friedrich, per non dire degli incubi di un Füssli.

 

 

 

Prima ancora che in Italia si affermi la civiltà di massa che modifica radicalmente il concetto di visione ci sono gli impressionisti ed i pittori del naturalismo italiano. Se possibile, come ricordava Federico Zeri, è proprio su questa estetica che noi troviamo un legame con le guide del neo-realismo cinematografico.

 

L’Italia umile ed impegnata del tempo postrisorgimentale, l’Italia laica, realista e socialista sembra ritrovarsi nel cinema del secondo dopoguerra nella poetica pasoliniana, ma ancor di più entro la visione di Visconti, Antonioni, Rossellini.

 

 

 

Il paesaggio, come ricorda Tomas Maldonado nell’ introduzione al catalogo della mostra Paesaggio: immagine e realtà[1], può essere visto come un frammento della natura che i meccanismi selettivi della percezione visiva hanno reso appunto frammento, cioè parte isolata dal contesto della realtà ambientale; un paesaggio la cui descrizione è possibile solo in termini visivi; un paesaggio che ha trovato sempre nella rappresentazione figurativa della natura, a prescindere dal mezzo di raffigurazione adoperato, la sua più congrua espressione. Ma il paesaggio può essere visto anche come un momento di un più vasto e mai interrotto processo formativo, un processo costitutivo e organizzativo della realtà ambientale, un momento che si prefigura come parte attiva di un sistema di rapporti complesso la cui descrizione e spiegazione involve anche le scienze della natura, la geografia fisica. Dunque nel concetto di spazio c’è un modo di percepire il reale; ma quali e quanti sono i modi di guardare all’Italia?

 

L’Italia, prima ancora che come unità ideale, storica, sociale, si è affermata come unità geografica. In luogo della disunità linguistica, di quella immagine centrifuga e policentrica dell’Italia, frutto della sua plurisecolare storia, troviamo la persistenza e la durata del quadro geografico in cui si collocano gli avvenimenti della sua storia.

 

 

 

Il paesaggio è dunque un panorama denso di segni e popolato di voci, di trame fitte e articolazioni. Il cinema neorealista, mentre si accosta a questo ambiente, ne avverte l’autonomia e l’individualità, e reagisce secondo una modalità indipendente e più forte dei singoli osservatori e delle singole poetiche: lo lascia parlare. Il cinema neorealista offre la parola al paesaggio, lascia aprire il cuore alle cose per permetter loro di rivelare il segreto della più intima natura che si risolve in una relazione spaziale. Paesaggio come stratificazione di segni senza aggettivi, agglomerato di sensi, intenzioni, finalità, quasi senza una traccia che li precisi, un movimento che li raccordi, uno stato comune che li armonizzi e li faccia concorrere verso una medesima manifestazione sensoriale, emotiva, gnoseologica. E’ dentro questa prospettiva che va collocato il cinema di Rossellini, ma da qui si vede anche Visconti.

 

 

 

Prima di addentrarci nelle schede dei film, e chiarire il taglio critico con il quale si è scelto di guardarli, occorre forse precisare che questo scritto è da considerarsi propedeutico al lavoro più propriamente operativo e orientato alla didassi dell’insegnante, il quale, dopo averli rivisti, sceglierà le scene che meglio aderiscono al suo progetto didattico e l’utente al quale riferirli. Il nostro lavoro, giova forse ricordarlo, non aspira ad altro che a fornire diversi ed interdisciplinari strumenti alla costruzione degli obiettivi didattici e delle competenze programmate.

 

 

OSSESSIONE di Luchino Visconti

 

Produzione: Industrie Cinematografiche Italiane. Anno: 1943

 

Regia: Luchino Visconti. Soggetto: ispirato liberamente dal romanzo “ The postman always ring twice “ di James Cain. Sceneggiatura e dialoghi: L.Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Mario Puccini con la collaborazione non accreditata di Rosario Assunto e Sergio Greco. Direttore fotografia: Mario Tonti, Domenico Scala: Musica: Giuseppe Rosati diretta da Fernando Previstali. Montaggio: Mario Serrandrei. Costumi: Maria De Mateis. Ass.regia: Antonio Pietrangeli.

 

Interpreti principali: Massimo Girotti ( Gino Costa ) Clara Calamai ( Giovanna Bragana ) Juan De Landa ( Giuseppe Bragana, suo marito ) Dhia Cristiani ( Lucia ) Elio Marcuzzo ( Giuseppe Tavolato detto “lo spagnolo” ).

 

Note: Distribuzione: I.C.I. Durata: 112’ Il film prima della presentazione ufficiale nelle sale cinematografiche ha subito parecchie traversie, ha subito parecchie traversie: a Milano venne visto soltanto nel maggio del ’44, a Roma nell’aprile del ’45, dopo la liberazione.

 

 

 

Soggetto: In una trattoria della Bassa Padana giunge un giovane vagabondo che viene ospitato in casa dello stesso padrone. L’uomo, durante un assenza del padrone, diviene l’amante della moglie, una donna molto sensuale e insoddisfatta. I due meditano la fuga ma il tentativo va a vuoto ed il giovane riprende la sua strada. In treno incontra un reduce della guerra di Spagna che gli fa intravedere delle possibilità di vita in Grecia ma egli non si convince a seguirlo anche perché è ancora innamorato della donna. Per caso in città incontra i coniugi. Il marito, che ha molta stima di lui, lo invita a ritornare a lavorare alla trattoria e a vivere con loro. La passione si riaccende in modo talmente intenso che la donna riesce a convincere il giovane a sbarazzarsi del marito simulando un incidente d’auto. Consumato il delitto è il momento dell’ossessione per il giovane che vive nel rimorso e nella paura di essere scoperto dalla polizia. Egli ha il sospetto che la donna lo abbia spinto al delitto per incassare l’ingente premio di assicurazione sulla vita dell’anziano marito. Si allontana nuovamente da lei ma per ritornare dopo poco alla notizia che la donna aspetta un bambino. Con la riconciliazione decidono poi di fuggire e di andare a vivere in un altro luogo ma durante la fuga il camion si cui sono si ribalta e la donna muore. Inoltre sopraggiunge la Polizia che ha il mandato di arrestare l’uomo con l’ accusa di omicidio.

 

 

 

Ritornare a Visconti significa cercare una nuova rappresentazione del paesaggio in Italia. Il cinema prima di Visconti è il cinema dei telefoni bianchi, il cinema della propaganda e degli eroi fascisti che stampano la loro facciona sui campi lunghi e arditi della battaglia. Con Visconti abbiamo una rappresentazione intima e sofferta del paesaggio padano. Fino alla fine degli anni trenta lo scenario cinematografico della pianura padana è uno scenario buio, uno scenario lontano dai centri produttivi cinematografici, annegato in una geometria di linee orizzontali di scarsa resa plastico figurativa: una censura dello sguardo, dei processi produttivi e delle convenzioni del visibile dissolta nel ’42 da Visconti. Il vagabondaggio di Gino in Ossessione, il suo aspetto disordinato ci riporta a un disequilibrio indispensabile rispetto allo sviluppo del dramma. Qui il paesaggio padano è come un operatore testuale. La campagna viene rappresentata come un contesto rurale ( una strada piatta e bianca, degli alberi, un fiume, un tratto di terra pianeggiante ) riproposti con una persistenza figurativa che fa loro raggiungere l’astrazione dei segni. Inoltre, le inquadrature sulla campagna sono attraversate da due uniche linee compositive: una orizzontale ( la trattoria, la fila d’alberi, la linea dell’orizzonte ) e una verticale ( la strada e il fiume ) al centro della quale si dispongono i personaggi ripresi secondo lo schema della prospettiva centrale. Inquadrature chiuse, delimitate ai bordi come da una cornice. La strada è sempre deserta, la trattoria visitata da rarissimi clienti, sbucati dal nulla e pronti a scomparire in un fuori scena mai nominato. In città invece c’è la folla, il traffico, la disposizione delle strade e delle case. Le scene di campagna sono dominate dal contrasto fondamentale di bianco e nero ( bianco della strada e nero dei personaggi) dalla opacità costante, senza nitore ed immobilismo figurativo, lo stesso che si incontra nella trattoria. I personaggi sembra quasi che non vedano la campagna. La campagna è lo spazio dello sprofondamento, dell’immobilismo, della chiusura, della morte.

 

 

 

Alberto Moravia rilesse la sceneggiatura di Ossessione che venne firmata da Gianni Puccini, Visconti e De Santis. Da Il postino suona sempre due volte di James Cain era stato ridotto in film in francese e solo Visconti lo aveva visto; egli fece la scelta del paesaggio padano. A quel tempo, sulla rivista “Cinema”, si conduceva una polemica per il ritorno del cinema ad una verità italiana. Gino era un irregolare come Jean Gabin avversato dal mondo delle convenzioni borghesi, brusco, schietto, anarcoide che amava la vita randagia, l’irriverenza, il vagabondaggio per strade desolate o per periferie dove incontrare il fiore raro dell’amore, un amore che strascina sempre dietro la morte. Ci sono anche reminiscenze di Quai de brumes, 1938, Le jour se lève e la Bète humaine del 1939. Qui la donna viene vista come inizio di distruzione e nodo dannato di sentimenti. Donna pigra, sensuale e calcolatrice, mentre l’uomo è libero, forte e vittima. C’è una insistenza espressiva sul materiale plastico e ambientale. Il fondale che fa da basso continuo alla vicenda dei protagonisti, e che non è di cartapesta, è la strada che appare subito attraverso il cristallo anteriore di un camion, il Po coi greti sabbiosi, le osterie popolari, i giardini di Ferrara presso il Castello, i vicoli e le piazze affollate di biciclette, la fiera all’aperto, le camere squallide, il porto di Ancona, le viuzze malfamate e il Duomo stagliato contro il cielo, gli scompartimenti di legno di terza classe. Il cinema di allora era il cinema dei telefoni bianchi o delle opere nazionalistiche. Se vogliamo c’è la fine dell’ambiente piccolo borghese nazionale e della visione accademica del mondo nello squallore di orizzonti piatti e desolati e nei personaggi inseriti in esso. L’opera distrugge i riposi ed i nascondigli dell’arcadia, il conformismo del quieto vivere provinciale fascista e la sua autarchia. Un'Italia inedita mai vista nei documentari Luce. Gino: ” Qui non succede mai niente…Poter di nuovo guardare in faccia la gente senza paura”.

 

Uomini vivi nelle cose. Animazione dell’ambiente. Movimento doppio dal personaggio all’ambiente e dall’ambiente al personaggio. L’ambiente si incorpora con la forma umana del protagonista, diventa una sua metafora, quinta o coro e si spinge fino ad assumere dimensioni irreali per far dominare l’empito e lo sfolgorare del personaggio.

 

PAISA’ di Roberto Rossellini

 

Produzione: Roberto Rossellini per O.F.I. con la collaborazione di Rod e Geiger. Anno 1946

 

Regia: Roberto Rossellini Soggetto: Sergio Amidi, Federico Fellini, Marcello Pagliero, Victor Alfred Haynes, R.Rossellini. Sceneggiatura: Amidei, Fellini, Rossellini. Direttore fotografia: Otello Martelli. Musica: Renzo Rossellini. Voce narrante: Giulio Panicati.

 

Interpreti: Episodio “Appennino Emiliano”: William Tubs ( Bill Martin, cappellano militare ) Newell Jones ( cap. Jones, cappellano protestante ) Elmer Feldman ( cap. Feldman, cappellano ebreo) e autentici monaci francescano di un convento di Maiori ( Salerno ).

 

Episodio” Porto Tolle”sul Delta del Po: Dale Edmonds ( Dale, l’americano dell’O.S.S ) Cingolani ( lui stesso) Robert Van Loel ( il tedesco ) Alan e Dane ( due soldati americani) altri attori: Iride Belli, Antony La Penna, Fattori.

 

Note: Distribuzione: M.G.M. Durata: 134’ Nastro d’argento per la migliore musica e la migliore regia. Vasco Pratolini collaborò alla sceneggiatura dell’episodio fiorentino.

 

 

 

Il film racconta in sei episodi l’incontro tra soldati americani che risalgono la penisola combattendo tedeschi e italiani. Di paisà in paisà, l’obiettivo della cinepresa di Rossellini trascorre su di un paesaggio rovente di guerra, gravido di dissoluzione, disperazione, miseria. La critica disse che Rossellini aveva scandalizzato l’Italia con la sua “antiretorica”, ma chi aveva vissuto l’esperienza del conflitto non si scandalizzava proprio di nulla e, semmai, un nuovo punto di vista gettava uno sguardo come un rasoio sulle scelleratezze del passato.

 

Paisà è costruito come una raccolta di novelle sulla lotta partigiana, calata in diversi contesti geografici dell’Italia della fine del 1944. Sesto episodio è lo scenario del Po. Uno scenario che già dalla prima sequenza sembra in grado di restituirci nella ricchezza e nella ripetizione i suoi tratti essenziali. In campo lunghissimo qualcosa succede nella corrente, in mezzo al fiume, avanzando lentamente verso la macchina da presa. Leggera panoramica da destra sinistra fino a quando, in primo piano, possiamo leggere la scritta nera su fondo bianco “partigiano”. Un istante poi il cartello, infilato in un salvagente insieme con un uomo, esce di campo a sinistra. Successivamente, negli undici piani che seguono e che accompagnano lo scorrere sempre più lento del cadavere lungo il fiume, scopriamo un paese basso disteso sulla sponda opposta del fiume ed un gruppo di abitanti del luogo e di tedeschi e di donne in scialle nero che camminano mute lungo l’argine e ancora pescatori, bambini e una riva che va sempre più allontanandosi sullo sfondo e un canneto che chiude alla vista il fiume. Si è parlato di rappresentazione cronachistica del paesaggio in Paisà, documentario, reportage, cronaca in presa diretta. Neutralità di riprese, assenza di processi formali di costruzione. La costruzione del racconto, in realtà, si affida ampiamente all’ellissi e alla giustapposizione di blocchi di sequenze autonome non direttamente ricucibili secondo nessi causali. Una strada, un argine un canneto, una capanna, non sono immediatamente ed esplicitamente preordinati ad alcuna funzione diegetica che li decontestualizza attribuendo loro lo statuto di segni e mantenendo intatto il loro potenziale autonomo di significazione. Vuoti, pause, scollamento del racconto ma persistenza dei tratti paesistici. Paisà è la storia di un fiume che scorre verso il mare.

 

A. Bazin: ” Nello splendido episodio finale dei partigiani accerchiati nella palude, l’acqua limacciosa del delta del Po, le canne a perdita d’occhio alte abbastanza da nascondere gli uomini accovacciati a piccole barche piatte, lo sciacquio delle onde contro il legno hanno un posto in qualche modo equivalente a quello degli uomini. A questo proposito va segnalato che questa partecipazione drammatica della palude è dovuta ad alcune qualità molto intenzionali della ripresa. La linea dell’orizzonte è sempre alla stessa altezza e questa permanenza della proporzione dell’acqua e del cielo attraversa tutte le inquadrature del film fa emergere uno dei caratteri essenziali di questo paesaggio.”. Anche la funzione del sonoro risulta decisiva: i rumori delle barche a motore, gli spari e le voci, lo sciacquio del fiume che giungono dal fuori campo consentono al paesaggio di dilatarsi e di espandersi in tutte le direzioni oltre la inquadratura. Il paesaggio è restituito in una sorta di esperienza percettiva, la voce del paesaggio insomma, l’alone del fiume. Analogie tra elementi tematici e figurativi.

 

In Rossellini c’è una assenza di subordinazione tra personaggio e paesaggio, una fusione dei due elementi nell’inquadratura. Rossellini cerca la voce del paesaggio. Antonioni, quindici anni dopo, sulla scorta di questa lezione si inoltrerà sull’analisi della zona inesplorata dei sentimenti visti nella loro dimensione comportamentale, nella prospettiva di un neorealismo interiore.

 

 

DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni

 

Produzione: Angelo Rizzoli per Film Duemila ( Roma ) e Francoritz ( Parigi ) Anno 1964

 

Regia: Michelangelo Antonioni. Soggetto e Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra. Direttore fotografia: Carlo Di Palma.

 

Interpreti principali: Monica Vitti ( Giuliana ) Richard Harris ( Corrado ) Carlo Chionetti ( Ugo, il marito ) Xenia Valderi ( Linda ) Rina Renoir ( Emilia ) Lili Rehims ( moglie dell’operaio ) Valerio Bartoleschi ( Valerio, figlio di Giuliana ) Aldo Grotti ( Max ) Emanuela Paola Carboni ( ragazza della favola ) Giuliano Missirini ( operaio del radiotelescopio )

 

Note: Distribuzione: Cineriz Durata: ‘120 Girato dall’ottobre ’63 al marzo ’64 a Ravenna ed in Sardegna nell’isola Budelli. Presentato al XXV Festival del Cinema di Venezia dove ha ottenuto il Leone d’oro. Ha ottenuto anche il Nastro d’argento per la migliore fotografia a colori.

 

 

 

Soggetto: Giuliana, sposata ad un ingegnere, dopo uno choc subito in seguito ad un incidente d’auto è colpita da una profonda crisi depressiva. L’ambiente della cittadina industriale dove il lavoro del marito la porta vivere, non fa che acuire il suo stato. Un breve rapporto con Corrado, l’amico del marito, non l’aiuta ad uscire dall’angoscia dei suoi incubi e, quando l’uomo parte, per Giuliana non c’è che smarrimento e vuoto.

 

 

 

Per Antonioni il paesaggio è essenzialmente un luogo dell’anima, ne rappresenta il vuoto, è un luogo misterioso, il luogo di una avventura. Disumana civiltà delle macchine e condizione dell’uomo contemporaneo, ma anche una nuova sensibilità cromatica nella rappresentazione del paesaggio.

 

Nei film di Antonioni le parole non sono che un commento alle immagini, un sottofondo. Antonioni vuole distruggere nella parola la reminiscenza letteraria e lasciare solo l’effetto cinematografico. Verginità del guardare perché è dall’ambiente che vengono i frutti migliori. Sentire l’ambiente senza i personaggi e le persone. L’ambiente in sé, Ravenna, le sue valli, sono il regesto di una assenza che dissolve nel nulla. Deserto rosso era nato come un film da fare a colori ma nel bianco e nero c’è una irrealtà che piace di più. Deserto Rosso è anche un film sulla nevrosi di una donna, le nevrosi che toccano, che cozzano, farfalle impazzite, i confini sconfinati dell’anima.

 

Il grigio, la nebbia del paesaggio padano sono come la base di tutte le sequenze del film, ricorda il direttore della fotografia Carlo Di Palma. “Era un periodo in cui tutto quello che accadeva intorno a noi era anormale. I rapporti tra individuo e ambiente ed individuo e società erano forse la cosa più interessante da esaminare. La realtà era scottante e vi erano fatti e situazioni eccezionali. Il film neorealista tratta dei rapporti dell’individuo con la società. Io arrivai nel 1950, dice Antonioni, e quella fase cominciava a dare segni di stanchezza. Ora importante diventa esaminare il personaggio, andarvi dentro per vedere che cosa, di tutto quello che era passato - guerra, dopo guerra- era rimasto dentro.” Inquadrature molto lunghe sui personaggi fatte di carrelli e panoramiche: il famoso piano-sequenza di Antonioni che fa del paesaggio uno spazio della interiorità, il teatro di un conflitto indecidibile. Racconta il grande ferrarese: “Accadeva questo: quel paesaggio che fino ad allora era stato un paesaggio di cose, fermo e solitario: l’acqua fangosa e piena di gorghi, i filari dei pioppi che si perdevano nella nebbia. L’isola Bianca in mezzo al fiume a Pontelagoscuro che rompeva la corrente in due, quel paesaggio si muoveva si popolava di persone si rinvigoriva. Le stesse cose reclamavano un attenzione diversa, una suggestione diversa. Guardandole in modo nuovo me ne impadronivo. Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine, la sua forza, il suo mistero. Appena mi fu possibile tornai in quei luoghi con una macchina da presa.” Tornare a guardare la realtà con la “macchina da presa”, dunque esplorare, con una nuova consapevolezza, il paesaggio dell’alma mater emiliano romagnola come non lo avevamo mai esplorato.

 

 

 

Mauro Conti

 

 

 

Bibliografia:

 

 

 

Un sito fondamentale, per capacità e completezza, da cui trarre notizie e documentazione sul cinema in Emilia Romagna è:

 

 

 

http://www.cinetecadibologna.it/

 

L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1969 a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi. Milano Feltrinelli 1981

 

 Carlo Lizzani, Il cinema italiano, 1895-1979 Editori Riuniti, Roma 1979

 

 Gian Piero Brunetta, Buio in sala, Cent’anni di passioni dello spettatore cinematografico, Marsilio Editori, Venezia 1989

 

 Dizionario del cinema Italiano, I film ( 1930-1969 ) Roma 1993

 

 Pio Baldelli, Luchino Visconti, Milano 1973

 

 P.Sorlin, Sociologia del cinema, Milano 1979

 

 Rossellini, Triologia della guerra, Bologna, 1972 

 

A. Bazin, Che cos’è il cinema. Milano 1973

 

M. Antonioni, Postfazione a sei film, Torino, 1964

 

G. Romano, Studi sul paesaggio, Torino 1978

 

Cesare De Seta, Presentazione nel volume Il Paesaggio in Annali 5, Storia d’Italia Einaudi.

 

 Introduzione al catalogo della mostra, Paesaggio: immagine e realtà pubblicato da Electa.

 

 Il Po si muove: da “Ossessione” a “Paisà” risalendo fino a “Il grido”di Giovanna Grignaffini in Paesaggio: immagine e realtà.

 

G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano Bari 1991

 

[1] Introduzione al catalogo della mostra, Paesaggio: immagine e realtà pubblicato da Electa.

 

 

 

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VIVERE LA SAGGEZZA

 

GLI AFORISMI DI SCHOPENHAUER

 

 MAURO CONTI

 

 

 

Facere docet philosophia, non dicere.

 

Seneca, Ep. 20, 2

 

 

 

Rileggere gli Aforismi di Schopenhauer oggi, a circa cento cinquant’anni dalla loro pubblicazione, quando vennero raccolti all’interno del volume Parerga e Paralipomena, potrebbe risultare pleonastico, inutile o – peggio – una concessione tutt’altro che saggia a una tendenza, a un modus del presente. Di consigli per il bene vivere sono stracolmi gli scaffali della nostra esperienza, così come le pagine dei giornali che ci rubano tempo sui crocicchi polverosi e semaforati della quotidianità. Se tuttavia l’avventurato lettore sarà così tenace da non scoraggiarsi di fronte a una così disancorata proliferazione di suggestioni vaporose e ingombranti, per lui si potrebbe aprire una nuova esperienza, e un nuovo grado della riflessione potrebbe dischiudersi in direzione della saggezza, della prova del vivere saggio.

 

Vivere la saggezza è un progetto che, prima o poi, va concepito nel percorso esistenziale di ogni essere umano, è un sentiero che chiede di essere illuminato accanto a quelli pur legittimi e immaginosi che guidano, a volte languidamente, i pensieri di tutti. Abitare la saggezza significa essere il gesto che illumina i luoghi dolorosi della nostra soggettività, significa identificarsi empaticamente con la sapienza del mondo e con la salute che scaturisce dal contatto.

 

Del resto, considerare la saggezza come una costruzione da compiersi, un percorso da misurare e dunque intendere la filosofia come pratica di vita quotidiana risulta, ad esempio, costantemente nell’opera di un insigne storico della filosofia antica, Pierre Hadot[1]. In generale, si può dire che codesto soggetto rappresenta il tema operativo dominante che sorge con l’apparire della coscienza nell’umano, e non c’è individuo che non ne abbia sentito l’attrazione o non ne abbia ripercorso le problematiche, pure attraverso quelle mediazioni “d’autore” – di esso, com’è noto, si sono occupati tutti i filosofi maggiori – che sono poi passate nella mentalità collettiva.

 

La consuetudine di Arthur Schopenhauer con i temi della meditazione sulla felicità, sulla saggezza del vivere era di lunga data. Già a partire dal 1814 si trovano diverse annotazioni al riguardo[2] e, fra le molteplici carte inedite che rappresentano un lascito decisivo dello scrittore, nonché nel vasto materiale di quaderni, fascicoli e appunti sparsi, vergati in una grafia non sempre comprensibile anche dagli specialisti, siffatta problematica ricorre con una certa insistenza. Insomma, il filosofo del pessimismo, della finitudine umana oscillante tra noia e dolore, riteneva che, comunque, con gli strumenti dell’intelligenza, prezioso dono della Natura, l’uomo potesse di fatto lenire la sofferenza, e così conciliarsi nell’assenza di dolore. «Dal momento che solo l’intuire rende felici – scriveva il filosofo, allora ventiseienne – e tutto il tormento sta nel volere (ma, tuttavia, fino a che il corpo vive è impossibile un totale non volere), la vera saggezza di vita è che si rifletta su quale debba essere la quantità indispensabile di volere, se non si vuole cercare di raggiungere l’ascetismo supremo, che è la morte per fame: tanto più il confine è stretto, tanto più si è veri e liberi; che inoltre si soddisfaccia questo volere limitato, ma oltre a ciò non ci si consenta desiderio alcuno e si passi liberamente la maggior parte del tempo della vita come puro soggetto conoscente»[3]. 

 

La pratica della sapienza e della saggezza dunque consente una sorta di purificazione per l’uomo, lo avvia sulla strada di una liberazione interiore che è una salvezza dal dolore del mondo, il dolore causato dalla volontà. Non sembra esserci altra via d’uscita alla tristezza del pensiero, alla malinconia dell’essere nel mondo che la meditazione, sull’esempio dei grandi uomini di pensiero del passato. Quale significato sia da attribuirsi al termine saggezza è lo stesso Schopenhauer a dichiararlo con la consueta, severa limpidezza di stile: «Vi sono alcuni concetti che assai raramente si trovano in una qualche mente ben chiari e definiti, ma, invece, protraggono la loro esistenza unicamente grazie al nome, il quale, allora, in realtà, indica soltanto il posto di un simile concetto; ma senza questo nome tali concetti andrebbero del tutto perduti. Di questo genere è, per esempio, il concetto di saggezza. Quanto vago è esso in quasi tutte le teste! Si vedano le spiegazioni dei filosofi. Saggezza mi pare voglia significare la perfezione non soltanto teoretica, ma altresì pratica. Io la definirei come la conoscenza compiuta e giusta delle cose in generale e nella loro totalità, che ha talmente compenetrato l’uomo da rivelarsi anche nelle sue azioni, poiché essa guida ovunque il suo operare»[4].

 

Forzando un poco il suo pensiero, si potrebbe dire che la saggezza viene intesa, al modo dei greci, e, per il mondo latino, di Seneca, come virtù generatrice di felicità, una felicità che consiste nel far crescere il daimon, nel dar voce ed ascolto al proprio demone, nell’attendere, nel coincidere con esso e dar corpo all’arte di essere felici, alla pratica della eudemonologia. Certo, Schopenhauer per primo, nella storia filosofica occidentale, avverte la crisi della ragione come rimedio all’angoscia del divenire, o, per dirla con altri termini, misura la distanza che si è aperta tra nomos e phisis[5]. E sosteneva a giusto titolo Giorgio Colli che, in Schopenhauer, «la ragione, anzi, non è che un aspetto del suo più vasto concetto di rappresentazione, e in esso va inclusa»[6]. La ragione umana non è più il riparo contro la sofferenza: ogni vita individuata è sofferenza, guerra, lotta infinita, e il soggetto conoscente è voluto dalla Volontà, è il prodotto della Volontà e, rispetto ad essa, non ha alcuna autonomia. Insomma, l’esperienza nella sua globalità è espressione della Volontà, e il mondo come rappresentazione, l’intera vita, sono fenomeno di una Volontà che eccede la ragione, sta al di là e al di fuori delle spiegazioni razionali. La Volontà non segue alcuna legge, non ha una origine, né orientamento, né fine. La Volontà è un infinito tendere, ed ogni meta che raggiungiamo è, a sua volta, il principio di un nuovo, faticoso cammino. Per l’uomo non c’è mai soddisfazione, e la Volontà è in sé una specie di tendere insoddisfatto, d’inappagato operare che produce soltanto dolore e sofferenza. E viene alla mente la “strage delle illusioni” di leopardiana memoria, quando Schopenhauer afferma, nell’opus magnum, che i nostri desideri «ci illudono sempre, mostrandoci il loro compimento come fine supremo del volere, ma, non appena raggiunti non sembrano più gli stessi, e quindi, subito dimenticati, invecchiati, vengono sempre messi da parte come miraggi svaniti»[7].

 

Rebus sic stantibus, una via d’uscita può ritrovarsi nella negazione in sé della Volontà. Se l’ostacolo, la causa prima del dolore è la Volontà, l’energia prorompente della vita che tutto informa, allora una redenzione non può essere immaginata senza una completa negazione della Volontà. La saggezza di vivere sta nella libera autonegazione della Volontà, nel distacco dal ciclo della vita, nello svelamento di Maja, ossia dell’illusione, della fenomenologia della vita entro cui tutti ci consumiamo, bruciamo, ci struggiamo. A parere del Nostro, siamo deboli fiammelle, pallide ombre, e i nostri godimenti e le nostre gioie si disperdono nel nulla. Ogni cosa, platonicamente, emerge dal nulla e ritorna al nulla, in una sorta di danza ove è la Volontà a scandire il ritmo. Per diventar partecipi della pace di Dio, perché sorga la coscienza migliore che nasce dalla pratica e dall’esercizio dell’arte della felicità, «bisogna che l’uomo, quest’essere caduco, finito, nullo, sia qualcosa di totalmente diverso, che non sia più nient’affatto uomo, ma che divenga consapevole di sé come qualcosa di totalmente diverso. In quanto vive, in quanto è uomo, non è soltanto consegnato al peccato e alla morte, ma anche alla illusione, e quest’illusione è reale quanto la vita, il mondo stesso dei sensi, anzi è tutt’uno con essi (la Maya degli indiani): su di essa si fondano tutti i nostri desideri e brame, che a loro volta non sono che l’espressione della vita come la vita non è che l’espressione dell’illusione. […] Per trovar quiete, felicità, pace, bisogna rinunciare all’illusione, e per far questo bisogna rinunciare alla vita»[8].

 

Rinunzia di Sé, rinunzia del frutto dei propri atti: c’è in Schopenhauer una specie di orrore per l’essenza della Volontà, a cui occorre porre rimedio tuffandosi nel nulla, sì, il nulla del nostro universo, con i soli e le galassie, la vastità degli spazi siderali, in una sorta di estatica contemplazione che ricorda Plotino, ma forse anche Meister Eckhardt: il divino è colto alla fine di tutte le voci, come puro limite di tutte le risonanze, sottrazione, metafisico silenzio che pervade il territorio del nulla.

 

Ma qui entriamo in un ambito teologico forse estraneo a Schopenhauer, anche se è egli stesso a dichiarare, in un frammento del 1858: «Buddha, Eckhardt ed io insegniamo nella sostanza la stessa cosa – Eckhardt entro i vincoli della sua mitologia cristiana. Il Buddhismo contiene i medesimi pensieri, non contaminati da tale mitologia, ed è quindi semplice e chiaro, per quanto una religione possa essere chiara. Io ho raggiunto la chiarezza completa. Se si va alla radice dei fatti, appare evidente che Meister Eckhardt e Sakyamuni insegnano la stessa cosa, con la differenza che il primo non può e non sa esprimere i propri pensieri con la stessa immediatezza del secondo, trovandosi invece obbligato a tradurli nella lingua e nella mitologia del Cristianesimo»[9].

 

Non bisogna tuttavia dimenticare che se c’è un pensatore antimetafisico e antiteologico questi è proprio il filosofo di Danzica. E su codesti presupposti Nietzsche fonderà le sue qualità di educatore[10], la sua virilità eroica di pensatore che vuol cessare d’essere giocattolo del divenire, che chiede l’oblio del sé per intraprendere la ricerca del Vero. E in India, nel Brahmanesimo e nel Buddismo, egli aveva trovato quella profonda saggezza del vivere, quell’umana dottrina che né l’Islamismo, né l’Ebraismo avevano potuto soddisfare. In effetti, tutte le religioni mediterranee, così come i fondamenti della sapienza greco-romana, non sono altro – sosteneva – che un mero riflesso di una luce originaria proveniente dall’India[11]. Schopenhauer leggeva le Upanishad nella traduzione latina di Anquetil Duperron, il quale si era basato su un esemplare in persiano che risaliva al 1656. Nonostante la scarsa attendibilità filologica e lessicale dei testi disponibili, egli considerava le Upanishad la consolazione più preziosa della sua vita, ed era solito chinarsi su quei testi dell’antica sapienza indiana ogni sera, prima di coricarsi.

 

Ma in che cosa consiste realmente, secondo Schopenhauer, la Volontà di vita negli uomini? Ogni volere, ogni istanza di vita, ogni istinto che la propaga erompe impetuosamente da una sofferenza, da uno stato di prostrazione: se la vita di ogni uomo è necessariamente un volere, allo stesso tempo è anche una sofferenza. Si potrebbe dire, in termini virgiliani, una cupiditas, una dira lubido: «La pulsione sessuale è di per sé il nocciolo della volontà di vita e, da un punto di vista esterno, per come si dà all’apparenza, è ciò che perpetua e tiene unito il mondo delle apparenze. Se mi si domandasse dove è possibile acquisire la conoscenza più intima dell’essenza interna del mondo, di quella cosa in sé che chiamo volontà di vita, o dove tale essenza diventi cosciente con la massima evidenza, o ancora dove riveli se stessa nel modo più puro, dovrei indicare la voluttà nell’atto della copulazione. Non v’è alcun dubbio»[12]. Oggi è ben noto quanto vasto e profondo sia stato l’influsso di queste posizioni “forti” sulle origini e sugli sviluppi della psicoanalisi freudiana, adleriana e junghiana nonché, più in generale, su una parte oltremodo cospicua della cultura otto-novecentesca.

 

Per quanto riguarda gli Aforismi, bisogna dire che un testo soprattutto appare la fonte ispiratrice, il modello della sua riflessione: l’Oráculo manual y arte de prudencia di Baltasar Gracián. Sin dal 1825, Schopenhauer aveva intrapreso lo studio della lingua spagnola e delle opere dei protagonisti del Siglo de oro: Calderón de la Barca, Lope de Vega e, naturalmente, Miguel de Cervantes; ma è soprattutto il Gracián moralista, col suo pessimismo scevro d’illusioni, a delineare, per lui, un nuovo quadro di riferimento morale. In breve tempo, leggerà l’Oráculo e ne produrrà una traduzione in tedesco, che peraltro stentò lungamente a trovare un editore[13].

 

Secondo Franco Volpi – lo studioso italiano che ha saputo scandagliare in maniera più puntuale e convincente i manoscritti inediti di Schopenhauer conservati nell’omonimo archivio presso la Biblioteca di Francoforte [14] –, fu proprio la lettura del gesuita spagnolo a sollecitare la stesura di quell’eudemonologia geniale che costituisce il fondamento degli Aforismi sulla saggezza della vita: più precisamente, gli aforismi che vediamo qui ordinati, il cui fine precipuo – giova ricordarlo – è quello di spalancare le porte alla serenità, abbattere il pregiudizio che ne ostacola la fruizione, risalirebbero ad un manoscritto In-folio del 1826 ripreso nel ’28, quando la sua frequentazione della cultura iberica dell’età barocca era molto intensa.

 

Certo, a lato dei testi e delle letture, era sempre un’esperienza personale, fatta di amarezze e incomprensioni profondissime, a scatenare la stesura degli appunti rapidi, così come delle pacate riflessioni, che ritroviamo negli Aforismi. A leggerli con attenzione, emerge con rara chiarezza il tema della conoscenza di sé, tipico di una filosofia che aspiri ad essere, in primis, cura dell’anima[15]. Invero, si tratta di esercizi, regole ed esempi che orientano verso una filosofia pratica, che propongono una filosofia concepita come arte di vivere, ma altresì come arte tout court: c’è infatti un’estetica dell’esistenza negli Aforismi e, in fondo, l’arte di essere felici prefigura, nei suoi risvolti squisitamente sapienziali, l’eroismo estetico di certe meditazioni nietzschiane.

 

Ma pare opportuno, a questo punto, offrire una breve biografia intellettuale del nostro autore, specie al fine d’inquadrare a livello storico-culturale il testo che ci apprestiamo a considerare.

 

Arthur Schopenhauer nacque a Danzica il 22 Febbraio 1788, da Heinrich Floris Schopenhauer e Johanna Henriette Trosiener. Il padre era un facoltoso commerciante e la madre una donna vivace e colta, che ebbe anche una discreta fama in campo letterario come autrice di romanzi. Il nome di Arthur venne scelto dal padre perché suonava uguale nelle principali lingue europee (inglese, francese, tedesco), e fu quasi un auspicio di quel cosmopolitismo che sarà tratto originale del suo pensiero ed anche degli Aforismi.

 

Quando Danzica entrò a far parte dello stato prussiano, anzi della Confederazione tedesca, il padre, che era di idee liberali e mal sopportava il retaggio del dispotismo di matrice fredericiana, si trasferì con la famiglia ad Amburgo, la ricca città-stato sulle rive dell’Elba che da secoli era un importante centro commerciale. Qui la famiglia ebbe modo d’intrattenere relazioni con le personalità più in vista dell’epoca, dal poeta Klopstock al pittore Tishbein e al filosofo Reimarus. All’età di nove anni, Arthur fece un viaggio in Francia con il padre e si stabilì a Le Havre, dove, presso la casa di un corrispondente della famiglia, si fermerà per due anni ed avrà modo di imparare perfettamente il francese, oltre ad esplorare i primi rudimenti di latino. Di ritorno ad Amburgo, il suo curriculum scolastico si orientò verso l’Istituto Runge, una scuola tecnica e commerciale che però non soddisfaceva appieno i suoi interessi.

 

Durante le vacanze estive, assieme alla famiglia nella magnifica città di

Weimar, il giovane Schopenhauer ebbe modo di conoscere Friedrich Schiller: fu un incontro capitale, che avrà grande influenza anche sull’orientamento del suo sistema concettuale. Ma i suoi interessi prettamente umanistici covavano, potentissimi, sotto la cenere, e furono soltanto rimandati. Tra il 1803 e il 1804 viaggiò con la famiglia in Gran Bretagna, Olanda, Belgio, e ancora in Francia. Nel corso di tali soggiorni, ebbe modo di conoscere, fra l’altro, le opere di Shakespeare, Byron, Sterne e Scott, nonché la grande letteratura francese: grazie a siffatte letture, acquisì dunque basi eccellenti per affrontare tutti i fondamenti della cultura europea.

 

Il 1805 fu un anno funesto e cruciale per il giovane Arthur: il padre venne trovato morto. Molte voci sostenevano ch’egli si fosse suicidato e, tra le ragioni possibili, vennero addotte un dissesto di carattere economico e una certa indifferenza da parte della giovane moglie. Difficile trarre dalle carte conclusioni univoche, ma forse la seconda ipotesi potrebbe far luce sulle ragioni di quella grave e talora asperrima incomprensione con la madre che accompagnerà il filosofo per tutta la vita. D’altronde, non bisogna dimenticare che, nel ramo paterno della famiglia, diversi erano stati i casi psicopatologicamente rilevanti.

 

Quando, l’anno successivo, la madre si trasferì a Weimar ove, con fascino ed eleganza, aprì un salotto poi frequentato da molti dei più importanti artisti e intellettuali dell’epoca (fra cui Goethe e i fratelli Schlegel), Arthur, anche a seguito di una promessa solenne fatta al padre, rimase ad Amburgo per curarne gli interessi. Questo periodo, tuttavia, lo trovò diviso tra l’amore per gli studi umanistici, la ricerca filosofica e le preoccupazioni per l’amministrazione del patrimonio di famiglia, che richiedeva non poco impegno e cura. Fu l’amico e storico Fernow ad aiutarlo a sciogliere il dilemma, indirizzandolo verso i classici antichi e lo studio della lingua latina: il periodo dell’apprendimento di quest’ultima si compirà, dopo il trasferimento a Gotha, sotto la guida del celebre latinista Doering.

 

Qualche tempo dopo, però, nauseato dall’ambiente intellettuale della città che, per giunta, riuscirà ad inimicarsi dopo la pubblicazione di alcune satire, Schopenhauer, verso la fine del 1807, si recò a Weimar, ove risiedeva la madre, pur rinunciando a trasferirsi presso di lei. Sotto la guida del grecista Passow, compì intensi studi del greco antico, ma, in questa congiuntura, scoprì pure la cultura italiana, e in particolare il Petrarca, poeta e cultore della sapienza classica che segnerà indelebilmente il suo sviluppo spirituale. All’età di ventun anni, il giovane Schopenhauer ha una brillante vita sociale: frequenta concerti e spettacoli teatrali, e intesse altresì una relazione con Karoline Jagermann, un’attrice cui dedica alcune poesie. Inoltre, riceve una cospicua somma in eredità come parte del lascito paterno.

 

Libero da questioni materiali, il periodo tra il 1809 e il 1811 è nutrito d’intensi studi presso la facoltà di medicina della rinomata Università di Gottinga, ove seguì, fra l’altro, corsi di fisiologia, anatomia, matematica e – con una tensione affatto enciclopedica, un’eclettica aspirazione conoscitiva caratteristica delle migliori menti dell’epoca – anche di fisica, chimica e botanica. Saranno poi l’approfondimento delle discipline storiche, della psicologia e della metafisica a spingerlo a lasciare gli studi di medicina per orientarlo verso la filosofia. Sotto la guida di un maestro di tendenze scettiche come Gottlieb Ernst Schulze, Schopenhauer prese a studiare attentamente le opere di Leibnitz, Wolff, Hume, ma soprattutto di Platone e Kant, le cui idee innervano la totalità dei suoi scritti.

 

Nell’ottobre del 1812 si reca a Berlino per ascoltare le lezioni di Johann Gottlieb Fichte, ma ben presto, nei confronti del fondatore dell’idealismo tedesco, egli sviluppa una vera e propria ostilità, stemperata soltanto dallo studio delle scienze, da quell’amore disinteressato per il sapere e la ricerca empirica che lo porterà ad esplorare anche gli ambiti dell’elettromagnetismo, dell’astronomia e della zoologia. In questo periodo segue pure, con sete intellettuale sorprendente, corsi di archeologia e letteratura greca, nonché di poesia nordica. Un altro termine di confronto e, perché no, scontro, dell’università berlinese è rappresentato dalle lezioni di Friedrich Schleiermacher (oggi considerato uno dei capostipiti dell’ermeneutica), le cui posizioni riguardo alla coincidenza fra religione e filosofia trovano subito ostile il nostro, il quale, perentorio, considera le religioni una sorta di stampella per spiriti fiacchi.

 

Fra gli ultimi mesi del 1813 e la primavera del ’14, mentre infuriano le ultime campagne napoleoniche, Schopenhauer abbandonò Berlino e ritornò a Weimar, ove ebbe modo d’approfondire lo studio di Spinoza, un altro dei filosofi che avranno grande influenza sul suo sistema. Ma in questo periodo spicca la redazione di un testo quanto mai rilevante e decisivo, fra l’altro, per comprendere gli sviluppi della filosofia schopenhaueriana: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, un trattato ch’egli spedirà all’Università di Jena e col quale, in absentia, otterrà la laurea in filosofia.

 

Cos’è il principio di ragion sufficiente? È quello che ci fa domandare il perché, gli effetti e le conseguenze delle cose. Nulla è senza una ragion d’essere e gli oggetti, le cose, a seconda del loro rapporto con il soggetto con cui entrano in relazione, hanno rappresentazioni diverse. Il rapporto soggetto-oggetto ha – secondo il Nostro – quattro diverse modalità rappresentative, cioè ha quattro relazioni a priori necessarie: 1. principium rationis sufficientis fiendi, cioè il principio che si manifesta nel divenire e nelle cose naturali come causa; 2. principium rationis sufficientis cognoscendi, che si manifesta nel conoscere e regola i rapporti logici fra le premesse e le conclusioni nelle conoscenze di tipo razionale; 3. principium rationis sufficientis essendi, cioè quello che pertiene ai rapporti spaziali e temporali, alle concatenazioni degli enti aritmetici e geometrici; 4. principium rationis sufficientis agendi, ovvero quello delle azioni viste dalla parte del soggetto, intese come motivi, stimoli, eccitazioni, e che sono riferibili alla necessità morale.

 

Tali sono le determinazioni del mondo della rappresentazione secondo il principio di ragione di Schopenhauer, ma in esse non si esaurisce – come abbiamo detto – il mondo, perché al di sotto di questa griglia epistemica c’è pur sempre la volontà, ch’è il fondamento della rappresentazione, il velo sussurrante della cecità umana.

 

Della fine del ’14 è l’incontro a Weimar con Goethe, quando il grande homme de lettres – “eletto dagli dei”, come lo definirà in diverse occasioni – aveva già superato i sessant’anni. Dopo un primo momento di diffidenza, l’amicizia fra i due divenne molto stretta. All’autore del Faust, il Nostro sarà profondamente legato nel corso di tutta la sua esistenza, e lo richiamerà di continuo nelle sue opere con citazioni, considerazioni e appunti, approfondendone la Teoria dei colori in chiave antinewtoniana e commisurandone la già vasta produzione sulla sinopia del proprio pensiero. Per un’esatta comprensione di Schopenhauer, è bene poi non sottovalutare, come accennato, l’incontro con l’orientalista Majer – sollecitato proprio dall’amicizia con Goethe e dal singolare ambito intellettuale che Weimar in quel momento rappresentava – e con le Upanishad Vediche.

 

Sarà un periodo fecondissimo di lavoro quello che va dal 1814 al 1818. Trasferitosi a Dresda, legge i grandi autori latini (a cominciare da Seneca, Virgilio, Orazio), e poi Machiavelli e Giordano Bruno, insieme con i classici della filosofia: Aristotele, Bacone, Hobbes, Locke e Hume, senza mai trascurare, peraltro, Platone e Kant. Il suo interesse per la fisiologia e l’ottica lo porterà a pubblicare, nel 1816, un trattato Sulla vista e sui colori, ove spiega come, muovendo dai dati che ci forniscono i sensi, l’intelletto produce l’intuizione. Ma se, da una parte, sono i sensi il luogo in cui si produce la sensibilità, è nell’intelletto che risiede la conoscenza vera e propria, la percezione dei colori come esperienza antecedente ad ogni riflessione.

 

L’evento memorabile di questo periodo è la stesura e la pubblicazione, per l’editore Brockhaus di Lipsia, de Il mondo come volontà e rappresentazione, nel dicembre del 1818. Schopenhauer la considererà sempre la sua opera principale, anche se altri scritti non si possono considerare secondari per importanza speculativa. «Il Mondo è una mia rappresentazione», sostiene, e la rappresentazione nell’atto del conoscere è un rapporto tra soggetto e oggetto, che esprime la forma di ogni esperienza possibile e immaginabile. Solamente all’interno della rappresentazione si danno le forme dello spazio, del tempo, della causalità, e in essa l’oggetto esiste per il soggetto solo in base all’azione che esso esercita nello spazio e nel tempo. Fondamento della rappresentazione è la Volontà, a cui è dedicato il secondo libro del Mondo, e la conoscenza della Volontà per il soggetto avviene attraverso il corpo «come qualcosa di immediato». C’è un volere e un’azione del corpo conseguente; ma la Volontà che si oggettiva nella rappresentazione resta comunque unica e irrazionale, ed è affatto svincolata dalle determinazioni del principium individuationis che abbiamo nella rappresentazione, cioè nelle determinazioni di spazio, tempo e causalità. La Volontà espressa nei singoli esseri è causa di una contrapposizione incessante, di una lotta perenne di egoismi che lacera il mondo.

 

Quantunque tutt’altro che definitiva, via d’uscita efficace da questo corso tragico è indubbiamente l’arte: in essa, come indicato specie nel terzo libro del capolavoro, avviene la liberazione, seppur parziale, dalla Volontà. Nell’arte contempliamo le idee universali in quanto essenze, e siamo così sottratti alla lotta che domina il mondo. Nell’arte c’è un’astrazione dalle cose particolari e il soggetto viene a identificarsi con le idee, abbandonando il proprio abito individuale per divenire pura conoscenza. La musica sola peraltro esprime, ben al di sopra di ogni altra arte, la conoscenza pura della Volontà.

 

Ma la vera, l’unica liberazione permanente dalle sofferenze cagionate dalla Volontà, l’affrancamento assoluto dal rincorrersi negativo dei bisogni e dei desideri, si consegue esclusivamente nell’ambito dell’etica. Giustizia ed autentica compassione (l’essenza dell’agape cristiana) sono senz’altro in grado di aprirci una strada imprescindibile di liberazione, ma soltanto nell’ascesi ci è dato esprimere la noluntas, il rifiuto della volontà di vivere, il radicale distacco rispetto all’essenza di un mondo tracimante di dolore. Ciò si raggiunge mediante l’esercizio di castità, rassegnazione, povertà, sacrificio, digiuno: siamo dinanzi ad approdi etico-spirituali di portata universale e di fascino raro, che avranno, come s’è detto, un impatto notevole su tanta cultura di fine Ottocento e su tutto il Novecento. Ma i tempi del successo intellettuale non erano ancor maturi per il nostro trentenne di genio: il testo passò inosservato e restò quasi invenduto, tanto che parte delle copie venne inviata al macero.

 

Il mancato interesse del pubblico verso l’opera non precluse comunque a Schopenhauer quelle aperture all’esperienza proprie del suo rango sociale. In effetti, al termine dell’estate del 1818, sulle orme del grand tour caro agli aristocratici e a tutti i giovani delle classi agiate, e dopo un breve soggiorno a Vienna, si trasferì in Italia, a Venezia precisamente. Qui ebbe un’appassionata relazione con una nobildonna veneziana di nome Teresa Fuga, che lascerà traccia di sé anche nelle “confessioni” del periodo senile. In città, inoltre, si trovava allora Lord Byron, per il quale egli nutriva una profonda ammirazione, tanto che, in vista di un appuntamento con lui, si era procurato una lettera di presentazione di Goethe. L’atteso incontro purtroppo non avvenne e il viaggio del filosofo proseguì verso Bologna, Firenze, Roma, Napoli, senza particolari tracce di frequentazioni di spicco.

 

In Italia approfondì la conoscenza della nostra lingua e s’interessò ai monumenti della nostra letteratura leggendo in originale Dante, Boccaccio, Ariosto, Tasso e, naturalmente, il prediletto Petrarca, verso il quale nutriva una particolare ammirazione. L’Italienische Reise venne interrotta bruscamente nel giugno del ’19 da una lettera della sorella che gli annunciava il fallimento della Banca Muhl di Danzica, presso la quale era impegnata parte del capitale suo e della famiglia. Il rifiuto di accordarsi con i curatori fallimentari – con cui, peraltro, avrebbe potuto trovare una mediazione virtuosa onde limitare il danno subito – lo costrinse per un paio di anni a qualche ristrettezza economica, che cercò di superare dedicandosi all’insegnamento universitario.

 

Nella primavera del 1820, ottenne la libera docenza presso l’Università di Berlino ma, con quella tagliente perentorietà che già gli aveva procurato tante inimicizie negli anni precedenti, volle fissare gli orari delle sue lezioni in concomitanza con quelli dell’odiatissimo Hegel. La scelta, fin dai primi mesi d’insegnamento, specialmente a motivo della rinomanza e della forza propositiva del filosofo di Stoccarda, gli procurò un esiguo numero di accoliti fedeli, che finì poi per assottigliarsi ulteriormente col passare del tempo.

 

Nei primi due anni del soggiorno berlinese, Schopenhauer ebbe una relazione sentimentale assai contrastata con la cantante Caroline Richter, detta Medon, corista del Teatro dell’Opera, relazione che si concluderà qualche anno più avanti; fu quindi vittima di uno spiacevole episodio, che ebbe fastidiose conseguenze giudiziarie. Infastidito dai rumori che una vicina di casa, la signora Marquet, faceva in continuazione davanti alla sua abitazione egli, in un accesso d’ira, la spinse violentemente e la gettò a terra. Assolto in prima istanza dal tribunale, in appello venne invece condannato a corrispondere alla donna un’indennità, che le dovette versare fino alla morte.

 

Questi fatti sgradevoli, avvenuti in un periodo tutto sommato alquanto amaro, non gli impedirono, tuttavia, la ripresa dei viaggi e, in particolare, un ritorno in quell’Italia che aveva lasciato precipitosamente nel ’19. Nell’agosto del ’22 lo troviamo a Milano, ma il viaggio proseguì per Venezia e per Firenze, ove rimase a lungo, e a Roma. Al ritorno in Germania, nel ’23, le sue condizioni di salute non erano buone. Si fermò a Dresda per curarsi e, frattanto, si appassionò alla lettura di autori come La Rochefoucauld e Chamfort, ma anche Hume e Giordano Bruno, che progettava di tradurre.

 

Durante il biennio 1825-27, il filosofo ritornò a Berlino, ove ebbe modo di conoscere Alexander von Humboldt, e d’imparare quella lingua spagnola che sarebbe poi stata veicolo di tante magnifiche scoperte intellettuali: alludiamo non solo alla pur fondamentale opera cervantina, ma anche agli altri autori del Siglo de oro sopracitati e, più d’ogni altro, all’aureo, determinante Gracián dell’Oráculo manual y arte de prudencia. L’influenza di questo testo sui “nostri” Aforismi è evidente, pressoché palese. Pare appena il caso di aggiungere che, forse prevenuto dall’insuccesso del Mondo, l’editore Brockhaus rifiutò di stampare la traduzione, che sarebbe uscita soltanto postuma.

 

L’ostilità dell’ambiente universitario, in cui dominavano posizioni hegeliane, scoraggiarono non poco i progetti e le iniziative del nostro autore, sempre più emarginato rispetto alla società intellettuale dell’epoca. In seguito alla scoppio di una epidemia di colera avvenuta a Berlino nell’agosto del 1831, Schopenhauer si rifugiò a Francoforte sul Meno, città nella quale, se si esclude un soggiorno a Mannheim fino alla prima metà del 1833, si stabilirà definitivamente, e che non abbandonerà fino al morte. La vitalità intellettuale che lo contraddistingueva si espresse, in questo periodo, in ricerche sulla filosofia cinese, la letteratura mistica e il magnetismo di cui, peraltro, si trova traccia nel bello scritto apparso nei Parerga. In generale, egli considera verità possibile le manifestazioni relative al magnetismo, alla magia, alla chiaroveggenza dei sogni premonitori, al sonnambulismo e alle visioni degli spiriti: sono infatti da lui definiti metafisica pratica, in quanto si basano sull’onnipotenza, sull’onnipresenza della Volontà. E’ l’inconscio, o meglio la Volontà inconscia ad operare magicamente al di là dei limiti imposti dall’intelletto cosciente, dal principium individuationis, oltre le forme di spazio, tempo e causalità.

 

Il biennio che va dal 1834 al ’36 vede Schopenhauer all’opera su un testo che rappresenta, come recita il sottotitolo, «un’esposizione delle conferme che la filosofia dell’Autore ha ricevuto da parte delle scienze empiriche, dal tempo in cui è comparsa», vale a dire il trattato Sulla volontà nella natura. In esso si ritrovano i suoi studi di medicina, linguistica, astronomia, magnetismo e sinologia, visti alla luce della Volontà, appunto, di questa forza in virtù della quale ogni cosa può esistere e operare. Era stato necessario un silenzio di diciassette anni per ottenere quelle conferme alle sue teorie che voleva dalle scienze empiriche: il tempo della resa dei conti è venuto, amava dire contro i vecchi avversari. La vita francofortese non era aliena da prese di posizione polemiche e originali: egli sosteneva, ad esempio, che la prima edizione della Critica della ragion pura (1781) di Kant fosse migliore rispetto alla successiva (1787), o che si sarebbe dovuto erigere in onore del grande Goethe almeno un busto marmoreo, nella città che gli aveva dato i natali. Nell’anno 1839, venne premiato dalla Reale Società delle Scienze di Norvegia per il suo saggio Sulla libertà del volere umano, e tale riconoscimento può essere considerato il primo segno pubblico e ufficiale dell’interesse per le sue idee, quantunque lo scritto non apporti, a dirla giusta, novità di rilievo all’impalcatura del suo pensiero. Il 17 aprile dello stesso anno, a Jena, muore la madre Johanna.

 

Del 1841 è il volume apparso sotto il titolo I due problemi fondamentali dell’etica, che raccoglie il precedente saggio premiato in Norvegia e un altro intitolato Il fondamento della morale[16], inviato a un concorso indetto dalla Reale Società delle Scienze di Danimarca. Qui l’autore si propose d’illustrare i punti fondamentali della propria riflessione etica, sia servendosi dei materiali ch’era venuto raccogliendo a commento della sua opera maggiore, sia rifondendovi le riflessioni sulla dialettica fra necessità e libertà presenti nello scritto norvegese. Il testo gli consentì di rivolgersi a un pubblico più vasto, nonché di far conoscere i motivi peculiari della propria filosofia alle correnti dominanti della cultura tedesca, che spesso tuttavia si trovavano su posizioni antitetiche. All’ottimismo razionalistico dello storicismo hegeliano egli oppose le dottrine radicalmente pessimistiche de Il mondo, e alle ideologie liberali e ottimistiche, al mito di un progresso infinito e inarrestabile oppose la tragica, feroce concezione di un mondo naturale e sociale signoreggiato da crudeltà ed egoismo. C’era poi, nella letteratura del tempo, specie riguardo ai problemi della morale, un atteggiamento edificante, predicatorio, da sermone insomma, traboccante di pie intenzioni ideologiche, teologiche, o, all’opposto, di fumosi misticismi estetizzanti, che andava, a parer suo, colpito criticamente. Fine primario dello scritto, dice lo stesso autore, era «l’esposizione puramente filosofica – cioè oggettiva, non velata, nuda, indipendente da ogni intenzione positiva, da ogni non dimostrata premessa e quindi da ogni ipostasi metafisica o anche mistica – dell’ultimo fondamento di ogni morale». C’è un’attualità di questo scritto, che è sempre bene riconsiderare e che, non per caso, sarà ripresa da un filosofo a noi assai vicino come Horkheimer. Al solito, il parere della critica non gli fu favorevole: l’accusa era quella di voler sostituire alle morali teologiche un’etica non meno teologica, e di dare una forma, un’idea immobile dell’esperienza religiosa.

 

Che il pensiero di Schopenhauer risenta di una sorta di congiura del silenzio lo rivela un’opera di Friedrich Dorguth dal titolo La falsa radice dell’ideal realismo. Qui la triade formata da Fichte, Schelling ed Hegel viene definita una congrega di cialtroni: comunque stiano le cose, resta il fatto che la spregiudicata, folgorante acutezza dell’atteggiamento critico schopenhaueriano la possiamo verificare ancor oggi…

 

In questo periodo, poi, conobbe Julius Frauenstädt, il fedelissimo fra i suoi allievi, o l’arciapostolo, come viene definito, al quale il filosofo lascerà una cospicua eredità di propri inediti[17]. Il seme del dubbio gettato nel campo dei sistemi filosofici dominanti indusse forse, nel 1844, l’editore Brockhaus ad approntare una seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione. Essa conteneva l’aggiunta di cinquanta capitoli denominati Supplementi, ai quali Schopenhauer lavorava ormai da una decina d’anni. Pure in questo frangente il libro non vendette e venne recepito superficialmente. Nel 1847 uscì poi la seconda edizione del trattato Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente.

 

 I moti rivoluzionari del settembre del 1848 a Francoforte turbarono profondamente il Nostro: temeva che le masse in rivolta potessero prendere il potere, e addirittura offrì il proprio alloggio come baluardo militare all’esercito regio, schierato a sedare le scaramucce scoppiate lungo le strade della città. Sul piano personale, abbiamo l’incontro con un altro dei suoi discepoli prediletti: Adam Ludwig von Doβ; l’anno successivo, invece, muore l’amata sorella Louise Adelaide .

 

Era il novembre 1851 quando vide la luce un’opera alla quale Schopenhauer lavorava già da sei anni: i Parerga e Paralipomena – che potremmo tradurre con “digressioni e integrazioni” –, una raccolta di saggi che ebbe successo sia in patria sia all’estero, e che contribuirà notevolmente all’affermazione del filosofo. All’interno del testo, dotato di una sua autonomia e compiutezza speculativa nonostante l’artificio retorico del titolo, apparvero anche gli Aforismi sulla saggezza del vivere che qui presentiamo. Sull’onda dell’interesse per quest’opera, nel ’54, verrà ristampata una seconda edizione de La volontà della natura. Di questo periodo è il sodalizio con il romanziere Wilhelm Gwinner, che sarà il suo primo biografo ed anche, in quanto avvocato, suo esecutore testamentario.

 

Nel 1858 Schopenhauer aveva settant’anni e una schiera di amici e discepoli intorno a sé. Pur amando, in ambito musicale, Rossini, Mozart e Beethoven, ammirò Wagner, che gli inviò il libretto de L’anello del Nibelungo, e frequentò Martin Emder, Otto Linder, lo scrittore David Asher e il pittore Johann Karl Bähr. Intanto, la seconda edizione del Mondo come volontà e rappresentazione andava rapidamente esaurita in libreria, ed egli trascorreva il suo tempo lavorando molto e leggendo. Il suo regime di vita, alquanto ritirato, comprendeva lunghe passeggiate igieniche in compagnia del fedele cane Atma, parola che significa “Anima” nella filosofia indù. È da collocarsi sempre in questo periodo la lettura delle Operette morali e dei Pensieri di Leopardi, da cui ricavò molto diletto. Va notato tuttavia che considerava l’italiano dell’epoca una lingua affettata e cerimoniosa. Inoltre, s’interessava non senza trasporto delle vicende che avrebbero portato alla formazione dell’Italia unita. Con regolarità quotidiana, era solito prendere i suoi pasti al “Englischer Hof” e leggere giornali stranieri come il Times, nonché riviste scientifiche e letterarie. L’anno successivo, una giovane e bella scultrice di nome Elisabeth Ney si presentò alla sua porta e gli propose la realizzazione di un busto. Vinte le resistenze, il vecchio filosofo si sottopose ad estenuanti sedute.

 

A partire dall’aprile 1860, cominciarono a manifestarsi alcuni non lievi problemi di salute, come difficoltà respiratorie e tachicardia, che lo porteranno ad ammalarsi in modo irreversibile. Durante l’estate, le sue condizioni peggiorarono e il 21 settembre, a seguito di un accesso di polmonite, Arthur Schopenhauer si spense con stoica dignità. Venne seppellito nel cimitero di Francoforte, alla presenza di pochi fedelissimi.

 

Se si passano in rassegna le molte testimonianze delle persone che lo hanno conosciuto, Schopenhauer potrebbe apparire un pazzo bello e buono, un carattere dannatamente intrattabile, sempre pronto alla polemica, all’offesa, alla violenza verbale: in effetti, non perdeva occasione per gettare giudizi irriguardosi contro tutto e tutti… Nondimeno, al di là di questi umori mefistofelici, sapeva anche essere spiritoso, arguto, sensibile, tenero. Aveva molta stima degli inglesi e, in certi momenti, si vergognava d’essere tedesco.

 

Passeggiando con un amico, pare che il Nostro abbia detto una volta: «La maggior parte dei libri saranno dimenticati. Impressione duratura la fanno solo quelli in cui l’autore ha messo tutto se stesso. In tutte le grandi opere si ritrova l’autore tutto intero. Nella mia opera ci sono tutto intero io stesso. Bisogna assolutamente farsi martire della propria causa, come ho fatto io»[18]. Ecco, forse proprio in questa convergenza fra il particolare della sua vita e l’universale della sua originalissima poiesi risiede il genio di Schopenhauer, il suo valore assoluto. Certo, la storia non è finita e ancora non possiamo legittimamente pronunciarci sulla Verità, ma il sacrificio di sé che ci suggeriscono, pur con sapiente misura, anche questi Aforismi appare davvero quel terreno solido, o quell’oceano sconfinato, su cui da millenni, tra l’altro, s’incontrano e si scontrano Oriente e Occidente, mirando a un riconoscimento reciproco.

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

1. Opere di Schopenhauer pubblicate in vita

 

Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (titolo originale: Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde), 1813.

 

Sulla vista e i colori (titolo originale: Über das Sehen und die Farben), 1816.

 

Il mondo come volontà e come rappresentazione (titolo originale: Die Welt als Wille und Vorstellung), 1818-1819; secondo volume, 1844.

 

Sul volere nella natura (titolo originale: Über den Willen in der Natur), 1836.

 

Sulla libertà del volere umano (titolo originale: Über die Freiheit des menschlichen Willens), 1839.

 

Sul fondamento della morale (titolo originale: Über die Grundlage der Moral), 1840.

 

Parerga e paralipomena (titolo originale: Parerga und Paralipomena), 1851.

 

 

 

2. Opere di Schopenhauer in traduzione italiana:

 

Il mondo come volontà e rappresentazione, Mursia, Milano, 1969.

 

Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano, 1981.   

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione, A. Mondadori, Milano, 1989.

 

 L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano, 1991.

 

 La filosofia delle università, Adelphi, Milano, 1992.

 

 Aforismi per una vita saggia, BUR, Milano, 1993.

 

 Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, Adelphi, Milano, 1993.

 

 La saggezza della vita, Newton Compton, Roma, 1994.

 

 Colloqui, BUR, Milano, 1995.

 

 Scritti postumi. Vol. 1: I manoscritti giovanili (1804-1818), Adelphi, Milano, 1996.

 

 L’arte di essere felici, Adelphi, Milano,1997.

 

 L’arte di farsi rispettare, Adelphi, Milano, 1998.

 

 L’arte di insultare, Adelphi, Milano, 1999.

 

 Sulla quadruplice radice del principio ragionato, BUR, Milano, 2000.

 

O si pensa o si crede. Scritti sulla religione, BUR, Milano, 2000.

 

La volontà della natura, Laterza, Roma-Bari, 2000.

 

L’arte di trattare le donne, Adelphi, Milano, 2000.

 

 Il primato della volontà, Adelphi Milano, 2002.

 

 L’arte di conoscere se stessi, Adelphi, Milano, 2003.

 

 Scritti postumi. Vol. 3: I manoscritti berlinesi (1818-1830), Adelphi, Milano, 2004.

 

Il fondamento della morale, Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

L’arte di invecchiare ovvero Senilia, Adelphi, Milano, 2006.

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari, 2006.

 

 Il mondo come volontà e rappresentazione. Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano, 2006.

 

 Il mio oriente, Adelphi, Milano, 2007.

 

 

 

3. Studi in volume su Schopenhauer disponibili in lingua italiana

 

A. Bellingreri, La metafisica tragica di Schopenhauer, Franco Angeli, Milano, 1992.

 

F. Bolognesi, La vera dottrina dell’amore di Schopenhauer, Ubaldini, Roma, 1969.

 

L. Casini, Schopenhauer. Il silenzio del sacro, EMP, Milano, 2004.

 

F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi e altri saggi leopardiani, Ibis, Como-Pavia, 1992

 

A. Hübscher, Arthur Schopenhauer: un filosofo controcorrente, Mursia, Milano, 1990.

 

G. Gurisatti, Schopenhauer, maestro di saggezza, Colla, Vicenza, 2007.

 

G. Invernizzi, Invito al pensiero di Schopenhauer, Mursia, Milano, 1995.

 

P. Martinetti, Schopenhauer, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2005.

 

F. Mei, Etica e politica in Schopenhauer, Cedam, Padova, 1958.

 

F. Nietzsche, Schopenhauer come educatore (1874), a cura di M. Montinari, Adelphi, Milano, 1985.

 

G. Penzo (a cura di), Schopenhauer e il sacro, EDB, Bologna, 1987.

 

G. Riconda, Schopenhauer interprete dell’occidente, Mursia, Milano, 1969.

 

R. Safranski, Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia, Longanesi, Milano, 2004.

 

E. Sans, Schopenhauer, Xenia, Milano, 1999.

 

F. Savater, Filosofia come accademia. Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, de Unamuno, Il Nuovo Melangolo, Genova,1984.

 

I. Vecchiotti, La dottrina di Schopenhauer, Marzorati, Milano 1966.

 

Id., Introduzione a Schopenhauer, Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

A. Verrecchia, Schopenhauer e la Vispa Teresa. L’Italia, le donne, le avventure, Donzelli, Roma, 2006.

 

A. Vigorelli, Il riso e il pianto. Introduzione a Schopenhauer, Guerini e Associati, Milano,1998.

 

P. Vincieri, Discordia e destino in Schopenhauer, Il Nuovo Melangolo, Genova, 1998.

 

 

 

[1] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 1988, ma anche, dello stesso autore, Che cos’è la filosofia antica, Einaudi, Torino, 1998, e La filosofia come modo di vivere, Aragno, Torino, 2005.

 

[2] Cfr. Arthur Schopenhauer,Scritti postumi. Vol. 1: I manoscritti giovanili (1804-1818), a cura di S. Barbera, Adelphi, Milano, 1996.

 

[3] Ivi, p. 168.

 

[4] Arthur Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, a cura di Mario Carpitella, Adelphi, Milano, 2003, vol. 2, Osservazioni psicologiche, p. 813.

 

[5] Possiamo tradurre genericamente queste parole chiave, rispettivamente, con Legge e Natura.

 

[6] Giorgio Colli, Prefazione a Parerga e Paralipomena, cit., vol. 1, p. 9.

 

[7] Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di Giuseppe Riconda, Mursia, Milano 1969 p. 202

 

[8] Ibidem p.77

 

[9] Arthur Schopenhauer, Il mio oriente, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2007, p. 28.

 

[10] Cfr. Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore, Adelphi, Milano, 1972.

 

[11] Molto interessante nel volume citato sopra, che raccoglie gli scritti sull’Oriente di Schopenhauer, è dare un’occhiata all’elenco dei testi di argomento orientale presenti nella sua biblioteca, che fu stilato alla sua morte. Anche se tale catalogo non esaurisce le letture effettivamente svolte, siamo comunque di fronte a un novero di scritti consistente, che delinea la vastità dei suoi interessi in questo campo.

 

[12] Il mio oriente, cit. p. 30.

 

[13] L’accordo preso con l’editore Fleischer, forse a causa delle condizioni poste dal nostro filosofo, fallì, e la traduzione tedesca dell’opera fu edita postuma per la cura dell’allievo Frauenstädt, presso l’editore Brockhaus di Lipsia, nel 1862.

 

[14] Si veda, in particolare, l’introduzione ad Arthur Schopenhauer, L’arte di essere felici, Milano, Adelphi, 1997, p. 20, e, in generale, la meritoria edizione degli inediti avviata dalla Adelphi.

 

[15] Cfr. Pierre Courcelle, Conosci te stesso. Da Socrate a San Bernardo, Presentazione di Giovanni Reale, Vita e pensiero, Milano, 2001.

 

[16] Arthur Schopenhauer, Il fondamento della morale. Introduzione di Cesare Vasoli. Traduzione di Ervinio Pocar. Laterza, Roma-Bari, 2005.

 

[17] La migliore edizione degli scritti postumi di Schopenhauer è quella a cura di Arthur Hübscher: Der handschriftlische Nachlaβ, 5 voll. in 6 tomi, Kramer, Frankfurt a. M., 1966-1975. L’edizione italiana di riferimento è quella diretta da Franco Volpi: Scritti postumi, Adelphi, Milano, 1996-

 

[18] Arthur Schopenhauer, Colloqui, cit., p. 190.

 

 

 

 

 

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RISONANZE GADDIANE

 

 

 

Mauro Conti

 

 

 

Bologna

 

 

 

 

 

Mi sono soffermato a lungo, ier sera, sfogliando un catalogo dei dipinti del Van Eyck, sul ritratto del cardinale Albergati. Si tratta di un olio su tavola, della misura originale di circa 34 cm x 27 cm, databile attorno al 1438, molto ben fatto dal punto di vista dell’esecuzione e assai espressivo dell’individualità lucida e, al contempo, problematica, prima di Guicciardini, del cardinale toscano, il quale venne mandato ad Arras a mediare tra Filippo il Buono ed il re di Francia Carlo VII per porre fine alla guerra scoppiata in seguito all’assassinio di Filippo l’Ardito.

 

 

 

La mia riflessione, attraversato un primo momento di assorbimento empatico dovuto alla bellezza del dipinto, nasceva dalla convinzione che, in fondo, se oggi uno andasse con la macchina fotografica in giro per i caffé, per le piazze della pianura padana o, anche, dei centri toscani, non avrebbe difficoltà a trovare un volto simile, una faccia con gli stessi caratteri somatici dipinti dal fiammingo. Certo, si sa che variazioni significative del nostro patrimonio genetico, sia sul piano della filogenesi come quello dell’ontogenesi, vanno ben oltre i pochi secoli che ci separano dal periodo in cui l’Albergati visse, ma io trovo sempre stupefacente questa vicinanza col passato, la sequenzialità sincretica della storia che si spinge fin nelle pieghe del presente, della nostra memoria e che non ci fa sentire isole isolate nel gran mare dell’esistenza. Insomma, se ben si guarda, pur ammettendo che con le analogie non si costruiscono buone ipotesi storico scientifiche, anche dal punto di vista culturale, la distanza che ci separa da quella dimensione non appare così incolmabile come si potrebbe credere.

 

 

 

Preliminare ad ogni percorso, sia storico che letterario, mi pare sia proprio il tempo, il dialogo fra generazioni, l’attualità dell’opera di Gadda. Occorre collocare Gadda proprio qui, tra di noi, nei labirinti del nostro vissuto, nelle pianure, a volte noiose e assolate, del nostro ragionare; del resto come negare che, se non nei caffé, dato, per altro, il suo carattere schivo, tormentato, umbratile, Gadda  sia attualità vivente e circoli ancora nei nostri pensieri, nelle nostre idee e come un fantasma agiti i tumulti del nostro animo, o le rabbie improvvise per certa imperizia tipicamente italica.

 

Sebbene non sia sempre corretto stabilire una connessione diretta tra biografia ed opera di un autore, - sarebbe un segno di determinismo interpretativo che non corrisponde alla realtà dell’atto creativo, il quale certo attinge dall’esperienza individuale ma anche da chissà quali altre fonti ed istanze che vanno oltre la contingenza storica localizzata - un certo rilievo al contesto storico e culturale affascina sempre ed è indubbia la sua utilità funzionale alla didattica di un autore. Di Gadda, della sua esperienza di soldato, delle sue vicende familiari, del suo essere scrittore ingegnere, della sua simpatia non si sa molto e, certamente, conoscerne i termini potrebbe favorire quella accessibilità all’opera che pare, al contrario, preclusa dalle asperità della sua lingua. Ma al di là dell’orizzonte individuale io credo che uno scrittore vada interpretato soprattutto in relazione alla sua opera, alla concretezza della sua pagina; insomma, una ermeneutica pragmatica che individua nel tessuto verbale il suo preciso luogo di dialogo e di confronto, una conversazione con la parola e le sue architetture narrative che si apre alla costruzione del senso in un dialogo libero da pregiudizi e, per quanto possibile, immediato. Lo studio della Letteratura potrebbe recuperare queste sue caratteristiche fondative: la fascinazione della parola narrata e letta ad alta voce, l’empatia indotta da un certo uso del lessico, da una certa configurazione immaginale; l’atto letterario che rappresenta una apertura e non una contrazione dell’esperienza del mondo. Certo, poi, ci sono le categorie critiche del leggere, le non meno importanti strutture e forme del letterario, la stilistica, la metrica, la retorica, la storia delle idee le quali devono avere un peso nel nostro operare e devono costituire importanti punti di riferimento, in modo da definire la curiosità, il cercare, una euristica, come se il leggere, la ricezione del testo nell’atto attualizzante della lettura chiarisse al contempo il modo in cui avvicinarlo. Modi e procedimenti che variano a seconda della varietà dei lettori evidentemente, e modi e procedimenti che si sono consolidati e definiti nel corso della storia.

 

 

 

 Uno dei temi critici fondamentali riguarda la lingua: si attribuisce all’autore una aristocraticità, una oscurità elaborata di figure retoriche che tendono alla perfezione formale; con ciò giustificando l’ostilità ed il desiderio di non leggerlo che assale sempre le anime fiacche. Alla base delle scelte stilistiche di Gadda c’è piuttosto una necessità, una intuizione, l’imposizione della passione del momento, il bisogno di cogliere le persone e le cose nelle infinite relazioni che convergono su di esse, siano passate, future, possibili o reali. Gli oggetti sono punti da cui partono raggi infiniti, luoghi verso cui convergono infinite relazioni. In questo senso nominare, descrivere, percepire la contingenza e realizzarla in scrittura, obbedisce ad una sorta di approfondimento conoscitivo, ad una necessità che registra la forma geometrica degli oggetti nella loro differenziata molteplicità.  Un sintagma, un vocabolo ha il compito di rispecchiare l’incessante molteplicità di rapporti in cui si articola l’organicità della vita. L’atto del conoscere, e l’atto dello scrivere può definirsi tale, è dunque un inserire alcunché nel reale, è un deformare il reale, è stabilire una relazione che significa reciproco condizionamento. Così, se leggere è conoscere e conoscere è deformare, formare, costruire, decostruire il reale, allora leggere significa anche attuarsi nella contingenza, attualizzare il reale nel suo momento necessario o nella sua intuizione. Gadda usa stilemi come “ raggiunti a volte dall’orror giallo e feroce delle cose furibonde “ oppure “la chiarità dell’estate infarinava le bianche miglia… ” in cui il sostantivo astratto ha lo scopo di sorprendere l’attimo del processo percettivo, essenziale ai fini della conoscenza, in cui la realtà appare come mutamento, deformazione e le cose, come nei poeti simbolisti di fine ottocento, accettano di rivelare all’io il segreto del loro farsi. Dice Gadda nella Meditazione Milanese: “Prima che le cose siano, esiste un quid morfologico che è loro comune, che consente loro di sporgersi verso l’abisso pauroso: ivi, in un attimo magico, il molteplice identico si determina e insieme si differenzia. “.

 

 

 

Un’altra caratteristica dello stile gaddiano che si ricollega a questo operare è l’uso del infinito sostantivato al posto del nome come in “ e adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri” . Le parole sono come dei momenti pausa d’un flusso espressivo e conoscitivo e quasi si spogliano del loro uso imitativo solito per cercare nella deformazione una modalità nuova, una tensione percettiva rivelante. E’ in questo senso che la critica e lo stesso Gadda hanno parlato di un uso spastico della lingua, di una duttile rappresentazione del modificarsi della percezione e del dato; e in questo senso che va intesa la ricerca di dissoluzione e rinnovazione del valore linguistico caratteristica della poetica gaddiana. Evidentemente qui si trova l’ espressionismo naturalistico osservato da Contini, perché c’è una esigenza di rapidità, di tensione estrema, di simultaneità, uno sforzo per rappresentare le interdipendenze di ciò che si contempla come in certa arte tedesca del primo novecento. Soggetto e oggetto, nell’esistere, mutano continuamente: l’espressione cerca di cogliere questa tensione, questa deformazione della realtà. Queste definizioni paiono caratteristiche della lingua gaddiana e potrebbero quindi trovare rispondenza sia sulla pagina dei più celebri romanzi che su quella dei testi cosiddetti minori. Un altro topos della sua prosa è la passione per l’enumerazione: quasi un genere letterario. L’enumerazione è il mezzo più adeguato per esprimere il caotico e precario convergere di interessi e cose; è il gioco combinatorio del caso tradotto in gioco verbale e questa convergenza è il risultato di una serie di cause la cui consecuzione deve essere analizzata. Celebre al riguardo la pagina del Pasticciaccio con la descrizione oggettiva e meticolosa del cadavere di Liliana assassinata o la fissazione del commissario Ingravallo che è così tipica e consiste nel risalire il deflusso delle significazioni e delle cause: "…a poco a poco, ricostruendo dai dati le loro cause, le loro connessioni, ricollocando in ordine certi fatti solo in apparenza disgiunti, avvicinando nomi e volti, venni a confermarmi nella mia titubante nozione, a integrarla in una storia… "

 

 

 

Ma l’enumerazione, che è uno schema interpretativo del reale, non si snoda solo orizzontalmente, ma anche verticalmente, su diversi piani diacronici. C’è la preoccupazione di organizzare i dati dell’esperienza in serie causali, di indagare la causa efficiente, sia in senso biologico che spirituale, della creatura umana. Non un semplice accostamento per asindeton però, perché le cause sono molteplici e concorrono sempre più ragioni a determinare i fatti e le cose. Il celebre inizio del Pasticciaccio illustra al meglio il nostro discorso; con ciò Gadda non recupera il determinismo positivistico, perché il metodo ha solo una funzione strumentale ed euristica, ed il giudizio si basa anche su altre norme, dirà in un punto del Giornale di Guerra e di Prigionia. E, del resto, anche nei processi genetici si esprime una continuità che non è solo meccanicisticamente biologica, ma il segno di una misteriosa trasmissione, di un ininterrotto procedere verso una imprevedibile meta. La continuità, il non seguire il movimento della vita nel fatale succedersi delle generazioni è il vero dramma sia di Liliana nel Pasticciaccio, che di Gonzalo nella Cognizione del Dolore. Il reale è frutto di un incessante processo di sperimentazione: “Il raro fiore dell’evento - dice Gadda ne i Viaggi e la Morte – nasce da una molteplicità di tentativi e da un rinnovarsi di prove, come l’unicità pura d’un cristallo da una più vasta presenza della sua materia nella memoria delle rocce.”

 

 

 

Il reale consiste in una provvisoria complementarietà di concause e l’istinto di combinazione è legge dell’universo. Sul piano narrativo e stilistico ciò significa il superamento del naturalismo ed il passaggio a una scrittura che lo stesso autore definisce Barocca. Se il reale è prodotto di innumerevoli combinazioni allora esso può essere definito solamente da una lingua mobile, spastica, infinitamente allusiva. Occorre rispecchiare il dramma continuo della convergenza e della disgregazione che caratterizza la vita, occorre rappresentare la realtà degli elementi esplosi che talora perdono di vista il nesso unitario. In questa direzione ci sono delle pagine magnifiche nelle Meraviglie d’Italia, che presentano pezzi-inchiesta su luoghi, come il Mercato, La Borsa, Il Macello, etc… indicati come simboli che riflettono il meccanismo combinatorio, la plurale, multidirezionale rappresentazione delle possibilità della combinazione. Un altro luogo emblematico, ad esempio è l’antro laboratorio della Zamira, nel Pasticciaccio: “ Un punto d’incontro dei vitali compossibili (compossibles è voce leibniziana ): magia, maglieria, sartoria, pantaloneria, vino de li Castelli e de Bitonto…”. La vita come una virtualità che si attua e la morte invece come “ una discongiuntura o spegnimento d’ogni accozzo di possibilità” o, secondo Ingravallo, “ una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. Come il risolversi d’una unità che non ce la fa più ad essere e ad operare come tale, nella caduta improvvisa dei rapporti, d’ogni rapporto con la realtà sistematrice.” Certo, nulla di nuovo, la vecchia teoria aristotelica della corruzione e della generazione su cui si innestano i principi della scienza combinatoria appresi da Leibnitz e anche la genetica mendeliana, ma almeno una concettualizzazione moderna che consente una riflessione sulla tecnica compositiva e  sulla poetica.

 

 

 

In Gadda inoltre è sempre molto forte l’esigenza di una rappresentazione oggettiva ed esauriente della realtà nel sue strutture e deformazioni logiche, nelle sue combinazioni anche se queste possono apparire dei nonsense; e scrivere significa esplorare il differenziale semantico delle idee, delle immagini mentali, delle rappresentazioni in cerca di una combinazione possibile. Le parole dunque, come le cose, sono centri dinamici e provvisori di molteplici relazioni ed il linguaggio promuove una creazione logica attraverso l’interdipendenza, la permutabilità, degli elementi che lo compongono. Ecco forse è questo il senso dell’enumerazione gaddiana: esplorare gli elementi che compongono il gran teatro del mondo, per usare una metafora secentesca, al fine di controllare tutte le cose, omnia circumspicere, come il mito cinquecentesco della enciclopedia o come la mente di Dio. Andare verso una cultura che abbracci la totalità delle discipline, delle cognizioni al fine di costruire una sinossi del sapere che tenga presente anche tutti i dati dell’esperienza. Nella moltitudine dei rapporti e delle cause bisogna ricercare la ragione dei fatti; a ciò forse è riferibile anche la polemica per l’imperizia dei generali italiani in occasione della condotta della Grande Guerra, venata dal segreto risentimento di un uomo che comunque, anche in tarda età, non disconoscerà le ragioni del suo interventismo. Le cause delle sventure degli italiani non sono profonde ed indecifrabili ma sono il frutto di imprevidenza ed avventatezza; occorre affinare l’analisi, recuperando quasi una sorta di ortodossia positivistica. I dati ed i fatti dell’esperienza vanno inseriti nel quadro di un’analisi dei tempi lunghi e non sono semplice cronaca di superficie o la chiacchiera retorica di certa storiografia. In quest’ottica forse possono essere viste quelle amplificazioni dell’orizzonte a dimensioni cosmiche caratteristico di certi racconti e romanzi o quei personaggi, come nelle Meraviglie d’Italia, che vengono rappresentati immersi nella “salamoia gravitazionale” ed in un tempo geologico, astronomico. Anzi, nella Cognizione del dolore, la tematica e la simbologia astrale hanno un ruolo determinante.

 

“Ma che cosa era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio. Ella ne conosceva le dimensioni e l’intrinseco, la distanza dalla terra, dai rimanenti pianeti tutti: e il loro andare e rivolvere; molte cose aveva imparato e insegnato: e i matemi e le quadrature di Keplero che perseguono nella vacuità degli spazi senza senso l’ellisse del nostro disperato dolore”.

 

 

    Qui ci sono anche i temi della solitudine dell’uomo nelle infinità della spazio e l’idea della rivoluzione degli astri che scandiscono il tempo del mondo. La nostra vita è in simbiosi con quella dell’universo, anche se il nostro non è certo un universo alchemico. Ecco, il gioco del raziocinare, la ricerca della totalità delle cause postulatrici, è quello di denunciare e irridere le sbrigative connessioni di cui si appaga la logica comune, proponendo nuovi allacciamenti, nuove sintesi. E tuttavia la ricerca delle cause, l’analisi dei dettagli rischia di imprigionare non la verità ma lo scrupoloso investigatore che la inseguiva nei dettagli, nei particolari. “L’ordine - disse Gadda di sé – lo spirito meticolosamente analitico di un organizzatore di servizi tecnici, la precisione del nevrastenico che chiude tutto a chiave in bell’ordine e poi non riesce più a trovar quel che cerca e confonde le chiavi e i lucchetti e le chiavi delle chiavi, il sordo livore del domenicano contro la gazzarra senza senso contraddistinguono la mia persona”. Siamo dunque di fronte alla impossibilità di un ordine, immersi in un groviglio conoscitivo, in un reale refrattario a ogni sistemazione: “… il pasticcio e il disordine mi annientano. Io non posso fare qualcosa, sia pure leggere un romanzo, se intorno a me non v’è ordine. Ho qui tanta roba da vivere come un signore: macchina fotografica, liquori, oggetti da toilette, biancheria: e non mi lavo mai neppure le mani e non bevo neppure un sorso di grappa per non scomporre la disposizione della catinella di gomma e degli altri oggetti disposti sul fondo d’una cassa di legno, da birra. Le sgocciolature di stanotte nell’interno del mio baracchino mi hanno demolito quel residuo di forza volitiva che mi rimaneva. Io che mi sono immerso con gioia nelle bufere di neve sull’Adamello, perché esse bufere erano nell’ordine naturale delle cose e io in loro ero al mio posto, io sono atterrito al pensiero che il soffitto del mio abituro sgocciola sulle mie gambe: perché quella porca ruffiana acqua li è fuor di luogo, non dovrebbe esserci: perché lo scopo del baracchino è appunto quello di ripararmi dalle fucilate e dalla pioggia. Sicché per non morir nevrastenico, mi do all’apatia…”.

 

    

 

    Insomma, il groviglio come convergere ed intrecciarsi di relazioni diverse da cui scaturisce un evento, un oggetto. Se non si vuole cedere alla faciloneria retorica, al calderone comunicativo che tanto contrista il nostro presente e che, magari, a livello didattico protesta contro la difficoltà dei testi, allora bisogna riconoscere che Gadda ha individuato uno dei caratteri principali del pensare, uno dei momenti e modi del divenire reale, e compito dell’uomo,  è cogliere codesto aspetto problematico dell’essere senza infingimenti o banalizzanti, pasticcianti mediazioni. La letteratura, ricorda lo scrittore, è un indefettibile strumento per la scoperta e la enunciazione della verità; è ricerca del particolare, è costruzione del diverso, del difforme. Quando si analizza un testo gaddiano occorre una apertura dialogante, una disponibilità teoretica e metodologica perché tale è la ricerca gnoseologica della sua parola, perché multidirezionale è la realtà espressiva cui si riferisce. Aver affermato la storicità dell’io, e la relatività dell’oggetto vuol anche dire considerare la lingua in codesta prospettiva. Così il romanzo, così le parole, i vocaboli, risonanti di elazioni infinite, di molteplici significati.

 

 

 

    Richiesto, in un intervista televisiva, della prediletta tra le sue creazioni artistiche, Gadda rispose: La Cognizione; così la sorella Clara. Chi l’ha conosciuto, come Roscioni, sembra quasi dire che l’opera non è stata creata, ma si è fatta da sé, talmente vasta è la molteplicità di immagini e particolari che Gadda prende dal proprio vissuto autobiografico e famigliare. Potrebbe essere l’oggetto ideale di una critica delle fonti di stampo ottocentesco, la ricerca delle corrispondenze tra finzione e realtà in Gadda. Da notare che Gadda usava quasi come sinonimi le parole costruire, inventare, scrivere, creare un testo letterario. Ma tuttavia, oltre questo esercizio critico, bisogna dire che forse non c’è scrittore italico, del secolo scorso almeno, che sia stato capace di fare del proprio mondo interiore una sorta di universale elegia domestica, della singola esperienza affettiva un riflesso mitico, una valenza archetipica, che si apre ad abbracciare le architetture fluide dell’immaginario umano. Certo, è della Letteratura questo carattere, dell’Arte e della Scienza, ma ci si lasci per un attimo nell’illusione che la commozione, che ogni volta ci prende quando rileggiamo questo romanzo, sia imputabile ad un autore, uno scrittore in carne e ossa, ad un signore come quell’Albergati che, all’inizio del nostro lavoro, ci è parso aggirarsi tra le piazze della pianura padana, di nome Carlo Emilio Gadda.

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

Opere di Carlo Emilio Gadda,  a cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 1989

 

Gian Carlo Roscioni, La disarmonia prestabilita, Torino, Einaudi 1969

 

Ezio Raimondi, Barocco moderno, Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, Milano, Bruno Mondadori, 2003

 

Ezio Raimondi, Novecento e dopo, Considerazioni su un secolo di Letteratura, Carocci editore, Roma, 2003

 

Mauro Bersani, Gadda, Torino, Einaudi 2003, con videocassetta con le immagini e la voce dello scrittore per la regia di Antonella Zechini a cura di Rai International.

 

Gian Carlo Roscioni, Il duca di Sant’Aquila, Infanzia e giovinezza di Carlo Emilio Gadda, Milano, Mondadori 1997

 

Carlo Emilio Gadda, Per favore mi lasci nell’ombra, Interviste 1950-1972  Milano, Adelphi 1993

 

Piero Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Milano, Pan Editore, 1974

 

Carlo Emilio Gadda, Lettere a una Gentile Signora, Milano, Adelphi, 1983

 

Arnaldo Ceccaroni, Leggere Gadda, Antologia della critica gaddiana, Bologna Zanichelli, 1978

 

Su web, il sito dell’Università di Edimburgo per il suo Journal of Gadda Studies:

 

The Edinburgh Journal of Gadda Studies

Ci sono dei testi nella storia dell’umanità che non hanno smesso di far risuonare la loro voce nonostante il tempo che ci separa dalla loro genesi abbia come depositato un sedimento isolante. Ci sono degli autori il cui magistero non è mai venuto meno nonostante il succedersi delle generazioni e diverse condizioni ambientali abbiano occluso la nostra capacità di ascoltarli. Uno di questi testi è certamente L’Arte della Guerra,  ossia Bingfa, e l’autore è Sun Tzu[1].

Non si sa molto sulla vita di Sun Tzu. Maestro Sun, come si direbbe secondo il significato letterale, non sarebbe che l’appellativo di un personaggio di nome Sun Wu, nato nello Stato di Qi ed operante nei territori sudorientali dello Stato di Wu verso la fine del VI secolo a.C.[2] Ad aumentare l’indeterminatezza c’è poi il fatto che non si sa se Sun Tzu abbia scritto direttamente l’opera, in quanto molti dei riferimenti testuali in essa presenti[3] sarebbero da riportare ad un periodo recentiore, vale a dire ad un periodo compreso tra il 400 ed il 320 a.C., cioè al periodo cosiddetto degli Stati Combattenti[4], secondo la datazione proposta dal Griffith[5].

Sima Qian, il grande storico della Cina antica vissuto tra il primo ed il secondo secolo avanti Cristo ed autore delle Memorie Storiche, riferisce un aneddoto a proposito della vita di Sun Wu: in occasione di un’ udienza presso il Sovrano, gli fu chiesto di mettere alla prova la sua abilità di comandante formando un esercito con le dame e le concubine di corte. Poiché i suoi sforzi per disciplinare una simile truppa non portavano ad alcun risultato e gli ordini non causavano che ilarità, Sun Wu comandò di decapitare le donne che svolgevano il ruolo di ufficiali. Il Sovrano teneva molto alle sue donne e desiderava che fossero risparmiate, ma Sun Wu fu irremovibile e replicò che il Comandante in campo non era tenuto ad obbedire ai suoi ordini. Procedette quindi alla esecuzione delle ribelli e poi si congedò presentando al Sovrano un esercito a questo punto perfettamente addestrato e pronto alla battaglia. Sun Wu, allontanandosi, commentò con disprezzo  il dolore del Sovrano dicendo che il suo Signore  preferiva le parole ai fatti[6]. Richiamato, il Maestro fu poi nominato Generale comandante e sconfisse gli stati di Chu, Qi e Jin acquistando grande reputazione.

Reale od immaginario che sia codesto episodio - difficile, infatti, pensare che un umile funzionario abbia potuto permettersi di trattare un Sovrano con tanta supponenza -  ci pare utile considerarlo, come lo storico Sima Qian, indizio dell’importanza del testo e di una teoria che ha prodotto una grande influenza nelle generazioni a venire. Infatti, fin dall’inizio, l’opera ebbe l’intento di fornire un manuale pratico ad uso degli ambienti militari e diplomatici di corte, e la sua circolazione avvenne per vie riservate e attraverso variabili testuali che interpretarono il testo e lo rimaneggiarono in modo che la stessa idea di un autografo de L’Arte della Guerra pare difficile da considerare[7]. Ad ogni modo, la tradizione del testo, anche dopo una recente scoperta archeologica (1972) avvenuta in una tomba della dinastia Han[8], pare essersi attestata su un dettato che possiede una certa compattezza stilistica, e anche una certa coerenza concettuale, la quale, per altro, non è poi troppo dissimile dalla versione del sinologo inglese Lionel Giles nel 1910 che qui, tradotta, presentiamo.

 

Nel lavoro di Maestro Sun confluisce un patrimonio di esperienze storiche, politiche e militari che addirittura si può far risalire alla leggendaria Dinastia Hsia regnante sul territorio cinese tra il 2000 a. C. ed il 1520 a.C. così come un’intera tradizione culturale che ha nel Taoismo e nel Confucianesimo i suoi affluenti più direttamente verificabili. Se le coordinate temporali indicate dal Griffith sono corrette, con il Bingfa ci troviamo nel periodo degli Stati Combattenti, tra il 453 a.C. ed il 221 a.C., cioè il periodo successivo a quello delle Primavere e degli Autunni, 722 a. C.- 418 a.C., che ha visto all’opera, appunto, Lao Tzu, autore del Tao Tě Ching[9], e Kongfuzi[10], noto in occidente come Confucio, per non dimenticare un libro di “divinazione” di epoca Shang, lo Yijing, meglio conosciuto come I King, Libro dei mutamenti, che lo stesso Confucio dichiarava di non stancarsi di studiare[11]. La Cina è smembrata in una serie di Chan-Kuo, di Stati Combattenti.
La scena politica del periodo vide un consolidamento del potere centrale dei sovrani di Chou i quali cominciarono a fare sempre più affidamento su esperti di professione per realizzare le loro mire di unificazione. In questo contesto, probabilmente, crebbe l’esperienza e la fama di Maestro Sun che, si dice, ascese ai più alti gradi della classe militare pur essendo di umili origini. I maestri insegnavano ai loro discepoli le arti del governo, della strategia e della diplomazia, mentre le rivalità tra gli stati si intensificavano. Il sistema della coscrizione militare obbligatoria divenne pratica comune e, dal V sec. a.C., avvenne un importante cambiamento nel modo di combattere le battaglie con l’uso della cavalleria. Nonostante l’intensificarsi delle rivalità, il periodo degli Stati Combattenti conobbe una relativa progressione economica e ciò sarebbe confermato anche da recenti scoperte di monete in bronzo, opera del conio di tutti e sette gli stati maggiori[12].

 

Conviene a questo punto scorrere i capitoli dell’Arte della Guerra in modo da delinearne una idea panoramica come introduzione alla lettura; dopo di che ci rivolgeremo alle possibili fonti e, di conseguenza, alle possibili influenze del testo, la cui traccia sembra aver lasciato un segno nella memoria degli scrittori e dei pensatori successivi. Resta inteso che l’atto del leggere è come la messa in scena di un’opera di cui siamo al contempo registi, interpreti e spettatori e, pertanto, non c’è commento che possa eguagliare la bellezza spirituale di un’esecuzione nell’eventualità creatrice e contemplativa del soggetto.

Il primo capitolo concerne le valutazioni di base relative ai piani strategici, cioè la conoscenza approfondita della strategia globale, i fondamenti entro cui si esplica l’azione bellica. La guerra è di vitale importanza per lo Stato e bisogna prepararsi ad essa in modo rigoroso. I fondamenti della guerra sono nel Tao, la Via; nel Cielo, il fattore climatico, atmosferico; nella Terra, il fattore morfologico; nel Comando e nella Dottrina, cioè, in primo luogo, nella virtù della conoscenza e della capacità di  valutazione di colui che svolge le funzioni di Comandante; poi la corretta comprensione dei problemi pratici e logistici che ogni azione comporta. Il Generale è un uomo saggio e possiede la virtù dell’attenzione, dell’ascolto[13]. Quindi due concetti molto importanti: la condotta della guerra si fonda sempre sull’inganno e sulla dissimulazione[14]. Per vincere occorre fare considerazioni molto approfondite: è un “gioco” che coinvolge la vita dell’individuo, di una comunità e la poca riflessione porta alla sconfitta. Bisogna andare oltre ogni ingenua considerazione moralistica nelle faccende della guerra; la considerazione della divisione tra morale e politica di machiavellica memoria pare ricongiungersi su questa traccia.

Con il secondo capitolo entriamo in medias res: cosa significa combattere la guerra, quali sono i costi delle operazioni belliche? Una guerra prolungata è dannosa per lo Stato, per il popolo, per il Comandante; forze incontrollate, forse loschi intrighi di corte che Giles definisce deamons, ma il cui significato pare, se possibile, più ampio, potrebbero inserirsi nel conflitto a far fallire i nostri piani. Il conflitto, pertanto, deve svolgersi rapidamente[15]. Anche perché i costi di un conflitto protratto a lungo non sono solo di carattere sociale, economico, politico, ma anche di ordine psicologico. C’è una sorta di logorio della guerra per il quale urgono prevenzioni psicologiche, sostegni, incitamenti, ricompense. Per quanto riguarda la logistica, un altro concetto importante: le vettovaglie devono essere reperite nel territorio nemico[16].

Il terzo capitolo riguarda la strategia d’attacco. Quali sono gli obiettivi dello stratega? In primo luogo importa vanificare i piani del nemico, poi comprometterne le alleanze, quindi catturarne le forze. Ma la vera abilità dello stratega consiste nel piegare le forze avversarie senza combattere, quasi senza dispiego di energia, senza assalti, senza lunghe spedizioni militari. Qui risiede il genio della strategia offensiva, qui l’umano sublima se stesso[17], si può forse dire. Non bisogna perdere tempo in inutili assedi di città fortificate, ma piuttosto vanificare i piani del nemico, capirne la strategia per annullarne gli effetti. In questo senso il Generale è un pilastro dello Stato perché sa quando è il momento di combattere, sa valutare la forza dell’avversario, sa leggere dentro e fuori i segni lasciati dalla realtà effettuale, direbbero Machiavelli e Guicciardini[18]. Infine in guerra, come in ogni altro campo dell’esperienza, è sempre necessaria l’autovalutazione: conosci te stesso, conosci il nemico - il motto socratico è coevo.

Il quarto capitolo tratta le disposizioni tattiche. Il Generale eccellente vince le battaglie senza commettere errori[19]; egli sa valutare i livelli di forza adeguati al terreno in cui opera: la vittoria, allora, si fonda sulla sua capacità di compiere comparazioni, di misurare le potenzialità che ci consentono di non lasciarci sfuggire l’attimo decisivo per battere il nemico. In un certo senso si può dire che la vittoria è avvenuta ancor prima di combattere la battaglia per l’abile Generale; come per Michelangelo, ci si consenta uno spericolato paragone, in cui la bellezza preesiste alla sua realizzazione ed il genio non deve fare altro che liberarla dai vincoli che la imprigionano. Qui, forse, si esalta la potenza assoluta della lucidità razionale, della mente apollinea.

Il quinto capitolo considera il tema dell’uso della forza, dell’energia. La forza va dosata, modulata. Est modus in rebus. Il successo risiede nella capacità di controllare le proprie forze, nell’efficace comando delle truppe. In ogni battaglia c’è un  metodo diretto, una pratica ortodossa, per così dire, e una non ortodossa, ossia un metodo indiretto, e, per giungere alla vittoria, sono entrambi necessari e si rinviano l’un l’altro. Non c’è un metodo univoco, ma una molteplicità di configurazioni, una combinazione di campi energetici che si combinano quasi in un gioco di opposti. Un altro tema è quello della simulazione: mascherare la forza con la debolezza, il coraggio sotto l’apparenza del timore. Saper usare l’energia, saperla suscitare in noi, nei nostri uomini, saper proiettare forme.

Il sesto capitolo concerne i punti di forza e i punti di debolezza nella pratica bellica. L’obiettivo è costringere l’avversario a far ciò che si desidera e non il contrario. Il problema della forza e della debolezza, del vuoto e del pieno è un nucleo centrale della riflessione antropologica[20] come della concezione dello Yin e dello Yang nel pensiero taoista. Nel nostro caso ne saggiamo i percorsi e le applicazioni strategiche come quando si parla dell’effetto sorpresa o della necessità della segretezza nell’operare vittorioso. Non bisogna far saper il luogo dove si incentrerà la battaglia, così da opporre una forza compatta che sia in grado di indebolire e dividere una avversaria[21]. Un punto molto importante è anche quando si parla del principio di adattamento alle condizioni del campo, cioè dell’avversario. Il condottiero divino è un condottiero in ascolto, per parafrasare il titolo di un celebre racconto di Italo Calvino[22], capace di scrutinare ogni atto del nemico e rispondere nel modo migliore, svelto a variare la propria strategia con il variare delle circostanze. Flessibilità invece di rigidezza operativa: siamo nel campo del management, ma il capitolo offre spunti di meditazione molto ampi su cui si sono esercitati miriadi di commentatori[23].

Il capitolo settimo affronta il tema la manovra, lo scontro armato, il combattimento. Il tema centrale è certamente quello in cui si parla dell’addestramento, della rigorosa disciplina per far si che il comandante abbia il perfetto controllo del suo strumento. Per attuare ogni artificio e mutare in diritto ciò che è tortuoso, in vantaggio ciò che non lo è, il generale ha bisogno di poter disporre perfettamente dell’armata. Come si manovra di notte, come si trasmettono gli ordini, come si comporta il soldato nelle diverse ore del giorno? E il problema degli equipaggiamenti, delle provviste per un’armata che marcia cinquanta miglia al giorno per avere la meglio sull’antagonista? C’è poi, di nuovo, il problema capitale della guerra come inganno che ha fatto accendere tanti inutili moralismi nei glossatori e, a chiudere, quello del concedere una via d’uscita all’avversario disperato[24], un tema fondamentale di tutti gli scritti militari.

Il capitolo otto riguarda le nove variabili. L’arte della guerra è anche arte computazionale, che scaturisce dal calcolo e dalla corretta valutazione. Qui il suggerimento è di valutare attentamente il campo di battaglia e di attuare manovre difensive che evitino effetti di sorpresa. Il rischio è commettere errori che possano compromettere il buon esito finale. Si vis pacem para bellum. Per far ciò, come si dirà più ampiamente nel capitolo finale, è necessario, attraverso le spie, avere una mappa del territorio nemico, bisogna fare previsioni sui pro ed i contro[25] che possono derivare dalla nostra azione. Inoltre un comandante è soggetto a cinque vizi capitali: avventatezza, codardia, irascibilità, eccessivo senso dell’onore, un’eccessiva sollecitudine per gli uomini: nella direzione opposta sta la virtù antica. Un’ utile riflessione per noi moderni, (ed a Roma, ad esempio, lo faranno le generazioni a partire da Catone o Tito Livio) su cosa si intendeva per virtù nel tempo antico.

Il capitolo nove ha per tema il movimento delle truppe. Insieme di precetti operativi che hanno tutto il sapore dell’esperienza, qui l’insegnamento si volge alla pratica militare concreta, alla mente esperta di cose di guerra. Come ci si comporta col sovrano, come coi soldati? Le informazioni, il dato reale, l’esperienza devono essere processati attentamente, vagliati con cura. Non basta la forza per ottenere una vittoria perchè in gioco ci sono anche altre variabili, come sapevano molto bene anche i nostri Machiavelli e Guicciardini che operavano nella mutevole Italia del primo cinquecento.

Il capitolo decimo si sofferma sulle configurazioni del terreno. Pare che Sun Tzu, tra i tecnici militari, sia stato il primo a prendere in considerazione le configurazioni del terreno[26]. In realtà qui le applicazioni sono aperte anche ad altri campi dell’esperienza umana ed i teatri operativi sono anche i teatri della vita di ogni giorno con le sue difficoltà, i suoi antagonismi. Dove siamo quando ci troviamo su un terreno insidioso e come dovremmo rispondere? Di qui l’ammonizione all’unità, alla unificazione delle forze che è capace di realizzare il capitano virtuoso. Non prendere decisioni azzardate in una situazione offuscata dalla emotività. Conoscere se stessi, conoscere il nemico, conoscere le condizioni atmosferiche, il teatro delle operazioni. La conoscenza è la via della virtù, il sapere uno degli elementi determinanti della vittoria.

Il capitolo undicesimo passa in rassegna i nove tipi di terreno. Si tratta del capitolo più lungo di tutto il libro ed in esso si entra nel dettaglio delle varie determinazioni topografiche introdotte anche nei capitoli precedenti. Inoltre un riferimento molto importante è alla situazione psicologica dell’esercito che si trova su un terreno nemico. Secondo Sun Tzu gli uomini, nei casi di estremo pericolo, tendono a dare il meglio di sé. Quale attento osservatore della natura umana, egli sembra quasi voler suggerire che ci si dovrebbe sempre trovare in queste condizioni estreme per dare il massimo. Infine le principali tipologie della guerra in movimento, di un esercito in marcia: velocità[27], imprevedibilità, attaccare il nemico dove si dimostra più debole, uso di trucchi, inganni, e, attraverso le spie, neutralizzazione dei piani del nemico.

Il capitolo dodici riguarda l’uso del fuoco negli attacchi. Lungo tutto il corso della storia umana il fuoco è stato uno dei principali mezzi offensivi militari. Sun Tzu evidenza gli aspetti più importanti della strategia incendiaria, ma noi, anche se sarebbe impensabile per la nostra epoca un pericolo del genere, possiamo trarne un utile insegnamento immaginando gli effetti incontrollabili che una minaccia subdola come quella del fuoco rischierebbe di provocare o di fatto provoca oggi. Come comportarsi nel caso di una minaccia collettiva? L’uso della bomba atomica come strumento di minaccia o di dissuasione è un tema molto “scottante” e doloroso per il mondo. Infine il tema dello sfruttamento immediato della vittoria al fine di evitare la riorganizzazione del nemico.

L’ultimo capitolo focalizza il suo obiettivo nell’uso delle spie. L’Arte della Guerra dovrebbe essere il primo manuale che abbia affrontato con così acuta attenzione l’argomento dell’impiego dello spionaggio a fini bellici. Si tratta del cosiddetto metodo indiretto, cioè non condotto alla luce del giorno, secondo i canoni della avanzata militare, ma attraverso, appunto, un intenso lavoro di intelligence che attui il principio della neutralizzazione del nemico ed eviti ogni superfluo dispendio energetico. Al giorno d’oggi le guerre si combattono preferibilmente su questo terreno e le sue applicazioni sono certamente all’opera anche nel campo delle strategie economiche e industriali. L’impiego delle spie deve essere necessariamente svolto anche per una sorta di economicità dei fini. Non si deve dimenticare che le guerre hanno sempre un costo assai elevato che coinvolge un intero Stato. Se il nostro obiettivo è conoscere i piani del nemico per annientarli, e si risparmiano sostanze se si pagano individui che codeste informazioni sono in grado di procurarle[28]. Le spie sono di diverse tipologie e per controllarle sono richiesti uomini di talento. Le migliori, sostiene Sun Tzu, sono le cosiddette doppiogiochiste, ed occorre una certa spietata determinazione quando, assolto il nostro obiettivo, sia  necessario eliminarle. In fine lo spionaggio non è solo uno strumento passivo di raccolta di informazioni, ma anche un mezzo di dissimulazione, un modo per far credere qualcosa di falso. Una conclusione che esalta la sottigliezza mentale, la bellezza di una intelligenza umana che non è mai fine a se stessa, ma al servizio dello Stato, per la difesa della identità e del suo libero sviluppo collettivo.

 

L’Arte della Guerra, dicevamo, risente dell’influenza di diverse tradizioni. È sempre molto difficile dire quanto ci sia nell’opera di un autore che possa venire riferito all’opera di un altro[29]; a maggior ragione se dietro il cartello di un nome come quello di Sun Tzu sembra confluire una pluralità di esperienze collettive. A nostro avviso, comunque, sono tre i possibili quadri di riferimento del suo dettato. L’ I King, ossia il Libro dei Mutamenti, il Tao Tė Ching. Ossia il Libro della Via e della Virtù e l’opera di Confucio. Il primo testo risale all’epoca Shang, quasi di un millennio precedente, un tempo in cui si praticava la divinazione, l’I King è un testo di divinazione, ma anche un periodo in cui si praticava il culto degli antenati nel contesto di cerimonie associate al circolo del Re. Del Libro dei Mutamenti è direttamente osservabile il modo di agire del Comandante regolato sulla infinita varietà delle circostanze, sulla opportunità offerta dall’occasione lasciata cadere dal nemico in un momento di smarrimento. Per dirla in termini junghiani[30], l’opportunità è una porta, un kairos, una apertura, attraverso la quale un Dio, l’augenblick got tedesco, noi diremmo un demone, opera una specie di trasformazione, sovvertendo un ordine che sembrava consolidato, attuando un cambiamento, una mutazione che sembrava impossibile. Chi ha fatto esperienza di questo testo ha avuto l’impressione, svolgendo i propri quesiti, di trovarsi di fronte ad un essere reale, concreto, perfettamente in grado di rispondere alla nostra richiesta. Oltre ogni possibile suggestione l’I King è come uno specchio dove è possibile conoscere meglio se stessi, dove è possibile fare esperienza delle più remote province della nostra mente, dei più reconditi spazi della immaginazione ed in tal modo abbracciare o ricongiungersi con le istanze più autentiche dell’operare per il presente ed il futuro, proprio come l’abile comandante di Sun Tzu.

Il Taoismo ha due testi chiave: uno è il Tao Tė Ching o Libro della Via e della Virtù attribuito a Lao Tzu ed il Zhuangzi l’opera di un uomo con lo stesso nome riferibile ad un periodo posteriore al nostro, cioè 369- 286 a.C.. Tutte le cose dell’universo funzionano in accordo col Tao, o Via, e tutte le cose derivano dall’accordo di due forze complementari, lo Yin e lo Yang. Lo Yang è denotato simbolicamente dal sole, l’energia maschile, mentre lo Yin dalla Luna, il principio femminile. Il comandante di Sun Tzu è come il saggio ideale taoista: è colui che ha compreso il significato della Via e “la Via del Cielo è di non lottare, e nondimeno saper vincere, di non parlare, e nondimeno di saper rispondere, di non chiamare, e nondimeno far accorrere; di esser lenti, e nondimeno saper fare progetti.”[31]. Il compito del Sovrano è quello di evitare di fare qualsiasi cosa che possa sconvolgere l’ordine naturale e la parola chiave in questo grande testo è proprio wuwei, la non azione. Innocenza e semplicità: dalla conoscenza degli opposti, dei contrari una grande lezione. Dal punto di vista dell’andamento argomentativo siamo vicini all’Arte della Guerra, come del resto all’insegnamento di Confucio ricostruito dai suoi discepoli. Infatti anche in Confucio, le cui date tradizionali sono il 551-479 a.C., c’è l’idea che gli uomini sono buoni per natura, ma non nella vita pratica. Inoltre, con lui ritorna la lezione del culto dello studio, la pratica dell’attenzione ed il rispetto degli antichi. “Studiate come se la conoscenza fosse irraggiungibile e temeste di perderla[32]”. La saggezza confuciana è nella pratica delle cinque virtù: la benevolenza, la rettitudine della mente, il decoro del contegno, la conoscenza o illuminazione e la buona fede. Questo è anche il ritratto dell’abile comandante di Sun Tzu.

 

La “fortuna”, per dirla in termini crociani, di un testo come l’Arte della Guerra fu subito buonissima a cominciare da Sun Pin[33], un epigono che in certe tradizioni viene confuso con lo stesso Sun Tzu, o il Signore di Shang[34], un ufficiale del sovrano Qin operante attorno al 360 a.C. autore di un libro che risente dell’influsso del nostro e della scuola legista. Se si percorre il flusso del tempo fino ai giorni nostri le problematiche della sapienza militare indicate da Sun Tzu possiamo trovarle nella sapienza greca. La stessa parola strategia (o stratega), che indica un modo precipuo di guerreggiare, e che è sconosciuta a Roma, è parto del pensiero greco, evidentemente influenzato dall’oriente. A cominciare da Tucidide, per non dire di Tito Livio, i riferimenti sarebbero innumeri. Da parte nostra non abbiamo voluto mancare di notare le diverse convergenze del testo cinese con l’Arte della Guerra di Machiavelli[35]. Non è solo una somiglianza di titoli, è molto di più. Forse si può proprio dire che le idee abbiano una vita autonoma rispetto agli uomini che le incarnano e che attraversino gli spazi ed il tempo indifferenti alle modalità normali con le quali di solito gli uomini comunicano. In forma di dialogo tra Fabrizio Colonna, Cosimo Rucellai, Zenobi Buondelmonte, Luigi Alemanni e Batista della Palla, il testo machiavellico è sintonizzato sull’onda di Sun Tzu. “La vita civile sarebbe vana se non fosse difesa dalle armi” è un inizio simile perché fa della guerra un problema centrale della politica e della vita di uno Stato. Poi l’imitazione della virtù degli antichi, l’attenzione alla verità effettuale e concreta per sfruttarne tutte le occasioni offerte dalla debolezza del nemico. Se la fortuna governa ogni cosa, bisogna cercare di signoreggiarla, non farsi signoreggiare. Come Sun Tzu, Machiavelli descrive la strategia nella pratica dell’agire, e prende esempi dagli scrittori antichi come modelli di eccellenza a cui richiamarsi. “Colui che sarà in guerra più vigilante a osservare i disegni del nemico e più durerà fatica ad esercitare il suo esercito, in minori pericoli incorrerà, e poi potrà sperare nella vittoria.”[36].

Clausewitz [37] sostiene che la guerra non è altro che una continuazione della politica e si richiama, nel suo trattato, all’opera di Sun Tzu, anche se, a differenza di questi, ha un’idea della vittoria mirante a provocare le maggiori perdite materiali e morali possibili nel nemico. Siamo ormai nella visione moderna del guerreggiare, tesa all’annientamento totale dell’avversario, al logoramento e all’esaurimento delle riserve; ormai la lettura delle nuvole di polvere sollevate dall’esercito in marcia o l’osservazione del volo degli uccelli per prevenire le imboscate lasciano il posto ai mezzi tecnici sofisticati, alle armi di distruzione di massa. Con Mao Tze Dong, Lin Piao, col generale Giap, Sun Tzu è ritornato nei discorsi dei generali e degli strateghi in cerca del giusto modo per condurre un’efficace operazione militare a segno che il suo carattere pedagogico non avrà mai fine.

 

 

Come epilogo non si può non notare che, da un punto di vista cronologico, Sun Tzu e l’Arte della Guerra sono coevi, pur con le dovute precisazioni, di altri grandi menti e di grandi opere della storia mondiale. Nell’arco di un paio di secoli, infatti, operano grandi intelletti come Lao Tzu, Confucio, Buddha, Eraclito di Efeso, Socrate, Platone, Aristotele e tutti sono noti per il carattere sistematico della loro dottrina, per una pretesa universalità razionale che almeno fino alla rivoluzione galileiana non ebbe innovatori paragonabili nel nostro percorso culturale. Emanuele Severino lo considera un periodo cruciale della nostra storia perché è forse questo il momento in cui si afferma la pretesa di fermare l’angoscia del divenire, del male, della morte, attraverso la potenza del logos[38]. Per dirla in altri termini, con lo Jaspers di Origine e Senso della Storia[39], cominciò quella lotta della razionalità contro il mito inteso come superstizione che è, forse, l’attributo precipuo che contraddistingue l’umano rispetto alle altre specie. Il testo di Sun Tzu detiene una specie di forza poietica in quanto delinea i confini della pensabilità intorno all’argomento della guerra  e questa forza la proietta nell’universo simbolico del ragionare umano. Senza timore di aggiungere enfasi al nostro discorso possiamo dire che il testo di Sun Tzu attinge al piano azzurrino dell’universale, del poliversatile, nel senso che non trova un riscontro applicativo univoco, una modalità di lettura monodica, ma può essere declinato nelle diverse accidentalità in cui il suo senso si riflette. Basta scorrere le bibliografie elettroniche o i cataloghi cartacei relativi ad esso per notare la molteplicità dei piani di lettura a cui esso è stato riferito. Lo troviamo caposaldo incomparabile delle moderne tecniche di management, ma anche possibile chiave di lettura dei movimenti politici e diplomatici internazionali. A nostro avviso, l’Arte della Guerra non è soltanto un testo di strategia militare di vitale importanza per lo Stato, ma può considerarsi un vero e proprio trattato di antropologia che individua parecchi dei tratti caratteristici del comportamento umano visti secondo la modalità del guerreggiare.

Il celebre frammento 53 di Eraclito recita: Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.[40] “. Dunque il pólemos, la guerra, è un piano caratteristico non solo dell’umano, ma anche della realtà fisica, delle cose. Se è così, allora possiamo leggere l’Arte della Guerra di Sun Tzu come una epistemologia per quella sua capacità di costituirsi serrato scandaglio attorno alle nostre idee di verità, attorno alla verità pervadente della phisis, della natura, intesa, vuoi come natura umana, sostanza psichica, vuoi come natura fisica, realtà oggettiva della materia, da interpretare, appunto, come guerra. In sostanza la realtà non è solo un guazzabuglio di metafore, di piani immaginali che si intersecano oltre i confini soggettivi di spazio e di tempo, ma anche una modalità del guerreggiare che, partendo dal piano infinitesimale della materia, pervade la dimensione dell’umano, come quella del sovrumano[41]. Insomma nell’Arte della Guerra il piano del Pólemos diventa metafora esplicativa della realtà, una metafora che si rifrange nella infinità dei mondi possibili di bruniana memoria ed i cui rivolgimenti, ad esempio, possiamo trovare nell’ambito del pensiero biologico con la” struggle for life”[42] di Darwin.  Certo, non sono concetti nuovissimi e proposte di lettura in questo senso risalgono, appunto, a quel periodo capitale nella storia delle idee cui abbiamo accennato, ma noi crediamo che oggi essi possano essere riaggiornati perché riattuallizzano la lettura di un testo come il Bingfa in direzioni inaspettate ed affascinanti, perché sanno cogliere la sua problematicità enigmatica, la sua polivalenza pensierosa anche se intessuta su uno stile gnomico ed epigrammatico.

 

 

                                                                      

                                                                                  Mauro Conti

 

 

 

 

[1] Conviene subito notare che la trascrizione corretta del nome Sun Tzu, cioè la sua trascrizione fonetica secondo il sistema pinyin ufficialmente in uso nella Repubblica Popolare Cinese, sarebbe Sun Zi. Ovviamente continueremo a riferirci alla dizione tràdita Sun Tzu, la quale si riferisce al sistema di trascrizione Wade-Giles, celebri autori di un dizionario inglese-cinese, in quanto più familiare al pubblico italiano.

[2] A questo riguardo ci son notizie relative alla sua sepoltura nella capitale di Qi dove egli fu ospite del Sovrano ma anche riferimenti bibliografici alla sua opera come autore di opere di carattere militare.

[3] Ampiezza delle armate e loro organizzazione; i riferimenti alla teoria dei cinque elementi; l’assenza di riferimenti alla cavalleria il cui impiego in guerra avverrà più tardi verso il 320 a.C.: questo per quanto riguarda i riferimenti storici diretti, ma ben più evidenti sono i riferimenti concettuali al pensiero confuciano o di Lao Tze a cui accenneremo.

[4] 450-221 a.C.

[5] Samuel Griffith, Sun Tzu. The art of war. Oxford University Press, Oxford 1963

[6] Alcune edizioni italiane del Bingfa riportano questo testo in appendice.

[7] Ci fu addirittura chi, come lo storico dell’epoca Song Ye Shi, mise in dubbio che lo stesso Sun Zi  fosse mai esistito. La cosa può forse ricordare la vexata quaestio filologica sulla identità di Omero.

[8] I cosiddetti listelli di Yinqueshan nella provincia dello Shantung.

[9] Lao Tzu, Tao Te Ching, Il Libro della Via e della Virtù, Milano Adelphi 1973

[10] Confucio, I Dialoghi, Milano 1975 con una bella introduzione di Pietro Citati

[11] Questo testo ha avuto una notevole fortuna anche nel novecento ad opera soprattutto di Carl Gustav Jung per il quale fece una celebre prefazione all’edizione tedesca curata da Richard Wilhelm. L’edizione italiana è del 1950 presso l’editore Astrolabio all’interno di una collana curata dal più celebre e compianto degli junghiani italiani, Ernest Bernhard.

[12] Una recente e bellissima mostra a Treviso documenta il commercio di abiti di porpora e la produzione di spade, alabarde ed armi di ferro relative a questo periodo, insieme a molto altro: La via della seta e la civiltà cinese. La Nascita del Celeste Impero. Treviso, Casa dei Carraresi, 22 ottobre 2005-30 aprile 2006

[13] Come non notare l’importanza filosofica di questa affermazione sulla quale, evidentemente, converge una tradizione di pensiero sia cinese, taoista e confuciano, che indiana con il Gautama Buddha.

[14] Forse la Metis, cioè l’intelligenza astuta di Odisseo secondo l’insegnamento di J. P. Vernant, può essere accostata a questa riflessione.

[15] I famosi blitzkrieg hitleriani, le guerre lampo.

[16] Alcuni sostengono che tra le cause della sconfitta della Grande Armata napoleonica su territorio russo ci fosse il fatto che i russi si ritirarono facendo terra bruciata dietro di sé, impedendo in questo modo ai francesi di rifornirsi sul luogo. Questo aspetto è molto ben sottolineato anche nel trattato del Clausewitz.

[17] Le tecniche della meditazione orientale si iscrivono in questo pensiero quando tentano di soggiogare, di legare le energie negative interiori; ed anche le attività del setting psicologico analitico come il transfer, ad esempio.

[18] Francesco Guicciardini, La storia d’Italia. Milano 1988

[19] Anche Tucidide dirà che” l’utile si accompagna con colui che meno errori commette” e lo stesso, in diversi luoghi, ribadirà Machiavelli. Si trattava di un topos della sapienza militare antica.

[20] Nell’opera di Claude Levì Strauss e della riflessione antropologica strutturalista, ma anche nella filosofia taoista.

[21] La storia militare ci mostra che in quest’arte fu maestro Napoleone

[22] Italo Calvino, Un Re in ascolto. Einaudi

[23] A cominciare dagli antichi, in tutto 11 da Ts’ao Ts’ao a Chang Yu, citati da Giles nella sua edizione del 1910.

[24] A questo riguardo si è sostenuto, ad esempio, che le dure condizioni cui fu sottoposta la Germania dopo la sconfitta nel primo conflitto mondiale furono all’origine della nascita del nazismo.

[25] In questa direzione vanno i sondaggi di ogni tipo impiegati in ogni strategia di marketing come strumento fondamentale per la comprensione delle esigenze, osservabili o meno, del consumatore.

[26] Se ci si consente un’astrazione, si potrebbe dire che, su un piano temporale, l’uomo prende consapevolezza della sostanziale storicità di ogni evento.

[27] Il veni, vidi, vici, cesariano.

[28] Per parafrasare il titolo di un celebre romanzo di Graham Greene, qui si misura l’importanza del fattore umano.

[29] Uno scrittore non scrive, evidentemente, soltanto in ossequio ai suoi maggiori ma anche in risposta ad un presente e, perché no, ad un futuro del quale auspica la realizzazione.

[30] James Hillman, Saggi sul Puer. Milano Adelphi

[31] Tao Tè Ching, LXXIII

[32] Confucio, Dialoghi. Milano, Bur p. 112

[33] Sun Tzu, Sun Pin, L’Arte della Guerra. Vicenza, Neri Pozza editore 2005

[34] Il Libro del Signore di Shang. Milano, Adelphi 1989

[35] Nicolò Machiavelli, L’Arte della Guerra. Firenze, Sansoni 1971

 

[36] Op. cit. p. 180

[37] Clausewitz, Della guerra. Milano, Mondadori 1970

[38] La filosofia Antica. Milano, 1985

[39] Edizioni Comunità. Milano, 1965

[40]Eraclito, Fr. 53, edizione Diels-Kranz

[41] In realtà le dimensioni della materia, stando alle teorie fisiche più recenti, non sarebbero solo le canoniche cui accenna il nostro discorso.

[42] Letteralmente: lotta per l’esistenza, uno dei concetti fondamentali de L’Origine della Specie di Darwin.

 

OLOCAUSTO DEGLI INDIANI D’AMERICA

 

 

 

 

 

MAURO CONTI

 

 

 

La storia del genocidio dei nativi d’America non è facile da indagare: ogni prospettiva critica, infatti, che desideri analizzare e approfondire questo tema storiografico (ma sarebbe meglio dire disastro dell’umanità), si trova di fronte ad un guazzabuglio di interpretazioni in cui non è sempre facile procedere col lume scientifico e pacato dell’inchiesta razionale, tanto, ancora oggi, essa appare avviluppata in rancori, in ostinati silenzi, disperazione e comportamenti frustrati.

Il cinema e la letteratura hanno cercato, in vari modi, di rimediare al senso di colpa sorto, se non nei confronti dei singoli individui, cui – forse e unicamente – andava chiesto perdono, almeno nei confronti della mentalità collettiva dopo la conclusione delle cosiddette guerre indiane. Delle stragi, che stiamo per rievocare, stupisce come, ancora oggi, non ci si riesca a liberare del passato, da una storia di orrore e morte sparsa a piene mani in nome di un’idea, l’idea della superiorità dell’uomo bianco, l’idea di un particolare rapporto con la natura, l’etica del capitale.

Certo, si dirà, ricordare non è mai un esercizio innocente e fare storia significa sempre introdurre qualcosa di nuovo in un passato che altrimenti si annulla nelle vacuità mute del tempo; per giunta, nel caso degli indiani d’America, ogni questione pare vibrare ancora nella polemica razziale, in una sopita ma pur vivente polemica razziale, senza poter accedere a quell’epilogo catartico che nel teatro greco solitamente chiudeva la scena drammatica.

Quei padri pellegrini che, all’inizio del secolo XVII, attraccarono alle coste nord americane in fuga da una Europa dilaniata dalla crisi economica e dalle lotte religiose, per quanto pochi e disperati fossero gli individui imbarcati sul Mayflowers, una certa idea di superiorità razziale dovevano avercela[1]. Essa si era, forse, originata dai resoconti[2] delle spedizioni seguite alla traversata di Colombo, ma anche sul retaggio – è il caso di dire inciso nella memoria – d’una cultura eurocentrica, cui avevano concorso quasi due millenni di speculazioni e sottili distinzioni filosofiche sulle caratteristiche e sulle prerogative dell’umano[3].

Questo era, probabilmente, per dirla in breve, il quesito che si ponevano: i pellerossa[4] erano da considerarsi esseri umani? Su questo punto, Aristotele, la cui influenza sulla cultura cinquecentesca non possiamo ora trascurare, aveva sostenuto nel De Anima che l’anima si manifesta a tre livelli, che sono altrettanti principi di vita: il vegetativo, che si riferisce alla nascita, alla nutrizione e alla crescita; il sensitivo, che occupa il livello della sensazione e del movimento, e l’intellettivo, che pertiene alla conoscenza e alla decisione. Tipica degli uomini è la funzione intellettiva. Aristotele distingueva, poi, tra intelletto potenziale, perché diventa tutte le cose, e intelletto attivo, perché produce tutte le cose. Grazie a quest’ultimo l’uomo è in grado di conoscere e di trasformare in concetti le forme universali contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia.

Era, dunque, di quest’ultimo tratto intellettuale attivo che parevano esser privi gli indiani d’America: l’anima di questi ‘bruti’, oggetto di interesse per tanta pubblicistica[5], soggiaceva a livelli inferiori, ed è incapace di emanciparsi. Pare proprio che il tema della inferiorità razziale sia il prescelto, lungo la storia umana, a giustificare la pratica dello sterminio. Non sono forse state dette le stesse cose degli ebrei a partire dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme lungo tutto l’evo cristiano? Nell’America dei colonizzatori diretti ad ovest e affamati di terra e di oro luccicante si diceva: «L’unico indiano buono è quello morto», e, in effetti, da una popolazione stimata al momento della traversata colombiana di circa un milione di nativi, si ritiene che circa solo 350.000 sopravvissero alla fine dell’ottocento.

In via preliminare al nostro discorso, anche per avere una visione panoramica in cui collocare il nostro argomento, conviene tracciare un quadro cronologico delle tappe principali che hanno segnato la conquista del suolo americano[6]: la prima, che va dai primi anni del XVI secolo alla fine del XVII, è caratterizzata dalle imprese di avventurieri e indipendenti pionieri che, lontano dall’Europa, cercavano, per lo più, di rifarsi una vita in terra americana. Dopo i primi approcci in cui furono gli stessi indigeni a fornire quegli aiuti e quelle informazioni senza cui i Wasichu, ossia i Visi Pallidi, non sarebbero riusciti a sopravvivere in un ambiente ostile, la volontà di dominio dei colonizzatori ebbe il sopravvento e, basandosi su una superiorità militare e tecnica che trovava impotenti gli indiani[7], non incontrarono che deboli ostacoli. Ad essi comunque si opposero gli Irochesi in Canada e, a sud, i Pueblos, per non dimenticare la fiera resistenza dei Apache e dei Navaho quando gli spagnoli fondarono la colonia del Nuovo Messico.

La seconda tappa si situa nella prima metà del XVIII secolo e vede i conflitti delle potenze europee per il sopravvento su un territorio ricco di risorse naturali come quello americano. Gli europei, in questa fase, quali figli di Ulisse, l’eroe della metis, cioè delle astuzie della intelligenza[8], riuscirono ad inserire le loro contese – cioè il conflitto anglo francese – nelle lotte e nelle rivalità che scoppiarono tra le tribù locali, al punto che, al termine della guerra che vide la supremazia britannica, si disse: «gli Irochesi hanno conquistato un impero per la Corona inglese». Gli indiani erano guerrieri molto fedeli e, anche se non erano capaci di sottostare alle regole europee della disciplina militare, fecero la differenza nel definire le sorti del conflitto.

In questo periodo si può, praticamente, constatare come la vera debolezza dei pelle rossa[9] fosse nella mancanza di unione. Orgogliosi, amanti della guerra e del conflitto personale inteso come espressione della gloria, della vis e della virtus bellandi, essi furono vittima dell’inganno dei visi pallidi che, in diverse occasioni ne approfittarono in modo vergognoso mettendo gli uni contro gli altri. La maggioranza degli indiani che si era alleata al giglio francese partecipò così alla sua sconfitta.

La terza fase, che va dalla seconda metà del XVIII secolo fino al 1840, vede la formazione degli Stati Uniti e l’apertura della frontiera occidentale a una massa enorme di colonizzatori che, tra alterne fortune, scacciano gli indiani dalle loro terre e impongono loro umilianti condizioni. Il tentativo del grande capo Pontiac di formare una lega delle tribù indiane del Nord non ebbe successo, e anzi, schierandosi con la Corona britannica, pagò per la sua fedeltà quando, infine, l’Unione americana ebbe la meglio giungendo ad annettersi il Mississippi nel 1783. Il presidente Jackson, poi, grande nemico degli indiani, estese la giurisdizione unionista relegandoli nelle Grandi Pianure, il cosiddetto “grande deserto americano”, dove molti pellerossa morirono.

La quarta fase giunge fino al termine della guerra di Secessione, nel 1865. Si tratta di un periodo di grande espansione al grido di free soil, free speech, free labor, free men[10] e vide la conclusione della conquista dell’Ovest con la cosiddetta rush gold, la corsa per la ricerca dell’Oro, che spostò enormi masse di individui provenienti da un Est affamato e sotto la minaccia della crisi economica. Nel ’48 fu scoperto dell’oro in California e circa ottantamila persone, tra cui molti avventurieri e galeotti della peggior fama provenienti da ogni parte del mondo, giunsero a bordo di carri seguendo le piste che attraversavano le Grandi Pianure e le grandi Montagne Rocciose. Le malattie e la fatica della traversata, uniti agli attacchi degli indigeni, che si vedevano depredati delle loro terre, furono fatali per molti di loro; ma, alla fine,, questa nuova comunità melting pot, senza freni sociali, né ordini, né leggi, si costituì in istituzione e chiese la ammissione nell’Unione come uno Stato sovrano assieme al New Mexico. La questione indiana passò dal Ministero della Guerra a quello degli Interni e parve recuperare, durante la Secessione, un minimo di libertà che, però, venne subito persa

Nella quinta e ultima fase, che va dal 1865 al 1891 quando, il popolamento delle terre contese riceve un colpo mortale con l’Homestead Act del 1863. Con esso ogni settler poteva diventare proprietario di un appezzamento di terreno se vi risiedeva per almeno cinque anni. La grande prateria americana, dove prima gli indiani costruivano le loro capanne di abete, o i loro wigwam, dove si insediavano coi loro tepee, divenne terreno per la agricoltura, per l’allevamento del bestiame. Fu allora che nacque la figura del cow boy[11] nel suo ranch, sempre a cavallo con alti stivali e cappello a larghe tese. Il presidente Lincoln raccomandò un atteggiamento di protezione e benevolenza verso gli indiani; ma l’avidità, la brama smaniosa di nuove terre portò a scontri continui con le tribù. Riunire gli indiani nelle riserve significava imprigionarli; volerli costringere a diventare agricoltori significava stravolgere il loro ethos, la loro cultura[12]. I sussidi del governo federale, con cui si pensava di far fronte a quel senso di colpa che, a livello politico, dialogava anche con i movimenti sociali e le idee delle campagne antischiaviste, si disperdevano in mille rivoli, preda di approfittatori e avventurieri. Lo scontro ormai non avveniva più in campo aperto e l’episodio di Little Big Horn in cui cadde il generale Custer, pur mettendo i luce l’abilità dei grandi guerrieri indiani, non era altro che l’ultimo sussulto di un’opposizione, della fiera resistenza alla Conquista del West che poteva ormai dirsi compiuta. Oltre a ciò si aggiunse il massacro indiscriminato dei bisonti, i magnifici animali delle Grandi Pianure da cui gli indigeni avevano tratto per secoli il loro alimento principale[13].

Il territorio del bisonte d’America si estendeva dalla Lago Erie alla Louisiana, al Texas. Ogni anno, circa quaranta milioni di capi si spostavano per migrazioni stagionali alla ricerca di cibo, principalmente nelle grandi praterie ma anche nelle regioni boschive. Gli indiani dipendevano totalmente dal bisonte anche per il vestiario e, perciò, avevano elaborato delle tecniche di caccia tutte particolari, come quella di bruciare intere foreste allo scopo di spingere gli animali su luoghi erbosi, perché qui offrivano un più facile bersaglio. La cultura del fucile e del cavallo diede luogo a nuove strategie venatorie e molte tribù abbandonarono l’agricoltura per dedicarsi alla caccia a cavallo. Del bisonte indiano non si buttava via nulla. Ventre, lingua, fegato mangiato caldo, poi midollo, cuore. Con una particolare procedura di conservazione chiamata pemmicam la carne di bisonte poteva essere mangiata anche a mesi di distanza. Con le ossa degli animali morti si facevano punte di frecce, utensili, e le donne poi intrecciavano il crine per fare corde, filo per cucire. Con le corna si fabbricavano cucchiai mentre con la pelle bagnata in acqua calda e ingrassata si confezionavano capi di vestiario e calzature. La pelle affumicata del bisonte serviva, inoltre, a ricoprire i tepee così da impermeabilizzarli. Infine il bisonte aveva anche una funzione sacrale e i Sioux credevano nell’esistenza di un Grande Bisonte come maestro dell’Invisibile. Con la colonizzazione dell’Ovest vennero compiute ecatombi di animali inenarrabili e anche in ciò i vari Buffalo Bill[14] contribuirono allo sterminio degli Indiani d’America.

La storia delle guerre indiane è ricca di numerosi e raccapriccianti avvenimenti che meriterebbero un’attenta memoria. Noi, tuttavia, imposteremo la nostra recensione dell’Olocausto degli indiani d’America scegliendo emblematicamente tre episodi che ci sono parsi tra i più significativi per la comprensione delle ragioni che l’hanno ispirato. Essi sono il massacro di Sand Creek, l’eccidio di Wounded knee e La Trail of Tears, ossia la Pista delle lacrime.

In ordine cronologico troviamo per prima la Trail of tears, la Pista delle lacrime. Nell’inverno del 1838 gli indiani Cherokee e altre tribù furono cacciati dalla Georgia e costretti a una lunga marcia forzata per oltre milleseicento chilometri attraverso il Tennesse, il Kentucky, l’Illinois, il Missuri, l’Arkansas. Il trasferimento avvenne in condizioni eccezionali di gelo e pioggia e oltre 13000 uomini, donne e bambini, furono costretti a marciare in condizioni bestiali, senza cibo da mangiare o coperte per difendersi dai rigori invernali o medicamenti contro le malattie. Quelli che non ce la facevano venivano lasciati ai margini e morivano assiderati. Durante la traversata morirono più di 4000 indiani. Da allora quel tragitto della morte si chiamò: Trail of tears, la strada delle lacrime. Ma vediamone in primo luogo il quadro fattuale.

Grazie ad una serie di accordi con il governo statunitense che risalivano al 1791 i nativi indiani della Georgia erano stati considerati come una nazione indipendente con proprie leggi e usanze. Tuttavia, né i trattati, né il fatto che i Cherokee fossero indiani pacifici e in certo modo “civilizzati”, valsero di fronte alla cupidigia dei colonizzatori. Per di più, dopo la scoperta dell’oro anche nelle proprie terre, con un solenne voltafaccia, fu lo stesso parlamento della Georgia a giudicare nulli i titoli di proprietà fondiaria attribuiti agli indiani e inefficaci i trattati a loro favore. I Cherokee ricorsero alla corte federale ma questa, per voce del suo presidente John Marshall dichiarò che della questione indiana doveva occuparsi il governo federale, l’unico che potesse averne la giurisdizione esclusiva.

Fu dunque con l’appoggio del presidente Andrew Jackson, acerrimo nemico degli indiani, che la Georgia scacciò dalle loro case i Cherokee sotto la minaccia delle armi per trasferirli al di là del Mississippi. Durante la sua presidenza egli si adoperò in ogni modo per far trasferire i nativi sulle terre ad ovest, oltre la linea di demarcazione del grande fiume, per realizzare così quel progetto che era stato formulato dal Presidente Jefferson, l’illuminato, colto ed “europeo” President Jefferson. In quella occasione gli yankees quasi non si preoccuparono delle sofferenze inferte; anzi, pretendevano che tutto ciò fosse nell’interesse degli stessi nativi, «superstiti di una razza sfortunata…ai quali d’ora in poi la benevola assistenza del governo avrebbe prestato le sue cure e avrebbe protetto».

La terra dei Cherokee è una regione montagnosa situata tra la valle del Tennesse e le prime colline dei monti Appalachi. I Cherokee erano una popolazione civile, operosa, pacifica che amava i propri fiumi e le proprie montagne e che, per molti aspetti, aveva cercato di adattarsi all’arrivo dell’uomo bianco. Afflitti prima dai Francesi e poi dagli Inglesi, avevano in seguito tentato di ostacolare l’avanzata dei colonizzatori cedendo gran parte dei territori ancestrali. I patti non erano stati rispettati, ma i Cherokee erano stati in grado, lo stesso, di costituirsi in nazione dotata di una certa autonomia, sia economica che politico-diplomatica. Se gli anziani non avevano smesso di perpetuare le tradizioni e i costumi dei padri, i giovani, per lo più, vestivano come gli americani. Le vecchie capanne non esistevano più e i figli andavano nei collegi dei bianchi a studiare. C’era anche un quotidiano Cherokee, Il Phoenix, il quale veniva stampato sia in inglese che in lingua indigena. Il suo obiettivo editoriale consisteva nel tentativo di far risorgere la nazione indiana e per ciò, nel 1826, assieme al Grande Capo della nazione John Ross, figlio di un ricco proprietario scozzese e di una indiana, avevano redatto una costituzione scritta che sarebbe entrata in vigore l’anno successivo.

Ma la politica di assimilazione alla cultura dei bianchi non aveva portato a grandi risultati e il governo federale, da parte sua, aveva cercato in ogni modo, compresa la corruzione, di estromettere gli indiani dalla terra che avevano da sempre abitato. Con la presidenza Jackson le cose peggiorarono e si premeva sul governatore della Georgia perché desse corso alla espropriazione. Quelle terre erano ricche di preziose risorse minerarie e c’era pure una canzonetta popolare che girava nelle orecchie dei soldati e che declamava le meraviglie della nazione come di un luogo da favola[15]. Le tappe della confisca procedettero inesorabili e i possedimenti dei Cherokee vennero divisi in appezzamenti da acquistare per mezzo di una lotteria. Dopo ulteriori angherie, come la privazione della potestà di autogoverno e l’obbligo di giurare fedeltà allo Stato della Georgia, gli stessi georgiani attuarono azioni di guerriglia contro gli indiani rubando cavalli, incendiando, e commettendo atrocità.

Intanto l’eco della perfida ingiustizia ai danni dei Cherokee era giunta al Congresso Federale e l’intero paese conobbe la triste situazione in cui essi versavano. Ma le proteste non valsero e, in un crescendo rapido e rapace, si arrivò al “Trattato di sgombero”del 1835, poi perfezionato nel ’36, secondo il quale i Cherokee vendevano tutto quanto possedevano a oriente del Mississippi per cinque milioni di dollari in cambio di un terreno ad occidente dove si sarebbero potuti insediare. Dovevano trasferirsi nella nuova patria entro due anni. Il negoziatore statunitense aveva palesemente ingannato la nazione indiana; perciò fu inviata una petizione al presidente Jackson, ma non venne presa in considerazione. Temendo una reazione violenta contro i settlers[16], una risposta armata dopo le menzogne, il Governo federale mandò delle truppe a disarmarli, ma il generale incaricato, compiuto il suo dovere, osservò che ad aver bisogno di protezione erano gli stessi Cherokee.

La deportazione cominciò nel ’38. Gli indiani venivano prelevati nelle loro abitazioni, poi trasferiti in campi militari, avamposti da cui sarebbero partiti. Secondo le cronache locali, all’inizio gli indiani cercarono di scappare ma poi si rassegnarono. Era una cosa penosa vedere vecchi e donne coi capelli grigi accompagnare in triste corteo le guardie federali. La resistenza dei Cherokee a ciò fu minima. Nei campi di raccolta molti contrassero delle malattie, senza contare la presenza di sciacalli che spillavano loro i pochi soldi con whiskey di qualità scadente.

Il viaggio fu una via crucis orribile. Nei primi tempi molti non ressero alla calura estiva e alle conseguenti malattie. Tra ottobre e novembre circa 13.000 Cherokee furono trasferiti ad Ovest corrispondente all’attuale Oklahoma. Durante il viaggio morirono in più di 4000. Nella lingua Cherokee il viaggio verso occidente prese il nome di Nua-da-ut-sun’y ossia “la pista dove piansero”, e anche oggi quella strada è denominata la Trail of Tears, il sentiero delle lacrime.

 

 Il massacro di Sand Creek (1864) spezzò definitivamente ogni legame tra bianchi e indiani delle pianure. Questa miserabile carneficina compiuta dai bianchi costò la vita a circa trecento pelle rossa, tra Cheyenne e Arapaho. L’antefatto sta in una serie di litigi con i bianchi per via del furto di bestiame che venne punito dall’esercito americano con spietate azioni di rappresaglia ma anche con la scoperta dell’oro, avvenuta verso il 1852, nel Colorado e nel Kansas, territori indiani. Il flusso migratorio dei cercatori e dei settlers dava enorme fastidio alle tribù indiane le quali non erano per niente arrendevoli di fronte a quella avanzata folle e avida e perciò, con la consueta tecnica della guerriglia, cercavano di vendicarsi attaccando le diligenze e le stazioni di posta o incendiando i ranches. Il rappresentante dei Cheyenne di nome Black Kettle era stato a Washington a trattare con il Presidente Lincoln sulle questioni territoriali; ma, dopo aver fatto gli accordi, risultava che erano sempre i bianchi a ignorarli. In un antecedente a Cedar Bluffs, mentre i guerrieri cheyenne erano a caccia del bisonte, l’armata del maggiore Downing aveva sorpreso un accampamento di indiani nascosto in un canyon e lo aveva assalito. Nel giro di poche ore erano state trucidate trenta persone tra vecchi, donne e bambini. Il fine dei colonizzatori era l’annientamento dei nemici.

Il più feroce sostenitore di questa strategia era il colonnello Chivington, un ex pastore metodista che era solito salire sul pulpito per la predica armato di un revolver. Era un implacabile cacciatore di indiani e un guerrafondaio che aveva dato il suo feroce apporto nelle vittorie dell’Unione ad ovest. Dopo anni di snervante guerriglia i Cheyenne di Black Kettle si erano decisi a trattare con i rappresentanti governativi e ne avevano ricevuto, con beneaugurati promesse, anche l’autorizzazione ad alzare 100 tepee vicino a Fort Lyon, in un ansa del fiume Sand Creek.

La mattina del 29 novembre 1864 uno squadrone di 750 cavalieri agli ordini del colonnello Chivington e del maggiore Antony si precipitarono armati di cannoni sull’insediamento di Black Kettle per compiere un massacro. Una sventolante bandiera americana issata sull’accampamento in segno di pace non dissuase gli aggressori i quali, dopo aver aperto il fuoco, scesero da cavallo e si avventarono su chiunque uscisse dalle tende. Fu una carneficina di bambini, di donne sventrate e mutilate orribilmente per portar via dei monili. Gli uomini venivano scotennati per poter prendere loro lo scalpo. Il vecchio capo White Antilope si pose impassibile e orgoglioso davanti alla sua tenda cantando una canzone di guerra che faceva: «niente vive a lungo se non la terra e le montagne», poi venne vigliaccamente abbattuto mentre l’intero campo sprofondava tra le fiamme. Ci fu una fuga generale, ma molti vennero inseguiti e uccisi. Quando i macellai se ne andarono faceva molto freddo e i feriti soffrivano atrocemente fino a che non furono soccorsi da un gruppo di cheyenne provenienti da un altro campo con coperte e viveri. Trecento pellerossa persero la vita in questa miserabile azione. Quando nel Paese si seppe di questo misfatto un’ondata di indignazione si sollevò contro Chivington il quale, se in un primo tempo aveva sperato di poter ricevere le stellette da generale, si trovò costretto da una Commissione di inchiesta a dover rassegnare le dimissioni. Il famoso Kit Karson che aveva combattuto contro gli indiani e li rispettava denunciò il massacro come opera di vigliacchi e cani.

A conclusione di un conflitto secolare che, abbiamo detto, era in primo luogo di natura culturale, troviamo il massacro di Wounded Knee. Attorno al 1890 ormai tutti gli indiani erano stati confinati nelle riserve e avevano modificato il loro stile di vita: da cacciatori erano stati forzati a diventare agricoltori, avevano modificato i loro comportamenti sociali e i bambini venivano mandati a scuola lontano dalle famiglie. La amministrazione federale, al solito, commetteva abusi come nel caso della costruzione di una linea ferroviaria nel territorio dei Sioux o nella soppressione delle pratiche tribali e religiose, retaggio avito e sacro rito del succedersi delle stirpi e delle generazioni.

In quel tempo prese corpo la predicazione di Wovoka, un indiano Paiute, che, in una sorta di sincretismo fatto di spiritualità indigena e cristianesimo, si presentava come inviato del Grande Spirito e parlava di una sorta di risarcimento per la totalità degli indiani dopo secoli di sofferenze. Egli era stato mandato sulla terra per insegnare agli indiani ad amarsi e a celebrare la Ghosts Dance, la Danza degli Spettri, un rituale particolare in cui i danzatori si coprivano di un drappo bianco, fino a che il Messia non fosse ritornato sulla terra in veste di pellerossa per ristabilire i diritti. Se non in patria, la predicazione attrasse l’attenzione degli Sioux, dei Cheyenne, dei Kiowa e degli Arapaho perché prometteva la resurrezione dei guerrieri morti, che, unendosi ai guerrieri vivi, avrebbero finalmente scacciato gli oppressori dal paese.

« Io coprirò la terra con un nuovo sole sotto il quale i bianchi verranno sepolti. La rivestirò di un’erba dolce, di acque limpide e di alberi; mandrie di bisonti e cavalli la percorreranno… Mentre rinnoverò il mondo, i miei figli rossi che danzeranno e pregheranno verranno chiamati tra gli spiriti… Essi non hanno nulla da temere dai bianchi, poiché farò si che la loro polvere non si accenda… e se un uomo rosso muore per mano di un bianco, egli sarà accolto nel regno degli spiriti e ritornerà la primavera seguente…»[17] .

La Ghosts Dance era una variante della Danza del Sole. Dopo un rito purificatorio che consisteva nell’entrare nella Capanna del Sudore, gli uomini e le donne, tenendosi per mano, ruotavano danzando intorno ad un albero sacro. Nell’incerta luce dei fuochi notturni, le forme in movimento ricoperte di drappi candidi davano l’impressione di fantasmi ondeggianti. Si invocava anche il ritorno del bisonte la cui popolazione, come detto, un tempo era stata numerosa come quella e assai di più degli esseri umani, ed era stata sterminata dalle armi dei bianchi. Così, cantando e ballando, ebbri di stupefacenti e di misticismo, gli adepti crollavano a terra sostenendo di aver incontrato gli spiriti dei trapassati.

Fu la mattina del 29 dicembre che il 7° cavalleggeri del maggiore Forsyth con l’intento di perquisire i tepee degli Sioux che si erano radunati nella zona e disarmare gli indiani innescò la scintilla. L’occasione per vendicare il generale Custer dopo quattordici anni[18] era finalmente giunta. Dal fucile di un giovane indiano, insofferente per esser stato brutalmente disarmato, partì un colpo di carabina. L’esercito rispose a cannonate. I fucili e i cannoni facevano fuoco indiscriminatamente sull’accampamento dove erano donne e bambini. Gli Sioux superstiti si difendevano valorosamente con coltelli, tomahawk, archi e frecce ma era tutto inutile e non serviva nemmeno fuggire perché venivano rincorsi dai militari assetati di sangue. La carneficina venne consumata nel giro di qualche ora; poi, una tempesta si scatenò sul campo disperdendo le parti. Quando, dopo qualche giorno, le truppe federali ritornarono, si accorsero del massacro che avevano perpetrato. C’erano corpi di donne e bambini sparsi da tutte le parti, carcasse di guerrieri orrendamente mutilati. Qualcuno di loro era ancora vivo, qualcuno riuscì a fuggire e sarebbe sopravvissuto[19]. In complesso furono trecento i pellerossa uccisi a Wounded Knee.

Il massacro di Wounded knee rappresenta dunque l’atto conclusivo di secoli di guerre contro gli indiani delle pianure. Si era creata, in seguito a ciò, una generale sollevazione nelle riserve; ma, poi, le acque si calmarono e anche Wovoka, il profeta della rinascita, andò in giro a vaticinare che era giunto il tempo di seguire la via tracciata dall’uomo bianco.

In conclusione, a mo’ d’epilogo, vogliamo domandarci ancora una volta quali furono le cause che provocarono la fine dei nativi d’america; ma, giunti a questo punto, il reiterarsi della domanda vuol significare sia l’impossibilità di colmarla con definizioni soddisfacenti, sia lo scandirsi di una litania funeraria che sorge spontanea e guarda lontano oltre i lampi del dolore. Gli indiani furono sterminati dalla superiorità delle armi bianche, dei fucili Winchester, dagli esplosivi o forse, come sostengono alcuni, dal whiskey, dall’alcool che ne fiaccava la forza militare, la vis guerriera? Non senza ragione, altri sostengono che nel Nord America furono le malattie dei bianchi a compiere la strage. Fu il vaiolo, si, il germe del vaiolo usato come arma contro cui il sistema immunitario dei nativi non sapeva contrapporre una cura efficace a causare una strage in Canada, verso la metà del 18° secolo. Dunque perché ci occupiamo ancora di indiani? Quale perdita, con la scomparsa della loro cultura, del loro stile di vita, stiamo scontando? Un recente articolo del New York Times notava come, nelle zone un tempo riserve indiane, il numero delle famiglie con problemi di droga e dipendenze varie è ancora molto alto. Il problema dell’adattamento al modello di vita americano, come si vede, non è ancora realizzato e il conflitto pare solo spostato su un piano culturale differente e il tempo non è riuscito a cancellarlo. Certo, ci sono indiani che ce l’hanno fatta, che sono diventati ricchi, magari costruendo Casinos o altre nefandezze legate al dio denaro, che sono diventati importanti nel campo delle scienze, ma la guerra, il Polemos, per dirla con Eraclito, non è affatto terminata e prima o poi qualcuno verrà a dissotterrare le armi e riaffermare, col grido caratteristico di Oka hey, il diritto del popolo indiano. Allora un nuovo rapporto con la natura, una nuova civiltà si aprirà per l’America: la cultura dei nativi, una possibilità vecchia e allo stesso tempo nuova per gli esseri umani.

 

[1] Idea, per altro, subito dimessa per le numerose difficoltà di adattamento in un ambiente ostile a cui non sarebbero sopravvissuti se non fosse stato per il provvidenziale aiuto degli stessi indigeni.

 

[2] Tra i quali non va dimenticato Frate Bartolomé de Las Casas nella sua Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie presentata all’Imperatore Carlo Quinto nel 1542.

 

[3] La discussione non è estranea a quel movimento filosofico cinquecentesco che va sotto il nome di alessandrinismo al cui interno è da annoverare la riflessione del nostro, perché docente all’Università di Bologna, Pietro Pomponazzi nel suo trattato sulla Immortalità dell’anima.

 

[4] I pellerossa non erano affatto tali se non durante cerimonie in cui erano soliti tingersi la pelle del pigmento rosso come pratica rituale.

 

[5] Recentemente studiata nei trattati rinascimentali da Carlo Guinzburg e presentata in una conferenza all’Accademia di Belle Arti di Bologna nell’aprile 2005. A tal proposito si vedano anche gli studi di Giovanni Greco e Davide Monda sulla storia della criminalità e la prostituzione nel meridione d’Italia in cui il tema della diversità antropologica, rilevato poi anche da uno studioso di fisiologia come Lombroso, appare discriminante.

 

[6] Si tratta, grosso modo, dell’approccio scelto dallo studioso svizzero Jean Pictet, autore di uno studio dal titolo: L’Ẻpopée des Peaux-Rouges, 1994 Editions du Rocher.

 

[7] Gli esplosivi e le armi da fuoco.

 

[8] Vernant, Le astuzie dell’Intelligenza, Laterza [città e anno].

 

[9] La pelle rossa era data da un pigmento che si usava nelle cerimonie rituali indigene.

 

[10] «Terra libera, libertà di parola, di lavoro per uomini liberi» al grido di questi slogan nacque un vero e proprio partito.

 

[11] A imitazione dell’indiano vaquero del Nuovo Messico.

 

[12] Solo le donne indiane si occupavano del lavoro dei campi.

 

[13] A questo riguardo si veda lo studio di Philippe Jacquin, Storia degli indiani d’America, Milano 1977, Arnoldo Mondadori editore p. 53ss.

 

[14] Col suo spettacolo, Il Wild West Show, portato in giro anche in Europa, a cui parteciparono anche celebri indiani Medicine Men come Black Elk, Alce Nero, Buffalo Bill rappresentò anche la caccia a questo animale sacro.

 

[15] Tutto ciò che voglio dalla creazione/è una ragazza carina/ è una grande piantagione/ laggiù nella nazione dei Cherokee.

 

[16] coltivatori residenti, stanziali.

 

[17] P. 658, op. cit, Pictet.

 

[18] La sconfitta dell’esercito federale a Little Big Horn.

 

[19] , Alce Nero parla, Adelphi, Milano.

 

 

 

 

 

mauroconti.it

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Vita spericolata di Francis Scott Fitzgerald. Una biografia intellettuale.

Mauro Conti

Ogni interpretazione, ogni analisi testuale si stabilisce sempre, pirandellianamente, come un atto di equilibrio sopra la follia dell’opera d’arte, sopra il guazzabuglio del testo e l’esercizio del lettore. Interpretare, in fondo, è portare alla luce una voce nella polifonia discorde del narrato, il particolare di uno sguardo acciuffato nel caos di una folla in movimento.

Sì, perché il tempo e il luogo in cui nasciamo non definiscono la nostra identità e nemmeno i tratti del nostro volto e, a voler guardare in profondità – sosteneva la saggezza antica di Eraclito e di altri – nessuno conosce i confini dell’anima di un uomo e, tanto meno, quelli di uno scrittore, di un artista de race. Quand’anche riuscissimo a tracciare, ad esempio, la fisionomia della Firenze medievale o del contesto culturale del Medioevo fiorentino, non riusciremmo comunque a spiegarci il genio di Dante Alighieri, né il perché di una cattedrale di parole come La Divina Commedia, e così, se volessimo definire il valore e il significato narrativo dell’opera di Francis Scott Fitzgerald, che della cosiddetta Età del Jazz è come l’inventore, l’Araldo, notava Eugenio Montale, ci accorgeremmo di esserci esercitati inutilmente su qualcosa di sfuggente e fluido.


Le grandi opere letterarie attraversano il tempo e i propri orizzonti spaziali come il sussurro fantastico delle voci che animano in penombra i pensieri di Zelda, la moglie, l’amante di una vita, sopraffatta poi dalla psicosi: i vaneggiamenti di una notte ubriaca appaiono, a volte, nei testi,
ma chi può arrestarne il flusso, la continua trasformazione, concretizzandola in una etichetta, in una mera formula? Ancora, perché dovremmo occuparcene, visto che la verità di un’opera ama nascondersi dietro i veli di mille soggettività e infinite rappresentazioni?

Perché seguire l’abbagliante e lussuosa generosità del desiderio di Jay Gatsby, oppure perché cercare la bellezza in un pensiero triste, in una relazione dolorosa come quella tra Dick e Nicole in Tenera è la notte?

La letteratura non sopporta confini, non chiede definizioni, è lei stessa il limes continuamente rinnovato, rimosso e ripreso su cui ha disegnato il volto assoluto dell’Altro, i contorni inventati dell’altro da sé, pronunciati come apparizione, parvenza, il sogno di un sogno.

Le storie di Francis Scott Fitzgerald si iscrivono nel mito, nel mito tout court, e sono la rappresentazione di un’epica grandezza, la tragedia del Paradiso Perduto, dell’abbaglio luminoso e pulsante del desiderio che trafigge da immote lontananze, la spirale di un cupio dissolvi, di un’autodistruzione portata in scena con una fantasmagoria generatrice di archetipi e generosa di sentimenti, di emozioni fonde.

La letteratura di Francis Scott Fitzgerald è eterna, ma come lo sono i mortali, come lo sono gli esseri umani, i lettori che decodificano: incarnano, di fatto, le iridescenti, fascinose forme da lui magistralmente tracciate e pazientemente orchestrate.
Eppure, se vogliamo dar conto del giudizio degli amici, giudicare le lettere, le notizie apparse sui giornali, gli appunti di una nota a margine o il segno superficiale buttato giù come una voce leggera, in un frastuono immenso, tutto ciò che Francis Scott Fitzgerald scriveva era una specie di autobiografia. Lo erano i suoi romanzi, i racconti, i suoi personaggi che partivano da un dato soggettivo e si tuffavano, si trovavano trasfigurati, proiettati nelle ombre e negli sfarzi della immaginazione, nella metamorfosi delle maschere, nelle più recondite fantasie, nelle segrete, quasi ineffabili aspirazioni dell’autore.

Ci sono delle interessanti osservazioni nelle sue lettere di all’agente, all’editor e agli amici scrittori: “Non faccio altro che vivere la vita che scrivo.” [...] “Tutti i miei personaggi sono Scott Fitzgerald. Perfino quelli femminili sono la versione femminile di Scott Fitzgerald. Noi scrittori stiamo lì a ripeterci: questa è la verità. Abbiamo vissuto quelle due o tre grandi esperienze che ci hanno toccato... può essere perfino qualcosa che ho vissuto vent’anni fa o semplicemente ieri, ma io devo partire da un’emozione, da qualcosa che mi sia vicino e che sono in grado di decifrare” .


Jay Gatsby, certo, è pura invenzione, e tuttavia, se si segue la vita attraverso le lettere, come non notarne le corrispondenze, quasi la proiezione nella parabola esistenziale del suo autore? I suoi eccessi spericolati, i suoi fallimenti, le sue aspirazioni, il sogno di felicità e bellezza iscritto come arcana nostalgia nell’amore per Daisy? I
Racconti dell’età del Jazz che, per definizione dello stesso autore, si iscrivono nel periodo che va dalla fine della Prima Guerra Mondiale alla Grande Depressione, sono prose che esplorano in modo autobiografico il grande tema della povertà, l’ossessione scarnificante della ricchezza e della corruzione che si lega alle sue stesse radici, ma anche talune fantasie sulle cui ali spicca il volo tanto il miserabile come il ricco, che si illude così di preservare la propria giovinezza, intesa nel circolo di una eterna rigenerazione.

Autobiografica della travagliata relazione con Zelda è la storia di Dick Diver e Nicole in Tenera è la notte, ove si denuncia, trasposta in Europa, la crisi, l’incrinatura del proprio matrimonio, e che rappresenta, al contempo, una lungimirante anticipazione di quel fallimento globale che vedrà coinvolta l’intera Nazione nel Great Crash, la Grande Crisi del ’29.

La ricezione critica delle opere di Fitzgerald si è scontrata con diversi pregiudizi di varia natura e ha conosciuto pareri diametralmente opposti. Come che sia, all’immenso successo del Nostro – indiscutibile oggi in Italia, specie in ambito editoriale – ha contribuito in maniera formidabile non solo la trasposizione cinematografica dei capolavori, ma pure la trasfigurazione della sua singolarissima parabola esistenziale e creativa.

Come risaputo, il Grande Gatsby è stato rielaborato a più riprese sul grande schermo.

Quella del 1926, ad un anno appena dall’uscita del romanzo, è andata perduta. L’opera era la riduzione cinematografica di un testo teatrale ricavato dal romanzo: ciò che resta, peraltro, è solo un trailer, della durata di circa un minuto, oggi disponibile persino su YouTube. Si trattava di un film muto della Paramount Picture diretto da Herbert Brenon e prodotto da Adolph Zukor, che vedeva Warner Baxter nella parte di Jay Gatsby e Lois Wilson in quella di Daisy.

Nel 1949 il regista Elliot Nugent ne produsse una versione interpretata da Alan Ladd e Betty Field, con una splendida Shelley Winters nel ruolo di Myrtle.
La versione del 1974, la terza di quattro del
Grande Gatsby, che vide, fra l’altro, la collaborazione alla sceneggiatura di Francis Ford Coppola, le interpretazioni sapienti e intense di Robert Redford e Mia Farrow, nonché la regia di Jack Clayton, presenta alcune sensibili differenze rispetto al romanzo: a esempio, il ruolo di Myrtle, interpretato da Karen Black, ha uno spazio maggiore e vengono omessi molti aspetti del pur opaco passato di Gatsby. Il film ottenne, a ogni modo, l’Oscar per i costumi e la colonna sonora.

In ultimo, il film del 2013 con Leonardo Di Caprio diretto da Baz Luhrmann, autore dell’altrettanto celebre (e coinvolgente) Moulin Rouge!. Il ruolo di Daisy era interpretato da Carey Mulligan e quello di Jordan Baker da Elisabeth Debicki. Il film ha incassato nel mondo 351 milioni di dollari, e dunque tre volte e mezzo il budget che la produzione americano- australiana aveva disposto per l’inizio delle riprese. Si tratta di un film ben più interessante per lo splendore visivo che non per l’aderenza alla trama originale. Ottenne nel 2014 gli Oscar per la migliore scenografia e per i costumi, e diversi altri premi nel mondo, riconoscimenti che ne sottolineavano la cura e gli effetti visual realizzati al computer.

Colpisce in questo film una Daisy dai capelli biondo platino e una Jordan dai capelli neri, laddove, nel testo originale, Nick Carraway, il narratore onnisciente, descriveva neri quelli della prima e del colore delle foglie d’autunno la chioma di Jordan.

Nel 1954 era tuttavia uscito un bel film liberamente tratto dal romanzo (The last time I saw Paris), interpretato da Elisabeth Taylor e Roger Moore.

Del 1962 è invece Tender is the night per la regia di Henry King, con Jason Robards, Jennifer Jones e Tom Ewell; ma non meno rilevante è il film omonimo di Robert Knights con Peter Strauss e Mary Steenburgen, Sean Young e Teco Celio del 1985.
Di
Tender is the Night si sarebbe dovuta realizzare una versione cinematografica nel 2010, interpretata da Keira Knightley e Matt Damon, ma poi non se ne seppe più nulla. Nella bella biografia di Matthew J. Bruccoli, Some sort of epic grandeur. The life of F. Scott Fitzgerald, scavata e scovata tra le carte fitzgeraldiane, si trova un “trattamento”, cioè una post- sceneggiatura di Tender is the Night a cura dello stesso autore ove – si noti – il ruolo di Nicole era stato pensato per Katherine Hepburne o, in alternativa, per Marlene Dietrich o per Myrna Loy…

Il film TV del 1974 dal titolo Francis Scott Fitzgerald’s Last of the Belles – per la regia di George Schaefer e con la partecipazione di Richard Chamberlain, Blythe Danner e Susan Sarandon – narra la storia del primo incontro del grande prosatore con la moglie Zelda a Montgomery (in Alabama), trasfigurato entro il confine di un gradevolissimo racconto.

Ancora vivo negli occhi per la bellissima regia di Elia Kazan, The last Tycoon. Gli ultimi fuochi, del 1976, con un cast di attori davvero straordinario, ove spiccano Robert De Niro, Jeanne Moreau, Robert Mitchum, Angelica Huston, Jack Nicholson e Tony Curtis.

La “vita spericolata” di F. Scott Fitzgerald, in una parola, ha infiammato l’immaginazione di Hollywood per molti decenni decisivi di un “lungo Novecento” che, secondo storiografi di fama, non si è ancora concluso.
Ancora,
Adorabile Infedele del 1959, diretto Henry King con l’interpretazione di Gregory Peck e Deborah Kerr, si ispira alla vita dello scrittore negli ultimi anni della sua esistenza, cupamente segnati da quell’alcolismo che ne causò la morte.

Diverse, inoltre, le opere filmiche tratte dai suoi racconti. Basti solo por mente a The curious case of Benjamin Button, un film di David Fincher con Brad Pitt, Cate Blanchett e Tilda Swinton. È la storia di un giovane nato vecchio il giorno della fine della Prima guerra mondiale, che, col passare del tempo, ringiovanisce, iscrivendo così la storia della sua vita nella grande storia del Novecento americano, in una circolarità temporale rovesciata; di là da qualche giudizio argomentato poco e male, resta un film di grande fascino.

 

Cercheremo ora – nella breve biografia intellettuale che, evidentemente, già siamo delineando – di identificare quei tratti di stile, quelle configurazioni dell’arte del narrare in cui la vita e l’opera di Francis Scott Fitzgerald si trovano quasi inestricabilmente collegate, pur ben consapevoli del fatto che il duro, incontentabile, inafferrabile lavoro dell’artista de race si sforza di seguire e d’inseguire – come variatis variandis, in fondo, la dimensione ineffabile del sogno – una complessa e complicata molteplicità di forme, si accorda su svariate sintonie reali, probabili o possibili, allaccia differenti configurazioni, intrattiene (sovente) ardite, temerarie analogie... Conseguenza evidente di tale riflessione è che, sul travaglio creativo senza fine di qualsivoglia artista degno di questo nome, non è mai legittimo né, soprattutto, epistemologicamente corretto tentar di proiettare semplici rapporti deterministici, tanto comodi quanto affetti da riduzionismo e, dunque, quasi sempre sterili, anzi fuorvianti.

Le passioni predominanti nella vita di Scott Fitzgerald furono i sogni, intesi essenzialmente sia come ambizioni (talora grandiose, smisurate fino alla hybris bella e buona...), sia come desideri ardentemente meditati e vissuti: fra questi si segnalano, beninteso, la letteratura, l’Università di Princeton, Zelda e – come risaputo – l’alcol.


Nacque il 24 settembre 1896 a St. Paul in Minnesota. Il padre Edward veniva dal Maryland ed era un gentiluomo di modi squisiti e antiche lealtà alla causa sudista. Il nome di Francis Scott rappresenterebbe un omaggio dei genitori all’autore delle parole dell’Inno nazionale americano, Francis Scott Key, che nella realtà troviamo tra gli antenati – era un cugino di secondo grado –, ma questo riferimento genealogico fu sempre rimosso dal Nostro.

La madre, Mary (Molly) McQuillan era figlia di un immigrato irlandese, arricchitosi come inventore di un supermercato ante litteram, Wholesale Grocer a St. Paul. Entrambi i genitori erano di confessione cattolica e si erano sposati sei anni prima a Washington D.C. L’etimologia del nome Fitzgerald pare derivi dal latino, ove Fitz starebbe per Filius; dunque il cognome famigliare significherebbe Figlio di Gerald.

Dopo il fallimento di un’impresa di mobili in vimini, la famiglia si trasferì a Buffalo, New York, dove il padre prese impiego come venditore per la Procter & Gamble. Nel 1908, quando Francis aveva dodici anni, a seguito delle dimissioni del padre, la famiglia fece ritorno a St. Paul, vivendo abbastanza confortevolmente grazie alla sostanziosa eredità della madre Molly. A ogni modo, le difficoltà del padre e, soprattutto, i suoi spostamenti cagionati dal lavoro ebbero una notevole influenza sulla psicologia del sensibilissimo Francis.

Il primo racconto a stampa sul giornalino della scuola – una detective story intitolata The Mystery of the Raymond Mortage – è opera di un tredicenne: era il periodo in cui frequentava la St. Paul Academy. Sulla Bildung dell’adolescente ebbe un ruolo importante Padre Sigourney Fay, presso la Newman School, ad Hackensack, New Jersey, frequentata tra il 1911 e il ’13. Egli, uomo colto e di schietta spiritualità, incoraggiò le possibilità e le ambizioni migliori del Nostro, individuandone con lucidità rara, fra il resto, talune peculiarità determinanti e riconoscendone, comunque, il valore. Egli inoltre sarà il dedicatario del suo primo romanzo, This side of Paradise, in cui la sua figura verrà evocata, onorata e, almeno in qualche misura, immortalata nel personaggio di Monsignor Darcy.

Il 1913 è l’anno dell’iscrizione alla più prestigiosa università d’America dell’epoca, ossia a Princeton. Gli studi però vennero negletti in favore dell’apprendistato letterario. Furono gli anni della scoperta dei classici (antichi e moderni) e dei contemporanei: basti qui citare la feconda lettura di H. G. Wells, George Bernard Show, Oscar Wilde, Walter Pater. In questo periodo, felice e spensierato secondo la maggior parte dei biografi, trascorso tra feste, incontri sportivi e occasioni mondane, non va peraltro sottovalutato l’interesse per il teatro e la poesia. Non per caso, infatti, compose commedie musicali per il “Triangle club”, una famosa organizzazione studentesca che lo rese popolare e della quale aspirò – ma senza successo – alla presidenza.

Poi, nel 1916, vanno ricordati due incontri importanti: con il filosofo e poeta John Peale Bishop e con Edmund Wilson, compagni di college che collaboravano alla rivista Nassau Literary Magazine e contribuirono ad approfondire le sue conoscenze di “classici moderni” come Tennyson, Swinburne, Keats e, soprattutto, Joseph Conrad. John Peale Bishop è, di fatto, il maestro di poesia per Scott: gli insegna, fra il resto, la sottile, sfuggente differenza tra ciò che è poesia e ciò che non lo è; Edmund “Bunny” Wilson, invece, può essere considerato come la sua prima “coscienza critica”, leale quanto spietata. Ad avviso di Wilson, per esempio, “a Fitzgerald era stata data un’immaginazione vulcanica senza controllo intellettuale, l’intenso desiderio della bellezza senza un ideale estetico, il dono, la grazia dell’espressione letteraria che può essere senza molti ideali per esprimerla” .

Gli anni a Princeton sono segnati anche dall’incontro con una bella ragazza dell’alta società di Chicago, Ginevra King, con la quale ebbe una breve ma incisiva liaison: fu il suo primo serio e, a suo modo, romantico amore, sia come sia, durò poco e lo lasciò profondamente deluso.

Queste esperienze, d’altronde, non tarderanno a riemergere e a concretizzarsi in materia narrativa, rimodulate e tradotte in un particolare aggettivo, nelle voci di un dialogo, in una ben precisa inflessione della forma, dell’espressione verbale.

Nel 1917, con l’intervento degli Stati Uniti nel primo conflitto mondiale, F. Scott entra nell’esercito e abbandona l’Università senza aver conseguito la laurea. Deciso ad andare come volontario in guerra in Europa, nel nome degli ideali di Libertà e Giustizia che caratterizzavano le nazioni dell’Intesa, venne in un primo tempo stanziato in Kansas e poi in Florida. Le lunghe giornate inattive nei campi di addestramento a Fort Leavenworth (Kansas)furono però riempite dal lavoro sul romanzo che aveva iniziato a Princeton, vale a dire dalla prima stesura di The romantic egotist che, dopo diversi rifiuti e travagliose revisioni, sarebbe diventato la sua prima opera di successo: This side of Paradise.

Nel 1918 venne inviato prima in Georgia, poi in Alabama a Camp Sheridan. Qui, durante un ricevimento al Country Club di Montgomery, conobbe Zelda Sayre e se ne innamorò perdutamente. Lei, una giovane dai modi affascinanti e dal portamento sicuro , era nata il 24 luglio 1900 a Montgomery ed era la figlia di un importante giudice della Corte Suprema dello Stato. A maggio si era diplomata alla Sidney Lanier High School. Aveva appena compiuto diciotto anni. Si fidanzarono.

Il 26 ottobre 1918 troviamo F. Scott a Camp Mills, presso Long Island, in attesa di essere imbarcato con le truppe di fanteria dirette in Europa, ma d’improvviso giunge la notizia che la guerra è finita. Ritornato a Camp Sheridan diviene aiutante in campo del Generale J. A. Ryan. Ma nel febbraio del ’19 si è già congedato dall’esercito, presumibilmente incompatibile con la sua autentica vocazione. Intenzionato poi a sposare Zelda Sayre, si trasferisce a New York dove si impiega presso l’agenzia di advertising e pubblicità Barron Collier e prova – senza successo, ancora una volta – a lavorare come redattore in una rivista. Nonostante le misere condizioni economiche e la vita complessivamente grama, Scott scrive, pensa, immagina, alimenta sogni di gloria: auspica, anzitutto, che l’editore Scribner dia finalmente alle stampe A romantic egotist. Quanto alla diletta Zelda, le cose sembrano precipitare irreversibilmente: ella si dimostra più volte riluttante a sposarlo, fino a rompere di punto in bianco il fidanzamento. E, dopo l’ennesimo rifiuto di Scribner, Scott si ubriaca: è una sbornia memorabile, una sbornia che dura ben tre settimane...

Deluso, prostrato, in una disperazione e in una miseria che aveva sempre odiato e rifuggito, lascia il lavoro a New York e ritorna a St. Paul, presso i genitori. Qui, nella quiete familiare, ritrova un po’ di pace e riprende mano al suo romanzo, lavorandovi giorno e notte. Nel frattempo, trova la pubblicazione Babes in the Woods, un racconto considerato il suo primo successo commerciale. E finalmente il suo caporedattore presso Scribner, Maxwell Perkins, accetta di pubblicare il romanzo, che uscirà il 26 marzo 1920 col titolo di This side of Paradise, Di qua dal Paradiso. L’opera, che non tarda a rivelarsi un vero e proprio best seller, esplora la vita sentimentale degli adolescenti americani in un periodo di relativa crisi per l’America, allora una nazione alle prese con le proteste operaie e gli scioperi del ’19, la grande paura della diffusione della Rivoluzione russa e l’incremento dei prezzi dei beni primari, mirabilmente illustrati, peraltro, da un cineasta di genio come Chaplin ne Il monello e nel più tardo Tempi moderni.

Nel novembre del 1919 la ruota della vita sembra riprendere il suo corso e lo scrittore stipula un contratto con l’agenzia letteraria Harold Ober and Reynolds. I racconti sono la specialità di Ober, un editor, un amico vero, un confidente franco, il destinatario di tante missive che, assieme a Perkins, eserciterà una notevole influenza su Fitzgerald e che, per primo, riuscirà a far pubblicare Head and Shoulders su un giornale importante come “The Saturday Evening Post”. Nel giro di pochi mesi, troveranno poi spazio su varie, apprezzate riviste tre racconti tutt’altro che marginali nell’economia creativa del Nostro: The Debutante, Porcelain and Pink Benediction, Dalyrimple Goes Wrong.

Il successo letterario riaccende anche l’amore per Zelda e di Zelda: sia come sia, nel giro di pochi giorni dalla pubblicazione di This side of Paradise, la coppia si sposa nella Cattedrale di St. Patrick a New York, il 3 aprile 1920.
Nel maggio dello stesso anno, sul “The Saturday Evening Post” appaiono
Myra Meets His Family, The Camel’s Back, Bernice Bobs Her Hair, The Ice Palace e The Offshore Pirate.

Da maggio a settembre, troviamo il nostro autore al lavoro su The Beautiful and Damned, e nel luglio dello stesso anno appare sulla rivista “The Smart Set” il racconto May Day. Si tratta di un racconto davvero emblematico, che inaugura la cosiddetta “Età del Jazz” e contiene quattro storie che si fondono secondo una tecnica narrativa particolare, a intreccio, ripresa poi da uno scrittore d’indubbio talento come John Dos Passos. Si narra di un giovane ricco finito in miseria, di un ricco che resta tale, di un ricco che rinuncia alla ricchezza perché attratto da idee socialiste e di due reduci della guerra, poveri e spaesati in un Paese in preda a illusorie, inebrianti euforie.

Il 10 settembre 1920 esce Flappers and Philosophers (Maschiette e Filosofi): è la prima raccolta di racconti, otto, che dipingono un’America insieme frivola e spregiudicata, anticonformista e romantica. La maschietta di Fitzgerald non vuole responsabilità e ama solo il divertimento senza prendere alcun impegno, fino a quando... E, del resto, l’America veniva fuori dalla Grande Guerra come la più potente delle nazioni. Era un’età di miracoli, di fede nell’arte, nell’eccesso, un’era di eroi, una sorta di rinascimento della letteratura americana, che vedrà via via emergere scrittori come Hemingway, Faulkner, Dos Passos, O’Neill, Cummings e tanti altri.

Tra l’ottobre 1920 e l’aprile 1921 i Fitzgerald aprono casa al 38 West 59th Street di New York City. Il loro appartamento diviene subito luogo d’incontro e di mondanità: il loro stile di vita scandalizza i benpensanti per talune prodezze sofisticate e per le feste spumeggianti e fastose. I giovani amici, al contrario, sono come incantati, coinvolti – e talora travolti – nel turbinio sfavillante di una rinnovata, entusiasmante, forse inedita joie de vivre. Wall Street va a gonfie vele e, nei portafogli di molti, scorrono fiumi di denaro. L’America celebra il suo primato e la vecchia aristocrazia agraria è costretta a lasciar spazio alla prepotenza rampante e spericolata dei nuovi imprenditori, di coloro che comprano e vendono denaro come zucchero filato.

Tra maggio e luglio 1921 i Fitzgerald fanno il primo viaggio in Europa. Passano dapprima a Londra, poi in Francia e in Italia. A Parigi conoscono la già celebre Gertrude Stein, che orchestrava uno salotto artistico tanto ricco d’ingegni quanto anticonformista, frequentato non solo da tutti i cosiddetti “espatriati” americani, ma anche dalle più belle teste dell’avanguardia francese .


Tra il settembre 1921 e il marzo 1922, esce a puntate sul “Metropolitan Magazine”
The Beautiful and Damned (Belli e dannati), il secondo romanzo dello scrittore, che affronta il tema della dissoluzione morale e psicologica nell’America degli anni ’20, la rincorsa ai titoli in Borsa, il consumo sfrenato di beni di lusso, il ragtime, il fox-trot, i debiti che si accumulavano sui debiti.


Il 26 ottobre 1921 nasce Frances, soprannominata Scottie, la figlia di Scott e Zelda. Nasce al 626 Goodrich Avenue di St. Paul, ove la coppia ha fatto ritorno. Il 4 marzo 1922 abbiamo la pubblicazione vera e propria di
The Beautiful and Damned presso Charles Scribner’s Sons.

La vita di St. Paul annoia molto Zelda e così la famiglia ritorna a New York, stabilendosi a Long Island che, non casualmente, diventerà lo scenario del suo più celebre romanzo, Il grande Gatsby. Anzi, a Great Neck, proprio come Jay Gatsby, la giovane coppia darà favolose e dispendiose feste, quasi leggendarie anche nel racconto dei partecipanti. Fitzgerald diviene subito lo scrittore simbolo della nuova generazione uscita dalla guerra, divisa tra i miti obsoleti della vecchia aristocrazia agraria e gli slanci di una nuova era industriale, nella quale si andavano a mano a mano imponendo, sulla scorta emozionale della Belle Époque, la società di massa, il fascino di un consumismo ancora in nuce ed altri fenomeni sociali affatto nuovi. Al White Bear Yacht Club di Long Island la famiglia rimarrà non oltre la primavera del 1924, indebitandosi per mantenere un alto tenore di vita, chiedendo continui anticipi sulle vendite editoriali, fino poi a decidere di stabilirsi in Francia.

Nel giugno del 1922 era uscito The Diamond as Big as the Ritz su “The Smart Set” e, nel settembre dello stesso anno, quella della seconda edizione di Tales of the Jazz Age (Racconti dell’età del Jazz), che contiene tre racconti inediti, i migliori pubblicati, forse, fino ad allora.

Il 27 aprile 1923 viene data alle stampe la commedia in tre atti The Vegetable, or from President to Postman (Il vegetale, o da presidente a postino), messa in scena il 19 novembre 1923 ad Atlantic City, New Jersey con un clamoroso, amarissimo insuccesso.

In questo periodo la coppia vive una vita disordinata e “farsesca” – come scriverà Nancy Milford nella sua insuperata biografia di Zelda – segnata dall’alcolismo e dalla perdita di amici cari come lo scrittore Ring Lardner, la cui figura somiglia, per più versi, a quella del compositore Abe North di Tender is the night. Il 5 aprile 1924 esce, in tutti i modi, How to live on $36,000 a Year sul “The Saturday Evening Post” – scritto forse per fronteggiare le molte e ingenti spese – e poi, a metà aprile, troviamo la famiglia di nuovo in Francia.

Dopo aver trascorso il mese di maggio a Parigi, dove conoscono Sara e Gerald Murphy, una ricchissima coppia americana, i Fitzgerald si trasferiscono per l’estate a Villa Marie (Valescure, St. Raphaël) in Cosa Azzurra. Qui Scott s’impegna intensamente nella stesura di un nuovo romanzo, The Great Gatsby, iniziato a Long Island. Nel luglio del ’24 la moglie Zelda si invaghisce dell’aviatore francese Edouard Jozan: ciò darà luogo a una crisi matrimoniale, a litigi e incomprensioni che sfoceranno nel tentativo di suicidio di Zelda. Onde superare tale momento grave e, potenzialmente, irreversibile, tra l’ottobre del ’24 e il febbraio del ’25 la famiglia si reca in Italia: prima a Roma, all’Hotel des Princes, dove il Nostro rivede le bozze e completa la redazione definitiva del romanzo, e quindi a Capri, all’Hotel Tiberio. Una lettera dell’ottobre 1924 a Maxwell Perkins segnala un giovane, promettente scrittore americano: Ernest Hemingway...

Il 10 aprile 1925 è la data della pubblicazione di The Great Gatsby. I Fitzgerald sono a Parigi. Il romanzo però non ottenne il successo del precedente. La critica non se ne accorse, tanto che, fra il ’27 e il ’34, uscirono meno di dieci scritti critici sul testo, ma un grande, raffinatissimo intellettuale americano naturalizzato inglese, T.S. Eliot, lo definì: “Il primo passo in avanti della letteratura americana dopo Henry James”. La prima edizione italiana esce, per i tipi di Mondadori (“I romanzi della palma”), nel 1936 col titolo di Gatsby il Magnifico; conviene ricordare che la traduzione, tutt’altro che spregevole, è di Cesare Gardini.

Il romanzo segnava un progresso rispetto alla produzione antecedente dell’autore, anche dal punto di vista stilistico e strutturale. Ora tutti i particolari nella narrazione, la descrizione dell’auto di Gatsby, ad esempio, acquisiscono una forza suggestiva, una valenza simbolica e poetica assolutamente nuova e originale rispetto al passato. La residenza di Gatsby è un grande parco di divertimenti: si tratta, a ben vedere, di un documento quasi scientifico – potremmo azzardare – della società dell’epoca, mettendo in scena, fra l’altro, la magia ammaliante della stratificazione di classe, di una lotta che, in questo caso, è pure una lotta fra amore e morte.

Certo, Jimmy Gatz/Jay Gatsby confonde il valore dell’amore col potere d’acquisto del denaro, e non è poco: questo risulta, comunque, uno dei nuclei fondativi e generatori del romanzo, e la sua volontà che nasce dal cuore diviene una sorta di principio archetipico e fiabesco, si traduce nel volto di chi tradisce e viene tradito dalle promesse dell’America.

Con un metodo appreso, con tutta probabilità, dall’amato Conrad, Fitzgerald costruisce la figura di Nick Carraway, ovvero quella di un narratore parzialmente coinvolto nella narrazione, che osserva a distanza, riluttante ma, allo stesso tempo, spinto a giudicare, a decidere. Il nuovo senso della prospettiva è, in buona sostanza, il tratto distintivo del romanzo: in verità, tutto ciò che vi accade è filtrato attraverso la percezione di Nick. Egli è dentro e fuori, simultaneamente attratto, incantato e infine espulso “dall’inesauribile varietà della vita” – come dirà nel finale.

Nel maggio del 1925 Francis Scott incontra di persona Ernest Hemingway al Dingo Bar: un appuntamento di estremo rilievo, forse soprattutto per l’autore di The sun also rises (Fiesta). Nell’agosto del ’25 i Fitzgerald lasciano Parigi per recarsi in Costa Azzurra, ospiti dei Murphy: proprio sul Mediterraneo, fra il resto, abbiamo le prime attestazioni della stesura di un nuovo romanzo, Tender is the night. Secondo l’Hemingway di una lettera quanto mai eloquente (a Max Perkins), siamo dinanzi al romanzo più bello e solido che Scott abbia composto nella sua parabola poietica, tanto breve e complicata quanto rivoluzionaria: “I read it last year again and it has all the realization of tragedy that Scott ever found” .

Nel gennaio del 1926, Zelda dà i primi segni di “crisi nervosa” (all’epoca la psichiatria si esprimeva ancora così...) e viene ricoverata per un breve periodo presso la clinica Salies-de-Béarn. Agli spostamenti, ai litigi, alle faccende finanziarie, alle incomprensioni fonde, si aggiungeva ora la malattia di Zelda. In questo stesso periodo viene pubblicato The Rich boy sul “Redbook Magazine”, la versione teatrale di The Great Gatsby, curato da Owen Davis e prodotto, a Broadway, per la regia di un George Cukor ancor giovane.

In febbraio compare All the Sad Young Men, la terza collezione di racconti di Francis Scott Fitzgerald. Di ritorno in Riviera, la coppia affitta Villa Paquita a Juan-les-Pins e si reca dai Murphy dove, questa volta, sono raggiunti da Hemingway. Francis Scott scrive How to Waste Material: A Note on My Generation, che verrà pubblicato in The Bookman del maggio ’26. Si tratta, perlopiù, di scritti in onore di Hemingway, miranti in special modo a fargli ottenere un giusto riconoscimento internazionale, ma anche di acute e, alle volte, imprevedibili osservazioni critiche sulle mode letterarie e sulla ricezione dei suoi stessi romanzi.

Nel dicembre del ’26 la coppia ritorna in America e, nel gennaio dell’anno successivo, si reca a Hollywood, perché Scott possa lavorare alla sceneggiatura di Lipstick, una commedia di Constance Talmadge prodotta dalla United Artists. L’opera non verrà realizzata, ma a Hollywood incontrano la giovane attrice Lois Moran, che interpreterà la parte di Daisy nel film del ’36. Tra il ’27 e il ’28, i due vivono a Wilmington, nel Delaware, ove Zelda, fra il resto, prende lezioni di danza. Tra l’aprile del ’28 e il settembre dello stesso anno, i Fitzgerald si recano a Parigi e quindi, tanto per cambiare, fanno ritorno negli Stati Uniti.

Il 28 aprile del 1928, sul “The Saturday Evening Post”, viene pubblicato The Scandal Detectives, la prima della collezione di racconti che vede come protagonista il personaggio di Basil Duke Lee. Il 2 marzo 1929 compare poi The Last of the Belles, sul “The Saturday Evening Post”.

Nel marzo la coppia è ancora in Europa, in viaggio tra Genova, la Costa Azzurra, Parigi, e poi di nuovo a Cannes, ove affittano Villa Fleur des Bois. In ottobre sono raggiunti dalla tragica notizia della crisi della Borsa di Wall Sreet. Negli Stati Uniti, inizia – si sa – la Grande Depressione: di fatto, finisce proprio qui l’allegra, generosa, folleggiante Jazz’s Era.

Sul piano editoriale, abbiamo il 5 aprile 1930, ancora sul “The Saturday Evening Post”, è pubblicato First Blood, il primo dei cinque racconti che ha come protagonista Josephine Perry. Il 23 aprile 1930 Zelda viene ricoverata presso la clinica Malmaison, presso Parigi. La diagnosi è allarmante: “schizofrenia”. I ricoveri si susseguono presso la clinica Val-Mont a Glion, e presso la clinica Prangins di Nyon, in Svizzera. La crisi famigliare si traduce, per Francis, anche in una profonda crisi personale, senz’altro aggravata dal consumo smodato di alcol. Il tracollo fisico gli impedisce di lavorare al completamento di Tenera è la notte, per il quale aveva già ottenuto alcuni anticipi – forse utilizzati in toto per le spese mediche e per la cura della piccola Scottie.
11 ottobre 1930: esce
One Trip Abroad, è la storia – con palesi riferimenti autobiografici, va da sé – di una coppia americana in crisi durante un viaggio in Europa.
Il 26 gennaio 1931 muore il padre Edward, sempre stimato da Scott un’autentica figura di riferimento. Mentre Zelda si trova ricoverata ad Annecy, egli torna in America per assistere alle esequie. Il 21 febbraio
Babylon Revisited appare sul “The Saturday Evening Post” e, nello stesso giornale, il 15 agosto è la volta di Emotional Bankruptcy.
Dimessa Zelda a metà settembre, i Fitzgerald sono di nuovo in America. Prendono casa a Montgomery, e Scott si reca da solo a Hollywood per lavorare alla sceneggiatura di
Red- Headed Woman per la Metro Goldwyn Mayer. Il 17 novembre 1932 muore anche il padre di Zelda, l’illustre e impeccabile Giudice Sayre.
Il lutto sprofonda Zelda in una seconda “crisi nervosa”: questa volta, verrà ricoverata alla clinica psichiatrica del Johns Hopkins Hospital di Baltimora. Nei giorni durissimi dell’ospedale, Zelda completa la prima stesura del suo primo romanzo:
Save Me the Waltz. Questo fatto effettivamente sui generis suscita non poche ironie nelle lettere di Scott al proprio editor. La pretesa letteraria di Zelda incontra resistenze sotterranee, non detti in famiglia, perplessità radicali, anche se, nel frattempo, Scott prende casa nelle vicinanze, dove va a vivere con la figlia e dove, nel giugno dello stesso anno, sarà raggiunto dalla moglie, finalmente dimessa. Nell’ottobre del ’32 sull’“American Mercury” esce Crazy Sunday, un racconto alquanto originale, e, proprio nello stesso mese, viene pubblicato il romanzo di Zelda, Save Me the Waltz. Le critiche sembrano discordanti: ciò nondimeno, a prescindere dal libro, un testo teatrale di Zelda – dal titolo molto significativo Scandalabra – viene messo in scena dai Vagabond Junior Players, a Baltimora.

Tra il gennaio e l’aprile del 1934, come era del resto già accaduto per altre opere, lo “Scribner Magazine” pubblica a puntate Tender is the Night.
In febbraio, Zelda va incontro a una nuova, acuta “crisi nervosa”: è la terza. Ricoverata in clinica, verrà poi trasferita alla Craig House, Beacon, New York. Qui la terapia psicologica troverà espressione anche in una mostra di opere pittoriche.
Il 12 aprile 1934 uscirà finalmente in volume
Tender is the Night. La lunga attesa per quest’opera, alla quale lo scrittore aveva lavorato a lungo e con lucidissima passione, non trovò – guarda caso! – riscontri troppo favorevoli. Il successo di pubblico e critica risultò difatti abbastanza fragile, superficiale: ciò incise pesantemente sia sulle già precarie condizioni economiche di Scott, sia sul suo stato di salute, che andava via via appassendo: sta di fatto che, di là dai notori eccessi di vario ordine, fu ricoverato per un attacco di tubercolosi a Tryon, in North Carolina.

Nel marzo del ’35 uscì la sua quarta silloge di racconti, dal titolo Taps at Reveille. Tra il febbraio e l’aprile del 1936, la rivista “Esquire” pubblicherà una serie di saggi raccolti con il titolo di The Crack-Up, che rappresentano una testimonianza drammatica, sincera e – non di rado – struggente delle diverse crisi patite in quegli anni, funestati dalle continue ospedalizzazioni di Zelda, da un alcolismo vieppiù dispotico e minaccioso, nonché dalla propria malattia. Con candore e semplicità, Scott non nascose al pubblico la propria depressione profonda, quasi abissale e senza speranza, ma nessuno, di fatto, raccolse il suo grido d’aiuto; Hollywood anzi, racconta Fernanda Pivano con l’efficacia secca di sempre, “gli rifiutò un contratto che sarebbe stato forse la sua salvezza” . Lo stesso Hemingway non si dimenticò di chi lo aveva lanciato a livello internazionale e, sulla rivista “Esquire”, verrà in suo soccorso con un testo dal titolo The Snows of Kilimanjaro, in cui si trova un esplicito riferimento al “poor Scott Fitzgerald”, riprendendo – con qualche variazione necessaria – le medesime tematiche affrontate nei saggi fitzgeraldiani di Afternoon of an Author.

Nel settembre del ’36 muore a Washington Mollie McQuillan Fitzgerald, l’amatissima madre di Scott e, nel marzo del ’37, esce sul “The Saturday Evening Post” un racconto dal titolo oltremodo eloquente ed emblematico, Trouble: si tratta, con ogni probabilità, del più denso ed intenso testo breve pubblicato in vita.

Indebitato fino al collo, nel luglio del 1937 Fitzgerald si reca per la terza volta a Hollywood. Riesce ad ottenere un contratto come sceneggiatore presso la casa del leone ruggente, la Metro Goldwyn Mayer, a 1.000 $ a settimana. Prende casa sul Sunset Boulevard. Qui incontra una giornalista esperta di cinema molto affascinante, Sheilah Graham, e si concentra sulla sola sceneggiatura che rechi il suo nome, Three Comrades (Tre compari), tolta da un romanzo di Erich Maria Remarque ancor fresco di stampa. È, in estrema sintesi, la storia di tre giovani soldati tedeschi tra la fine della Prima guerra mondiale e i primi anni dell’ascesa nazista. Interessante notare che il film venne prodotto dal grande Joseph L. Mankiewicz.

Nel dicembre del ’37 il contratto con la MGM viene rinnovato per un altro anno, per tutto il 1938, a 1.250 dollari a settimana. Appena possibile Francis si reca ad Asheville, ove Zelda si trova ospedalizzata, e passa con lei quattro giorni a Charleston e Myrtle Beach, in South Carolina.

Tra il febbraio del ’38 e il gennaio del ’39 Francis Scott Fitzgerald lavora alle sceneggiature di Infidelity, Marie Antoinette, The Women e Madame Curie, ma non è molto amato dai propri compagni sceneggiatori, che lo trovano sovente ubriaco, sfuggente, stanchissimo e, in una parola, inaffidabile.

Allo scadere dell’anno il contratto con la MGM non verrà rinnovato: Gone With the Wind, Via col vento è il suo ultimo impegno prima del licenziamento. Nel tentativo di recuperarlo da un alcolismo grave quanto sconcertante, Sheilah – ora sua amante – lo fa ricoverare a New York; e, anzi, dal marzo all’ottobre del 1940, troviamo Scott Fitzgerald impegnato come free-lance per le principali case dell’ industria cinematografica americana : la Paramount, l’Universal, la Twentieth Century-Fox, la Columbia.

Del luglio 1939 è la fine della collaborazione con il suo “storico” agente Harold Ober e, nell’estate del ’39, inizia un altro romanzo dal titolo provvisorio The Last Tycoon.
Venuta meno l’alleanza, l’amicizia, la collaborazione di una vita con Harold Ober, lo scrittore tenta inutilmente di stipulare contratti per la vendita dei diritti d’autore con l’editore Collier, e, seppure abbandonato da tutti, riesce a pubblicare su “Esquire” nel gennaio del ’40
Pat Hobby’s Christmas Wish, il primo di una serie di diciassette racconti.

Nel maggio del 1940 Francis Scott Fitzgerald ritorna a Hollywood, dove, il 21 dicembre, muore in seguito a un infarto. Il 27 dicembre 1940 verrà sepolto nel Rockville Union Cemetery, di Rockville, nel Maryland. Otto anni dopo, a seguito di un incendio scoppiato nell’Ospedale di Montgomery, ove era ricoverata da tempo, muore anche Zelda. La salma sarà inumata, insieme con quella del marito, nel cimitero di Rockville.

Nel 1941, verrà pubblicato postumo The Last Tycoon a cura dell’amico e compagno di università Edmund Wilson, che aveva amorosamente seguito le indicazioni lasciate su fogli sparsi dall’autore. Nel 1950 la figlia Scottie, sposata Lanahan donerà alla Princeton University il lascito di carte, manoscritti, lettere e appunti in suo possesso. Alla sua morte, avvenuta nel 1975, anche lei sarà sepolta assieme ai genitori, nella chiesa di St. Mary a Rockville.


Opere di Francis Scott Fitzgerald

This side of Paradise, 1920

Flappers and Philosophers, 1920

The Beautiful and the Damned, 1922

Tales of the Jazz Age, 1922

The Vegetable, 1923

The Great Gatsby, 1925

All the Sad Young Men, 1926

Tender is the Night, 1934

Taps at Reveille, 1935

The Last Tycoon, 1941

The Crack Up, 1945

Opere complete in lingua originale

F. Scott Fitzgerald: Manuscripts, (a cura di) Matthew J. Bruccoli, 18 voll, New York, Garland,1990-91
The complete works of Francis Scott Fitzgerald, 13 voll., Cambridge – New York, Cambridge University Press, 1991 -2001.

Opere tradotte in italiano di Francis Scott Fitzgerald

Tenera è la notte, traduzione di F. Pivano, Torino, Einaudi 1949


Il grande Gatsby, traduzione di F. Pivano, Milano, Mondadori, 1950


Di qua dal Paradiso, traduzione di F. Pivano, Milano, Mondadori, 1952


Belli e dannati, traduzione di F. Pivano, Milano, Mondadori, 1954


Gli ultimi fuochi, traduzione di B. Oddera, Milano, Mondadori, 1959


Basil e Cleopatra, traduzione di D. Tarizzo e C. Salmaggi, Milano, Il Saggiatore, 1960

Ventotto racconti, traduzione di B. Oddera, Milano, Mondadori, 1960


L’età del jazz, traduzione di D. Tarizzo, Milano, Il Saggiatore, 1960


Postino o Presidente?, traduzione di D. Tarizzo, Milano, Il Saggiatore, 1962


Crepuscolo di uno scrittore, traduzione di G. Monicelli, Milano, Mondadori, 1966


Crepuscolo di uno scrittore, traduzione di G. Monicelli, Milano, Mondadori, 1967


Racconti dell’età del Jazz, traduzione di G. Monicelli e B. Oddera, Milano, Mondadori, 1968

Romanzi, a cura di F. Pivano, Milano, Mondadori, 1972


Lembi di Paradiso: racconti, a cura di M. J. Bruccoli. Traduzioni di V. Mantovani e B. Oddera, Milano, Mondadori, 1975


I taccuini, a cura di M. J. Bruccoli. Introduzione di S. Perosa, Torino, Einaudi, 1980


La crociera del rottame vagante, a cura di R. Cagliero, Palermo, Sellerio, 1985


Festa da ballo, a cura di S. Petrignani, Roma-Napoli, Theoria, 1985


I racconti di Pat Hobby, a cura di O. Fatica, Roma-Napoli, Theoria, 1985


Maschiette e filosofi, a cura di Pietro Meneghelli, Biblioteca economica Newton, Roma 1996

Racconti dispersi, a cura M. J. Bruccoli, traduzione di B. Oddera, Milano, Mondadori,1999-2001
Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato: consigli a scrittori, lettori, editori, prefazione di N. Lagioia, a cura di L. W. Philips, traduzione di L. Carra, Roma, Minimum fax, 2000

Caro Scott, carissima Zelda: lettere d’amore di F. Scott e Zelda, a cura di J. R Bryer e C. W. Barks, traduzione di M. Premoli, Milano, La Tartaruga, 2003

Lettere a Scottie, a cura di M. Bacigalupo, Milano, Archinto, 2003.

Studi sulla vita di Francis Scott Fitzgerald

A life in letters: A new collection edited and annotated, a cura di M. J. Bruccoli, New York,Scribner,1994
D. S. Brown,
Paradise lost. A life of F. Scott Fitzgerald, Cambridge, Massachusetts – London, England, The Belknap Press of Harvard University press, 2017

M. J. Bruccoli, Some sort of epic grandeur. The life of F. Scott Fitzgerald, Columbia, South Carolina, University of South Carolina, 2nd rev. ed. 2002
M. J. Bruccoli, Ftizgerald Smith, S., Kerr, J. P. (a cura di),
The romantic egoists: A Pictorial Autobiography from the scrapbooks and albums of Scott and Zelda Fitzgerald, New York, Scribner, 1974


A. B. Turnbull,
Scott Ftizgerald, New York, Scribner’s, 1962


S. Mayfield,
Exiles from Paradise. Zelda and Scott Fitzgerald, New York, Delacorte Press, 1971

N. Milford, Zelda, Milano, Bompiani, 1971


A. Mizener,
The Far side of Paradise, Boston, Houghton Mifflin, 1951


Zelda Fitzgerald,
Il romanzo di Zelda, Milano, Rizzoli, 1965


Sheilah Graham,
Adorabile infedele, Milano, Mondadori, 1959


Sheilah Graham,
The Rest of the story, New York, Coward-McCann, 1964


Sheilah Graham,
College of one, London, Weidenfeld and Nicolson, 1966.

Studi sull’opera di Francis Scott Fitzgerald

H. Bloom, F. Scott Fitzgerald’s Great Gatsby, New York, Chelsea House, 1986


H. Bloom’s guides,
F. Scott Fitzgerald’s The great Gatsby, New York, Infobase Publishing, 2006


E. Cecchi,
Scrittori inglesi e americani, Milano, Il Saggiatore, 1964


A. Cecchini,
La casa senza tetto: il narcisismo nell’opera e nella personalità di F. Scott Fitzgerald, Pisa, ETS, 1988


P. Citati,
La morte della farfalla. Zelda e F. Scott Fitzgerald, Milano, Mondadori, 2006

M. Cowley, Il ritorno degli esuli, Milano, Rizzoli, 1963
S. Donaldson,
Fool for love: F. Scott Fitzgerald, New York, Congdon and Weed, 1983


E. Hemingway,
Scott Fitzgerald, Hawks do not share, A matter of measurement, in A moveable feast, New York, Scribner, 1964


B. Magnum,
A fortune yet: Money in he art of F. Scott Fitzgerald’s short stories, New York, Garland, 1991


J. R. Mellow,
Invented lives: F. Scott & Zelda Fizgerald, New York, Ballantine Books, 1984

Barbara Nugnes, I temi e la critica in Invito alla lettura di Fitzgerald, Milano, Mursia, 1977

C. Pavese, Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951


S. Perosa,
L’arte di F. S. Fitzgerald, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961


S. Perosa,
Le vie della narrativa americana, Milano, Mursia, 1965


F. Pivano,
America rossa e nera, Firenze, Vallecchi, 1964


F. Pivano,
Balena bianca e altri miti, Milano, Mondadori, 1961


R. Prigozy, (a cura di),
The Cambridge companion to F. Scott Fitzgerald, Cambridge, Cambridge University Press, 2002

M. J. Tate, F. Scott Fitzgerald A to Z: the essential reference to his life and work, New York, Facts on file, 1998


E. Vittorini,
Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957


E. Wilson,
The shores of light: A literary chronicle of the twenties an thirties, New York, Farrar, Straus & Giroux, 1958


E. Wilson,
Saggi letterari, 1920-1950, Milano, Garzanti, 1967


E. Zolla,
Prefazione a F. Scott Fitzgerald, L’età del jazz e altri scritti, Milano, Il Saggiatore, 1966.

Saggi apparsi su riviste italiane e giornali

A. Arbasino, Memorie di Scott Fitzgerald, in “Paragone”, XI, Agosto 1960

L. Berti, Un giovane americano non inferiore a Hemingway, in “La fiera letteraria”, 15 marzo 1953


F. Bolzoni,
Fitzgerald e l’età del jazz, in “Leggere”, 2 febbraio 1962


E. Cecchi,
L’opinione letteraria: i racconti dell’epoca del jazz, in “L’europeo”, 15 ottobre 1950

E. Chinol, Due storici della crisi americana, in “Comunità”, VIII, aprile 1953


N. Fusini,
Il diamante grande come l’America, in “Studi americani”, 17, 1997

L. Manera, Scott e Zelda, gli archivi di un amore dannato, in “Corriere della sera”, 31 luglio 2002


E. Montale,
F. Scott Fitzgerald, araldo della generazione perduta, in “Corriere della sera”, 7 marzo 1951


A. Moravia,
La bella vita tra le due guerre, in “Il Mondo”, 11 giugno 1949


S. Perosa,
Fitzgeraldiana, in “Annali di Cà Foscari”, X, 1-2, 1971


F. Pivano,
Fitzgerald e la sua generazione, in “Aut-Aut”, novembre 1951.

 

Sitografia

La disillusione del sogno americano in Francis Scott Fitzgerald Voce su Francis Scott Fitzgerald su Wikipedia


The Matthew J. & Arlyn Bruccoli Collection of F. Scott Fitzgerald F. Scott Fitzgerald Society


Francis Scott Fitzgerald su Online literature

Note

  1. Cfr. E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna, Il Mulino, 2007.

  2. E. Montale, F. Scott Fitzgerald, araldo della generazione perduta, in “Corriere della Sera”, 7 marzo 1951.

  3. F. Scott Fitzgerald, Sarà un capolavoro. Lettere all’agente, all’editor, agli amici scrittori, Roma, Minimum fax, 2017, passim.

  4. M. Bruccoli, op. cit., p. 68.

  5. Fine and full hearted selfishness and chill-mindedness [...] Thin blu eyes, a direct nose, and penciled mouth, she projected a hawkish visage accentuated by short, honey-blond hair” (Cfr. M. Bruccoli, op. cit., p. 46).

  6. Celeberrimo il film di Woody Allen Midnight in Paris del 2011.

  7. Cfr. N. Milford, Zelda, New York, Harper, 1970, passim.

  8. D. Brown, Paradise lost, op. cit., p. 253.

  9. Cfr. F. Pivano, Pagine americane, Frassinelli, 2005, passim.

 

 


LA SCUOLA CHE NON C’E’

 

 

 

MAURO CONTI

 


Introduzione

Perché? L’ipotesi di un ripensamento del sistema scolastico nasce dall’esigenza di rispondere alle richieste che vengono dalla società. Come l’imprenditore che debba riprogettare la sua azienda per meglio affrontare la concorrenza e la propria posizione societaria all’interno del sistema di mercato, così noi, come esercizio scolastico del Master sulla Dirigenza di IUL, abbiamo pensato alla realizzazione di un modello, l’immagine di uno scenario possibile per la scuola. Martin Heidegger, nei Seminari di Zollikon, per spronare alla filosofia i suoi discenti era solito dire: “Come sarebbe la realtà se tutto improvvisamente non fosse?”.1 L’esercizio che qui proponiamo è esattamente, sostanzialmente questo: ipotizzare, immaginare come potrebbe essere la Scuola italiana se il suo sistema, le sue strutture, la sua organizzazione, i suoi principi improvvisamente venissero meno.

Indubbiamente il nostro presente è intessuto in una materia che è costituita di saperi e di competenze. A spostarsi dalla Sicilia verso il Nord Europa sulle rampe dell’A1 non sono solo i TIR carichi di agrumi, ma sono soprattutto dati, sapere, conoscenza. Viviamo nella società dell’informazione, della comunicazione delle informazioni; non possiamo non avvertirne il senso. E’ proprio in questa direzione che si situa la possibilità di una nuova scuola, la sua ipotesi come la necessità di nuovi modelli operativi, di nuovi metodi di studio, di nuove strutture organizzative che sappiano rispondere in primo luogo alle richieste dei discenti, degli esseri che vivono nel presente del nostro tempo, della nostra società e del nostro territorio.

In realtà, come i filosofi antichi e come lo stesso Heidegger in definitiva ci ha insegnato, non possiamo dire di conoscere perfettamente i confini dell’Anima umana 2, così noi, allo stesso modo, non abbiamo un chiaro quadro di cosa intendiamo quando, forse con baldanzosa presunzione, parliamo di discenti, di scuola, di esigenze del nostro tempo, di società della conoscenza e dell’informazione. In fondo, la domanda che ci poniamo è: Cosa significa autenticamente educare? Cosa significa apprendere? Chi sono gli educatori e gli educati? Perché la Scuola è organizzata in questo modo, con i suoi tempi, le sue routine? A ben guardare, essa si configura come la stanca riproduzione della struttura sociale esistente, avvertiva il sociologo francese Pierre Bourdieu, e non invece come stimolo per quella mobilità sociale che essa si prefigge deliberatamente. A volte sembra quasi che l'educazione, ricordava il grande sociologo in tempi che prefiguravano rivoluzioni, non si occupi tanto del sapere, ma di “abiti” che riguardano piuttosto il rapporto col sapere. Habitus convergenti con gli habitus familiari di gruppi sociali dominanti, in grado di pagarsi l’educazione, che si ritrovano avvantaggiati rispetto ad altri. In questo modo, il sistema scolastico non tende a selezionare chi governa il sapere, ma solo chi appartiene ad una determinata classe sociale.3

Allora, in sostanza, si domanda il Dirigente quando ipotizza il suo progetto mettendolo in relazione al dettato della nostra Costituzione: di cosa parliamo quando parliamo di scuola? Non sono rare le volte in cui, soffermandosi a riflettere sui significati dell’Istituzione, sembra di partecipare a una recita, un processo, una rappresentazione.

Come osservava Ivan Ilich, in un testo che come quello di Bourdieu, ha fatto epoca, “Molti studenti, specie se poveri, sanno per istinto che cosa fa per loro la scuola: insegna loro a confondere processo e sostanza. Una volta confusi questi due momenti, acquista validità una nuova logica: quanto maggiore è l'applicazione, tanto migliori sono i risultati; in altre parole, l'escalation porta al successo. In questo modo si «scolarizza» l'allievo a confondere insegnamento e apprendimento, promozione e istruzione, diploma e competenza, facilità di parola e capacità di dire qualcosa di nuovo. Si «scolarizza» la sua immaginazione ad accettare il servizio al posto del valore.” 4

Se, “per la maggior parte delle persone l'obbligo della frequenza scolastica è un impedimento al diritto di apprendere” bisogna incominciare a porsi il problema del modo, del metodo per realizzare un apprendimento autentico.

In realtà “L’istruzione universale non è attuabile attraverso la scuola. Né lo sarebbe di più se si ricorresse a istituzioni alternative costruite sul modello delle scuole attuali. Ugualmente non servono allo scopo né nuovi atteggiamenti degli insegnanti verso gli allievi, né la proliferazione delle attrezzature e dei sussidi educativi (in aula e a casa), né, infine, il tentativo di allargare la responsabilità del pedagogo sino ad assorbire l'intera vita dei suoi discepoli. All'attuale ricerca di nuovi imbuti didattici si deve sostituire quella del loro contrario istituzionale: trame, tessuti didattici che diano a ognuno maggiori possibilità di trasformare ogni momento della propria vita in un momento di apprendimento, di partecipazione e di interessamento.”5

In fondo l’istruzione autentica non avviene che attraverso “la scelta delle circostanze che facilitano l'apprendimento”6, i metodi, le possibilità, le occasioni che si attagliano meglio al nostro desiderio di imparare, che lo soddisfano. Sono storie, racconti, trame di cui siamo protagonisti, in cui, finalmente, possiamo avvertire la volontà7 prendere forma nella nostra vita. Il metodo non è che il modo e il modus, come ben sapevano i latini, est in rebus, nelle cose, nel sapere, nella conoscenza, nell’amore per la conoscenza. Nel mito, Sofia attrae a sé i suoi fedeli con modi e tempi che sono veri e propri atti d’amore.

“I modelli educativi sono sempre stati l’espressione delle classi sociali che abitavano gli spazi della Storia”8, forse non in una relazione causa effetto così stretta, ma appare indubbio che la trasmissione del sapere si sia sviluppata entro questi confini.

Per il nostro percorso vorremmo riferirci a quattro modelli che consideriamo significativi e che hanno ispirato la nostra ipotesi di studio:

1) La scuola medievale. A Bologna, nell’Università medievale, i docenti facevano scuola a casa propria e venivano pagati direttamente dai discenti al termine della lezione: la casa del docente dunque come aula universitaria, come aula di tribunale, come piazza, teatro anatomico, cattedrale.

2) La scuola dei precettori gesuiti che dal ‘600 all’800 operavano nelle dimore nobiliari per il figli dell’aristocrazia e praticavano la scuola della retorica, intesa non solo come arte della persuasione, ma soprattutto come arte del linguaggio, di una lingua che si adattava e comprendeva tutto, ogni aspetto della realtà.

3) La scuola della Montessori, del laboratorio, delle applicazioni tecniche, ma anche la scuola della relazione, delle pause, degli errori, dei silenzi. Il discente come un Re in ascolto calviniano9 che pratichi, se possibile, la meditazione trascendentale.

4) I corsi di recupero di Italiano e Latino. Seppure non frequenti, quelli proposti offrono un quadro molto soddisfacente delle possibilità che si aprono con una didattica personalizzata. Certo, non possiamo rapportarci unicamente alla nostra soddisfazione, ma a volte appare questo il modo migliore per un autentico apprendimento; solo così è possibile capire il bisogno formativo, fare un’analisi completa delle lacune dei nostri discenti e adottare le strategie migliori per colmarle. Gli ottimi risultati che si ottengono nei termini, puri e semplici, delle conoscenze acquisite, e, pur nella consapevolezza che le competenze verranno poi a svilupparsi nella socializzazione di quanto acquisito, riteniamo che la personalizzazione dell’apprendimento sia una strada da perseguire, se non addirittura da recuperare.

La Tecnica, almeno da Nietzsche in poi, è considerata quale espressione della volontà di potenza dell’uomo. Non c’è dubbio che nella vita dell’uomo occidentale, avvertita come erranza tra essere e nulla, essa svolga un ruolo fondamentale10. Così come le religioni cercano la via della salvezza, sovente a scuola, una scuola sacralizzata a questo punto, si intende l’educazione come preparazione alla vita, fortificazione dell’animo contro le difficoltà che il futuro potrebbe riservare, allenamento per prepararsi alle tempeste che il viaggio esistenziale riserva. La Tecnica, il Sapere, la Conoscenza, La Scienza sono così concepiti come ricerca del Fondamento, come Rimedio al Nulla, opposizione ostinata della Vita contro la Morte, una morte intesa come annullamento totale, fine estremo dell’esistenza, ritorno al Nulla primordiale.

Una Tecnica così intesa ha sopraffatto la nostra intelligenza, questo habitus culturale ha negato lo spazio al nostro pensiero, al nostro vivere, alla nostra creatività. La Scuola, l’Istruzione, il Sapere sono tutti coinvolti nella costruzione della grande Fortezza, della ricerca dei Fondamenti, dell’Episteme contro il Male di Vivere, contro il Dolore, la Morte. Ma in una Scuola così orientata tutti diventano atleti, tutti sono divorati da un’ansia gnostica, o, peggio, girano frustrati come scienziati pazzi alla ricerca dell’Elisir di lunga Vita.

La scuola, di cui qui si ipotizza la dimensione concettuale, vorrebbe e dovrebbe vivere nel presente, essere incontro di esperienze, espressione di voleri. Nella nostra idea, il sapere vuole essere inteso come un convegno di possibilità, di amore per la vita, poiesis, non può essere inteso unicamente come volontà di sopraffazione, potenza, lotta per l’esistenza. Qualcuno ha detto: “la morte non muore mai, non muore mai la vita”. Tutti i gli sforzi della Conoscenza per sconfiggere la Morte che annulla e distrugge per approdare al Fondamento, all’Assoluto, alla Legge Universale paradigma del Bello, del Buono, del Giusto non sono che l’espressione della nostra debolezza, della nostra fragilità e non di un sapere, di una scuola intesa come possibilità dell’essere, esperienza dell’altro, meraviglia, bellezza di vivere e amare, incontro.

Da queste premesse sorge dunque l’esigenza di ipotizzare una nuova scuola, una scuola che corrisponda al bisogno di sapere come atto dell’esperienza viva del vivere, come celebrazione della vita e delle sue possibilità, di una conoscenza come espressione dell’umano nella sua totalità e non solo nella sua relazione tra luce e ombra, bene e male, caos e verità, paradigmi del sistema epistemico occidentale. Un nuovo umanesimo prefigura la nostra iniziativa. Curiosità ed elogio dell’ombra, dell’anomalia, di ciò oltrepassa i nostri consueti orizzonti è quanto ascolta la nostra scuola; è l’orizzonte concettuale, la Mission della nostra ispirazione, ma anche l’amore per tutto ciò che è vivo e presente, che abita i nostri giorni così come si sono definiti nel corso dello spazio, nel dispiegarsi del tempo. “Anziché linearmente, la conoscenza crescerà con molte diramazioni, che saranno percorse, abbandonate, poi riprese e approfondite, e così via. Il processo somiglia di più alla costruzione di una rete che si arricchisce gradualmente in tutte le direzioni attraverso le connessioni che l’esperienza stessa porta alla luce.”11.

 


Capitolo I

 


Dove? Mimesis della Scuola

 


Dove si situa la Scuola che non c’è? Dove il suo essere ambiente educativo? Cosa si intende per ambiente educativo?12 Si potrebbe dire che sia il punto di incontro tra le direttrici di una rete, il luogo dove si incontrano le strade ipotetiche che sono state tracciate. Per il vero, un centro direzionale fisico e concreto, materiale e sostanziale è necessario. E’ necessario il cuore, il cervello dal quale si diramano le direttrice nervose che sono le strutture organizzate, le discipline, i laboratori, gli insegnamenti obbligatori e complementari. “La scuola che non c’è”, noi la intendiamo dal punto di vista organizzativo in modo mimetico, immersa totalmente nella realtà sociale del territorio. La scuola esiste come il luogo a cui si fa riferimento per le questioni burocratiche, per tutto ciò che riguarda le azioni da intraprendere, gli scenari e il pensiero educativo. In realtà la nostra scuola, dal punto di vista strutturale, architettonico, potrebbe stare tutta in un Cloud, in uno spazio virtuale, nella memoria al silicio di un server dispensatore di software applicativo, di moduli, di programmi didattici, testi digitali, di convenzioni e contratti con tutti coloro che operano o usufruiscono del servizio. Insomma un archivio di Dati capiente quanto è capiente il Sapere di cui si vuole fare segno. Questa ipotesi, in realtà, è concretamente realizzata nelle Grande Rete, nel Web, che con la sua struttura a Stella rappresenta uno spazio in cui ogni luogo è centro, intersezione di direttrici dove non c’è una periferia. Nella nostra ipotesi, ogni luogo della città è sede di scuola, dunque ogni luogo è adatto ad essere spazio d’insegnamento, aula didattica decentrata come decentrata è, in fondo, la locazione delle varie attività nel tessuto cittadino. Ad esempio:

 
La biblioteca pubblica. Questo luogo, molto importante per la diffusione culturale e per la diffusione dell’amore per il sapere, non può forse diventare lo spazio adatto e accogliente per l’insegnamento delle discipline umanistiche, e non solo? Ci sono molti progetti in questa direzione, ci sono finanziamenti per la progettazione architettonica di scuole che superino il disegno e i vincoli tradizionali dell’aula scolastica, ma bisogna pensare che queste aule scolastiche esistono già nella realtà: sono appunto le biblioteche. Perché non pensare ad una fruizione nuova dello spazio della lettura, dello studio che questi ambienti mettono a disposizione?

Ogni insegnante, quando si lavora in un’aula didattica, ha bisogno di testi di riferimento sempre a disposizione per citare, consultare, esaminare, approfondire una tematica, una questione particolare. E una biblioteca così immaginata deve essere confortevole, progettata da architetti che la concepiscano come spazio di relazione e scambio e non come solitario e chiuso confronto con un testo. Certo, il silenzio, la concentrazione su un testo come modalità percettiva avrà la sua importanza e il suo luogo, ma la Biblioteca dovrebbe essere prima di tutto un centro di incontri e scambi, di dialogo e interrelazioni. La legge 107/2015 ha disposto fondi per l’arricchimento delle Biblioteche scolastiche, ma è indubbio che per molti centri urbani partire dalle biblioteche esistenti ampliandone la capienza, rivolgendone l’impostazione e la destinazione come centri di didattica significherebbe un risparmio di energie finanziarie e una ricollocazione efficace ed efficiente del patrimonio pubblico. Per altro, le biblioteche oggi assumono sempre più l’aspetto di centro servizi multimediali, e non dunque solo distributori di prestiti librari e sale di lettura, ma anche luoghi di attività ed esperienza, fucine di conoscenza e relazioni. La nostra ipotesi, in molte realtà, è già stata realizzata.

 
Centro commerciale. Quale luogo migliore per studiare il marketing, il commercio in genere, la strategia e le scienze d’impresa, la chimica e la biologia delle merci, dei prodotti, la vendita, la metodologia e la psicologia degli acquisti e dei contratti? Non è forse vero che quando si acquista si valutano opzioni, si esplorano possibilità? Ogni scuola, ogni apprendimento ha bisogno di questo bagaglio di conoscenze per interferire con la realtà; ogni sapere vive in questa negoziabilità pulsante e opima di scambi commerciali, di mediazioni finanziarie e prende decisioni, e valuta offerta e domanda con attenzione. Il Centro commerciale inoltre, con le sue attività, con le sue dislocazioni, forse più che una romantica panchina isolata nel parco pubblico, è anche luogo d’incontro di solitudini, dunque può essere individuato come luogo di osservazione sociale, paradigma per un’indagine statistica, capitolato per un’analisi approfondita dei costumi pubblici. Non ci sono limiti alla spendibilità didattica del centro commerciale e non dovrebbero essercene anche nel situare aule didattiche nei suoi spazi.

 
Piazza come centro di socialità e scambio. Nella piazza italiana convergono saperi e funzioni diverse: civile, sociale, religiosa, militare; la piazza è poi una scuola del sé e dell’altro da sé. La piazza è scuola di politica e anche segno della cultura di un popolo che in essa ha posto le sedi delle principali funzioni della vita cittadina. La piazza con il Comune, la Chiesa, il Mercato, il palazzo di Giustizia…La piazza, coi suoi monumenti, i luoghi di ricreazione, i caffè, la storia, l’arte, l’architettura, la piazza è la scuola nello spazio e nel tempo di una comunità nelle sue interrelazioni, nelle sue volontà per non dire dei suoi silenzi metafisici, nelle sue alienazioni. A leggere la Piazza e il suo territorio si impara a leggere la nostra storia e la nostra identità pubblica, il nostro essere individuale definito come il tutto di una parte, o la parte di un tutto. E poi d’estate le lezioni si possono fare ai tavoli dei caffè, si possono seguire conferenze, proiezioni pubbliche, concerti, manifestazioni politiche.

 
Fabbriche, aziende, centri artigianali. Le fabbriche ci insegnano la produzione, il mondo del lavoro e una parte considerevole della sua organizzazione. Ogni Dirigente dovrebbe rivolgersi a fabbriche e aziende significative per la produzione del territorio. Nel bolognese le aziende di meccanica sono molto importanti e poter fare esperienza di teoria come di pratica, per i giovani del posto, sarebbe come unire l’utile al dilettevole. Ducati, Maserati, Lamborghini potrebbero prestare una piccola parte dei loro spazi per attività didattiche di questo tipo. Non meno importanti sono gli artigiani. La produzione artigianale sempre nel settore della meccanica, ma il discorso vale nella generalità dei settori, sostiene l’economia del territorio locale e nazionale e non può essere vista solo come il passo successivo dopo il periodo dell’ apprendimento, dopo la scuola. In termini concreti, il mondo del artigianato e il mondo della scuola devono essere posti in dialogo. L’Alternanza Scuola-Lavoro proposta dalla 107/2015 va in questa direzione, dopo che significative esperienze della scuola tecnico professionale avevano già indirizzato la didattica italiana e l’Istruzione pubblica. Oggi, per altro, nel nostro territorio, ci sono anziani che, non avendo eredi, metterebbero volentieri a disposizione l’esperienza di una vita nel loro settore specifico e un Dirigente deve saper intercettare queste possibilità, portandole al pubblico, all’apprendimento, definendone poi il sistema concettuale e teorico interdisciplinare di riferimento. La bottega artigiana, con l’apprendimento imitativo, è stata fino a poco tempo fa il cardine del sistema di trasmissione delle conoscenze. Non è possibile disconoscerne il valore. “Certo, -sostiene Antinucci nel suo testo La Scuola si è rotta, dal quale abbiamo tratto tanti spunti di riflessione- un sistema basato sull’apprendimento percettivo-motorio è molto limitato relativamente al numero di persone che si possono formare”13 ma non è detto che la creatività gestionale di un Dirigente illuminato non possa superare brillantemente l’ostacolo.

 
La città è un’aula didattica formidabile14. La sua storia, il suo presente, la sua opposizione alla campagna, i suoi slanci verso il futuro sono libri aperti da cui tutti possono leggere, su cui tutti possono scrivere. Le istituzioni cittadine possono insegnare, con l’esempio diretto degli organi deputati, competenze utili alla costruzione di una coscienza collettiva, di un senso di cittadinanza che, soprattutto nel nostro paese, appare perduto. La città con le sue luci può e deve rientrare in un percorso di apprendimento secondario. Non c’è insegnamento che la città non possa offrire, non c’è luogo, centro o periferia che non possa essere aula didattica. Fare a piedi la città, fare a piedi la campagna, attraversare in autobus, in metropolitana, in bicicletta gli spazi pubblici costituisce un’esperienza conoscitiva e il compito dell’insegnante sarà, semplicemente, quello di fare segno e significato di tutto ciò. Il compito del Dirigente sarà quello di farne un ambiente didattico e professionale per l’esercizio dell’apprendimento.

 
Musei, Cinema, Teatri, Bar, Pizzerie e la Spiaggia, il Bosco, i Giardini pubblici, i campi incolti o arati rappresentano una parte consistente e notevole del nostro scenario educativo. I Musei sempre più frequentemente attrezzano i propri spazi ad aule didattiche; i cinema e i teatri oggi possono anche restare aperti tutto il giorno per fare prove, proiezioni speciali, corsi di storia del cinema e di teatro. Il Museo è la migliore aula didattica per la pittura, la scultura e le arti plastiche, disse un grande insegnante e artista come Pierre Bonnard. Attraverso l’imitazione si affina l’esperienza, si fa conoscenza, si sviluppa una scienza.

Nelle spiaggia o nei campi, in mare o nei giardini pubblici o nei boschi, attrezzeremo la nostre palestre, le nostre scuole della natura e vi faremo il laboratorio di aquiloni, la scuola di vela e di wind surf. Dove non c’è spiaggia ci saranno altri luoghi per fare altre cose. La fisiologia umana poi può esercitarsi ovunque. Il bosco è un’aula di biologia, così come lo sono il parco pubblico e i giardini: perché non utilizzarli per fare scuola? Ambulare sotto i portici dell’Accademia costituiva parte importante dell’insegnamento aristotelico: perché non attribuire ai nostri luoghi la stessa funzione dei portici greci, apprendendo mentre si passeggia, ragionando, situando il comprendere nel camminare?


Capitolo II

 


Come? Una proposta di didattica innovativa

 


Il problema del metodo, del modus è il problema centrale della nuova scuola. Come insegnare? Con quali metodi? Ogni innovazione non può non prendere in considerazione l’aspetto metodologico perché su di esso si situa il nuovo progetto formativo. Se oggi, nell’ambito della scuola primaria, la sperimentazione è abbastanza frequente e consolidata su pratiche condivise in reti operanti e attive, non si può affermare che lo sia altrettanto nel ciclo secondario o universitario16.

 
Chiunque abbia esperienza di insegnamento attivo nella Scuola, specie nella Secondaria di Secondo grado, non può negare che ci sia un problema: quello dell’apprendimento. Stiamo utilizzando le migliori strategie per i nostri allievi? Abbiamo fatto tutto ciò che andava fatto perché i nostri ragazzi comprendessero le nostre lezioni o fossero messi a loro agio nel loro percorso di crescita? Perché Paolo R. , Marcella C., … quest’anno sono stati bocciati e dovranno ripetere l’anno scolastico con gli stessi professori di Matematica, Scienze o Inglese? Perché i ragazzi non capiscono ciò che a noi sembra chiarissimo? E’ veramente solo un problema di impegno, di volontà, di “studio” ciò che allontana i giovani dall’apprendimento o c’è dell’altro?17 Cosa intendiamo quando parliamo di studio, di volontà, di impegno? Il significato di queste parole è lo stesso per noi come per i nostri studenti?

C’è qualcosa che non va nel modello trasmissivo della scuola, c’è qualcosa che non va nella didattica delle discipline come ci è stata consegnata dai nostri predecessori e che noi continuiamo stancamente a ripetere come se fossero saperi indubitabili, immutabili, verità universali che nessuno può pensare di mettere in discussione. Oggi occorre promuovere l’innovazione, un’innovazione aperta, sostenibile, trasferibile. In pratica la lezione frontale, ex cathedra, il modello trasmissivo della scuola ormai non funziona più. Ci sono modi più̀ coinvolgenti di fare lezione. La nostra scuola pensa se stessa come una continua attività laboratoriale, in cui l’insegnante è regista e dispensatore di processi cognitivi, di silenzi, di dubbi, anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione. Nella nostra idea, il docente lascia spazio alla didattica collaborativa e inclusiva, al brainstorming, alla ricerca, alla didattica tra pari; egli è punto di riferimento fondamentale per il discente, ma anche per il gruppo, e lo guida attraverso processi di ricerca e acquisizione di conoscenze e competenze che di fatto rivoluzionano la relazione tradizionale, il patto educativo classico, il suo stesso ruolo. Un autentico apprendimento attivo potrà essere realizzato solo sfruttando materiali aperti e riutilizzabili, simulazioni, esperimenti hands-on, giochi didattici provando, facendo, sbagliando. Questa scuola supera il modello trasmissivo classico fondato sull’adeguazione a una Norma ritenuta onnicomprensiva e universale, e si apre a modelli di didattica attiva che mette lo studente in situazioni di apprendimento continuo, di messa in discussione del sapere acquisito argomentando il proprio ragionamento, correggendolo strada facendo, presentandolo agli altri.

La fluidità dei processi comunicativi e la società liquida18 in cui tutti siamo immersi impongono la creazione di nuovi spazi per l’apprendimento. L’aula scolastica con i banchi disposti in ordine successivo non è più in grado di rispondere a contesti educativi moderni e impone un ripensamento che, partendo dagli spazi e dai luoghi, vada alla ricerca di soluzioni flessibili, polifunzionali, modulari e facilmente configurabili in base all’attività svolta. Il problema dei tempi dell’apprendimento acquista valenza centrale soprattutto quando si vogliono oltrepassare gli steccati rigidi del calendario scolastico, dell’orario delle lezioni e della parcellizzazione delle discipline in unità temporali minime distribuite nell’arco dell’ anno scolastico. Nuove prospettive si aprono19 tenendo conto della necessità di una nuova razionalizzazione delle risorse, di una programmazione didattica articolata in segmenti, unità e moduli formativi, con l’affermarsi delle ICT che favoriscano nuove modalità di apprendimento e, soprattutto, di nuovi tempi.

Le tecnologie digitali, intese come strumento e non come fine dell’azione educativa, riducono le distanze e aprono a nuovi spazi di comunicazione. Cloud, mondi virtuali, l’atteso Internet of Things consentono di collegare luoghi ed esperienze del sistema scolastico con le imprese, enti locali, associazioni, fondazioni e di creare nuovi spazi per l’apprendimento. Questo, in definitiva, è il cuore del nostro progetto. La fluidità̀ dei processi comunicativi innescati dalle ICT, oltre a rappresentare una straordinaria attrattiva, impone, come detto, un ripensamento degli spazi e dei luoghi. La stessa architettura dell’aula di lezione, oggi, per la nostra ipotesi, non può non prevedere soluzioni flessibili, polifunzionali, modulari, non può non offrire possibilità che siano facilmente configurabili in base all’attività svolta e in grado di soddisfare contesti sempre diversi. Solo spazi così concepiti favoriscono il coinvolgimento e la ricerca attiva dello studente, i legami cooperativi e lo star bene a scuola. Solo queste condizioni indispensabili possono promuovere una partecipazione consapevole al progetto educativo e innalzare la performance degli studenti. 

I software che gestiscono il volo dei Jet internazionali o quelli che “sparano” esseri umani nello spazio, per non dire quelli che addestrano i piloti della Ferrari, sono tutti costosissimi. In effetti, la loro programmazione comporta spese onerose perché il programmatore deve ipotizzare scenari virtuali il cui indice di occorrenza è rarissimo. Ogni programmatore pensa la realtà come eventualità del possibile. Pare un’impresa titanica, pare follia, ma nel frattempo le Google cars, guidate unicamente da software, percorrono le strade della California: qualcuna si scontra, provoca incidenti mortali, altre hanno guidato senza causare conseguenze ospedaliere ai loro utenti.

Droni, stampanti 3 D: è chiaro che la scuola non può escludere la possibilità degli scenari virtuali nella implementazione degli apprendimenti. Insegnare a un occhio a guardare, a un arto a camminare, insegnare a un chirurgo a operare riproducendo la perfetta configurazione di un corpo umano, oppure imitando il gesto di un maestro che si trova al tuo fianco in modo virtuale è uno possibilità che la scuola deve cogliere. Certo, si tratta di strumenti, di tecniche, di metodologie didattiche che non esauriscono la totalità dei significati dell’educazione e che tra qualche tempo saranno aspramente criticati dalle nuove generazioni di educatori; la scuola non può farsi sfuggire queste occasioni, non può non aprirsi a queste eventualità, a queste evenienze. Ogni Dirigente che operi in un contesto territoriale determinato, quando prende una decisione, deve valutarne, attraverso lo scrutinio delle possibilità, i possibili effetti. Il rapporto causa-effetto da Kant in poi rientra nel dominio della soggettività e non è sempre definibile in maniera oggettiva. Quando la tecnologia consente di valutare in anticipo gli effetti delle decisioni, può diventare un valido aiuto all’esperienza e all’intuizione. Analisi delle possibilità, sintesi delle decisioni da prendere passate al vaglio del possibile è ciò che ha ispirato sempre il buon padre di famiglia, è il principio dell’efficacia e dell’efficienza: la valutazione degli scenari possibili è un ausilio indispensabile.

Il fondamento del nostro progetto didattico è, in sostanza, quello che riconnette i saperi della scuola con i saperi della società e quelli della conoscenza: l’espansione della Rete ha reso la conoscenza accessibile in modo diffuso. Il patrimonio di fatti e nozioni che una volta era monopolio esclusivo di pochi, oggi è aperto alla comunità e ai cittadini. Ma il sapere che circola nella società contemporanea non è solo codificabile nella forma testuale e nella struttura sequenziale, simbolico-ricostruttiva del libro di testo, ci sono altre modalità di apprendimento e la scuola se ne deve fare carico. La scuola deve tornare a investire, come indicato molto chiaramente dalla 107/2015,  sul capitale umano. Occorre ripensare la geografia dei rapporti e delle relazioni didattiche: cosa è dentro, cosa è fuori, cosa si intende per insegnamento frontale e cosa si intende per apprendimento tra pari. Una scuola d’avanguardia trova nella progettualità fattiva dell’azienda un riferimento costante, anche se non esclusivo; la nostra scuola vede nel territorio, nell’associazionismo, nelle imprese, nei luoghi informali i suoi partner ideali. Del resto, ogni occasione è buona per mettersi in discussione in un’ottica di miglioramento, per arricchire la professione con un’innovazione e un aggiornamento continuo che garantisca la qualità del sistema educativo.

 

Promuovere l’innovazione significa riflettere su di sé e sul proprio operato di educatori, significa individuare l’innovazione, connotarla e declinarla affinché sia concretamente praticabile nella didattica, ma anche sostenibile e trasferibile ad altre realtà che ne abbiano i presupposti, che ne condividano lo spirito. Su tre piani strettamente interconnessi si esprimono dunque i processi di innovazione: didattica, spazio e tempo.

 
La didattica è a fondamento del processo di cambiamento che miri a superare le rigidità del calendario scolastico, l’orario delle lezioni o la parcellizzazione delle discipline; ci sono poi i limiti strutturali di un’aula ancora concepita con i banchi allineati e gli arredi fissi, testimoni muti di un’epoca che confligge con la dinamicità dei processi comunicativi contemporanei.

Noi riteniamo, come detto, che il problema dello spazio con quello del tempo scolastico possano rappresentare una svolta innovativa nella rappresentazione della nostra scuola: nuovi ambienti di apprendimento immersi nel tessuto sociale, spazi flessibili distribuiti sul territorio, aule laboratorio disciplinari, ambienti reali che sono al contempo luoghi di esperienza ed educazione. Insomma vogliamo aprirci a una didattica di tipo laboratoriale, che superi l’unità temporale dell’ora di lezione, che ridefinisca i confini tra apprendimenti formali-non formali-informali anche attraverso una compattazione del calendario scolastico, ripensandola come una Flipped classroom, come la didattica fondata sul “Debate”, "TEAL”, “Spaced learning”, “ICT lab” ed anche la Didattica per Scenari.

Indubbiamente la L. 107/2015 ha rilanciato il dibattito su questi problemi, ha sollecitato l’Istituzione scolastica a discutere e a predisporre contenuti didattici digitali che sappiano parlare agli studenti con linguaggi multimediali, che veicolino contenuti in grado di andare oltre la didattica tradizionale del testo scritto per mezzo di simulazioni, giochi educativi, applicazioni, anche integrando documenti multimediali a libri di testo. Il nostro progetto non può essere immaginato senza un’implementazione di questo tipo.

Il Manifesto di Avanguardie educative20 definisce in pratica operativa la sintesi metodologica a cui si indirizza il nostro progetto. Ogni scuola dovrebbe aprirsi a questo tipo di esperienza.

Per paradosso, la “Scuola che non c’è” non ha nemmeno un’architettura fisica, murale. L’aula tradizionale, pensata per una didattica ergativa e frontale va ridisegnata. Il progetto che stiamo tratteggiando deve prevedere spazi diversificati per condividere eventi e presentazioni aperti a tutti; deve concepire luoghi per attività non organizzate in cui l’apprendimento individuale avvenga in modo informale, luoghi che favoriscano la condivisione delle informazioni e stimolino lo sviluppo delle capacità comunicative; ambienti “da vivere” e in cui restare anche oltre l’orario. Anche questo è apprendimento.

Certo, oggi, l’aula scolastica è ancora uno spazio pensato per interventi frontali, il luogo in cui l’insegnante può muoversi liberamente e interagire in forma esplicita e diretta come un attore, come un mattatore con i suoi studenti. Si tratta di un’illusione: non c’è un autentico apprendimento. I diversi momenti didattici richiedono nuovi setting che sono alla base di una differente idea di edificio scolastico. Esso deve essere in grado di garantire l’integrazione, la complementarità e l’interoperabilità dei suoi spazi. Una scuola d’avanguardia nasce da un nuovo modello di apprendimento e di funzionamento interno, nel quale la centralità̀ dell’aula viene superata.

La scuola che abbiamo immaginata si svolge poi entro ambienti duttili, entro spazi ad alto coefficiente di abitabilità per la comunità scolastica; consente la fruizione di servizi, per usi anche di tipo informale. In questi spazi lo scambio di informazioni è libero. Qui lo studente può studiare da solo o in piccoli gruppi, può approfondire alcuni argomenti con l’insegnante davanti a una tazza di caffè, oppure può ripassare, rilassarsi. Una scuola d’avanguardia dunque che si apre all’esterno e diventa baricentro e luogo di riferimento per la comunità̀ locale, aumentando la vivibilità dei suoi spazi. La scuola come centro civico, come piazza, come teatro delle esigenze della cittadinanza, la scuola come impulso e sviluppo per istanze culturali, formative e sociali.

Problema non irrilevante è quello poi del tempo scolastico, del restare a scuola. E’ chiaro che il calendario scolastico, l’orario delle lezioni, la parcellizzazione delle discipline in unità temporali minime rispondono a un intento ideologico, a una visione della scuola separata dall’effettiva realtà dell’esperienza individuale. Forse non si apprende giocando, dipingendo, parlando d’amore alla nostra compagna? Forse non si apprende mentre ci si rilassa, dopo una giornata di impegni e doveri avvertiti come stanca routine, sorseggiando una bevanda? A nostro avviso è l’essere stesso a trovare una sua definizione nel gioco, nella danza creativa di apprendimento e oblio, scoperta e dimenticanza. Occorre superare gli steccati rigidi dell’organizzazione scolastica, così come ci è stata consegnata storicamente e guardare le cose da una prospettiva nuova. Nuovi tempi e nuove modalità di apprendimento si aprono all’orizzonte e il tempo non formale va recuperato, va tenuto in considerazione. Questo, in fondo, è un modo per riconnettere i saperi della scuola con i saperi della società della conoscenza. L’espansione di Internet ha reso possibile il Master sulla Dirigenza scolastica, la creazione di Italian University Line, la quale non può essere concepita unicamente come archivio di fatti e nozioni, circolo esclusivo di saggi ed esperti, ma va interpretata come rete dialogante, centro aperto alla comunità e alla cittadinanza, società, agenzia educativa contemporanea in grado di valorizzare nuove competenze, nuove possibilità conoscitive, che non possono di necessità essere codificate nella sola forma testuale e nella struttura sequenziale del libro di testo.

Quali competenze richiede la società civile, l’istituzione, la moderna azienda? Cosa occorre per esercitare una professione, essere cittadini attivi, oggi? Quali abilità, quali conoscenze rappresentano il curriculum dell’uomo moderno? La scuola che ci proponiamo non si chiude nell’orizzonte di una disciplina in particolare, ma si apre a una modalità di apprendere e operare in stretta connessione con la realtà̀ circostante. E’ una scuola aperta all’evoluzione dei saperi e dei metodi; è una istituzione in grado di cogliere e accogliere il cambiamento, permettendo alla propria comunità di modernizzare il servizio scolastico in sinergia con le richieste del territorio. Come, per altro, sottolineato dalla L. 107/2015, questa scuola vuole cogliere le opportunità offerte dalla dimensione internazionale dell’innovazione. Ci sono progetti e iniziative promosse dall’Europa per sviluppare il cambiamento come European Schoolnet, erasmus+, eTwinning, Epale, una nuova dimensione internazionale si apre per la scuola.

In conclusione di questo capitolo sul metodo non si può non considerare come la conoscenza sia il bene primario della nostra società e come attraverso di essa sia data la possibilità al singolo individuo di districarsi nella selva delle informazioni e dei segni culturali imparando ad imparare, affrontando positivamente il percorso della vita con la volontà di far fronte alle incertezze, alle difficoltà e ai problemi. “La scuola che non c’è”, in fondo, aspira a ciò, è una scuola d’avanguardia radicata nel territorio, nell’associazionismo, nelle imprese e nei luoghi informali; è una scuola che non teme di mettersi in discussione in un’ottica di miglioramento, di arricchire il proprio servizio attraverso un’innovazione continua che garantisca la qualità del sistema educativo. Una scuola, insomma, aperta all’esterno, che trova forma in un percorso di cambiamento continuo, di rivoluzione permanente, basata sul dialogo e sul confronto reciproco. L’Istituzione europea sostiene l’apprendimento lungo tutto il corso della vita mettendo al centro l’individuo, l’humanitas e la capacità di cogliere tutte le occasioni possibili per accrescere il sapere. La conoscenza contro l’ignoranza, la vita contro la morte, la sapienza contro le tenebre dell’irrazionalità sono il bene primario della nostra società̀, sono conquista del singolo che nella scuola impara a imparare, impara la consapevolezza dell’essere e può così prendere per mano la propria vita. Valorizzare il singolo individuo, dare sostanza alla creatività contro la standardizzazione, alla inclusione e alla tolleranza contro la diversità e il rifiuto, alla cooperazione contro la prestazione singola: ecco il modo per trasformare la scuola. L’innovazione non è solo il risultato dell’eccezionalità di una persona, ma avviene in un contesto che la produce, che determina un’alchimia unica e irripetibile e che genera un cambiamento, una trasformazione. Occorre rendere tutto ciò estrapolabile e riproducibile affinché́ l’apprendimento possa diventare scalabile e condiviso. È necessaria una semplificazione che ne focalizzi gli elementi chiave in modo che dall’esperienza si possa risalire al modello, in modo che si possa declinare in un contesto che ne condivida i presupposti, i paradigmi e che possa riprodursi con risultati analoghi. L’applicabilità del modello, la sua riproducibilità è un carattere fondamentale dell’innovazione. L’innovazione non si nutre dell’eccezionalità di una situazione. Mette radici profonde solo se può̀ avvalersi delle risorse del territorio e sfruttare le opportunità offerte dall’autonomia scolastica. Un’innovazione è trasferibile se può essere trapiantata in un ambiente diverso da quello in cui è nata. Se trova il contesto adatto è come una pianta: mette radici, diventa albero e produce frutti che si nutrono del nuovo terreno.


CAPITOLO III

 


Che cosa? Le sette colonne del ciclo secondario

 


Il centro di questa Scuola è il Sapere, la Conoscenza. Certo, il Sapere e la Conoscenza non sono disgiunti da chi apprende e da chi insegna, da chi conosce e da chi è conosciuto, ma nel nostro orizzonte il Sapere ha una sua Autonomia, e la Gnoseologia è, per così dire, epistème operante.

Come sostiene Giuliano Franceschini in un testo messo a disposizione dal Master che ripercorre le tappe dell’evoluzione della didattica: “ Verso la fine del Novecento, si afferma una visione più complessa della didattica scolastica che prende origine dalla ricerca sul curricolo, in un primo tempo molto condizionata dalla prospettiva psicopedagogica, comportamentista e/cognitivista, ma che proprio sul finire del secolo tende invece ad orientarsi verso una prospettiva ecologica della formazione scolastica, che considera il curricolo come ambiente educativo di apprendimento, nel quale coesistono aspetti espliciti e impliciti dell’azione didattica, e le tradizionali divisioni tra aspetti emotivi e cognitivi dell’apprendimento, finalità generali educative e mezzi didattici, teoria pedagogica e prassi didattica, vengono ricomposte in una visone socio-costruttivista della formazione scolastica. Il curricolo come centro e motore della ricerca didattica riabilita il discorso sulla natura del rapporto fini – mezzi della formazione scolastica, con particolare attenzione ai concetti di competenza e di ambiente educativo, che comprendono al proprio interno sia il riferimento all’istruzione, nei termini di apprendimento di conoscenze e capacità, sia quello di educazione, nei termini di apprendimento di abitudini mentali, atteggiamenti, comportamenti duraturi nel tempo.”21

Da questa riflessione sugli ambienti di apprendimento, forse, si può partire per ripensare l’ordine dei curricoli e dei cicli scolastici così come ci sono stati consegnati dalla tradizione, dalla storia della Scuola italiana, e dall’Ordo studiorum dell’Università medievale. E, del resto, proprio nell’orizzonte delle associazioni inusitate tra discipline e curricoli, tra didattica e ambiti disciplinari differenti, nei collegamenti impensabili, nelle associazioni impossibili di ambiti diversi del sapere, noi possiamo vedere realizzate nella realtà, come nella storia della Scienza (es. Ferrovia, Automobile, Televisore, Personal Computer sono l’unione ardita di campi semantici diversi, ritenuti inconcepibili solo fino a duecento anni fa), i tratti essenziali del presente. Nell’ esperienza dell’ hic et nunc noi troviamo l’immaginazione, il guazzabuglio dell’essere, ma anche il rilievo degli accostamenti, le analogie, le sintonie coraggiose per aprire nuove prospettive di conoscenza e nuove esperienze curricolari mai esplorate.

La scuola secondaria da noi concepita è fondata sul Sapere, è organizzata intorno agli ambienti disciplinari, o meglio, intorno agli elementi primari della conoscenza, alle sue particelle elementari, per così dire. Il piano di studi ha in vista un determinato tipo di formazione ma può aprirsi anche alla mescolanza, all’ unione di insegnamenti ritenuti fondamentali e insegnamenti considerati secondari, alla libera creazione del proprio curricolo. Ogni formazione presuppone un determinato tipo di identità, di uomo, presuppone giovani ai quali consegnare in eredità valori, possedimenti dell’intelletto, certezze e, forsanche, dubbi.

Gli elementi primi potrebbero dunque essere: 1) La lingua e la letteratura italiana, le lingue e le letterature straniere. La parola e l’enunciazione. 2) La Matematica e la Geometria. 3) I Sensi, il Corpo, la Scienza medica, le Scienze motorie. 4) Le Scienze, Fisica, Chimica, Biologia, Astronomia e Scienze della Natura, e la Tecnica. 5) Le scienze dell’Informazione e l’Intelligenza artificiale. 6) L’Humanitas, la Filosofia e l’immaginazione, cioè tutte le Arti. 7) La Storia e le Conoscenze antropologico-sociali-religiose.

Gli elementi secondari nascono in relazione ai primi e li contengono. Essi possono essere, ad esempio, riconosciuti all’interno di tutte quelle discipline che si fondano sull’imitazione altrui, sull’imitazione di un maestro artigiano che nella pratica del lavoro e della progettazione giornaliera distribuisce insegnamenti pratici, applicabili e fattibili. Gli elementi secondari o complementari sono, ad esempio: Meccanica, Elettrica ed Elettronica, Idraulica, Muratoria, poi la Cucina e l’Alimentazione, la Finanza, il Marketing, la Progettazione architettonica, Salute e benessere, Marineria o Aeronautica, Moda, Ebanisteria, Liuteria…

Per poter accedere al ciclo universitario, bisognerà avere svolto un percorso di studio in ognuno di questi ambiti ritenuti fondamentali. Agli insegnamenti primari andranno integrati gli insegnamenti secondari, per i quali sarà stabilito il numero, ma non la loro definizione, perché proprio qui si misurerà la creatività del curricolo e l’originalità del percorso di formazione. Riguardo a ciò, veramente, i problemi sono aperti.

Ogni rivoluzione scientifica, insegna Kuhn22, consiste nel cambiamento di un paradigma, cioè lo slittamento verso nuove teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca in cui essi sono accettati universalmente; così ogni conoscenza, come ogni pedagogia, si misura sempre sul riconoscimento pubblico, su un comune intendere che ne verifica il valore e il senso.

Le discipline che si fondano unicamente sulla parola sono la Letteratura e la Linguistica Italiana e la Letteratura e la Linguistica Straniere, la filologia. Il dominio della parola, tuttavia, è universale e dunque fondamento della Filosofia, Logica, Storia, Psicologia, Sociologia, Antropologia o dell’arte del Cinema, Teatro come di quello scientifico, per altro. L’insegnamento della lingua e del linguaggio è trasversale e richiede poi una valutazione e una definizione di parametri di riferimento diversi per i vari campi in cui si esprime.

Discipline che si fondano sulla Matematica sono la Geometria, le Scienze in genere, il Pensiero logico-scientifico. Il calcolo, le strutture, lo spazio, le quantità, la misura sono i fondamenti dell’apprendimento di questo ordine disciplinare che attraversa, come la parola, tante discipline e che rappresenta il cardine della Scienza classica, del metodo scientifico che da Platone passa attraverso Galileo, fino all’ipotesi di Einstein.

Discipline artistiche sono il Teatro, il Cinema, la Musica, la Pittura, la Scultura, la Danza, il Canto. L’Arte, tuttavia, in quanto rappresentazione fa riferimento alla Filosofia e all’Humanitas, all’ immaginazione e alla creatività.

Discipline scientifiche sono quelle che studiano gli esseri viventi, uomini, piante, animali, la natura e il cosmo, cioè la biologia e la medicina, la botanica, la veterinaria, o la fisica, la chimica, la astronomia, e la geologia. Le scienze, utilizzando il metodo matematico come fondamento di verifica e ripetibilità dell’esperimento, presentano diverse possibilità di interrelazione. Il metodo scientifico, inteso come ripetizione e verificabilità dell’esperimento, deve essere posto al centro dell’apprendimento con le sue modalità di azione e di esperienza. E, tuttavia, attraverso quali metodi si conosce? Attraverso quali procedimenti facciamo esperienza della verità? Cosa intendiamo per verità? Dominio dell’epistemologia, della filosofia, della scienza, dell’immaginazione nella loro interrelazione, appunto.

Le discipline motorie dovrebbero trovare uno spazio maggiore nella scuola italiana, e non essere intese unicamente come riflessione di espressioni agonistiche, ma essere considerate come centro dell’individualità umana, legate alla psicologia, alla sociologia, alla medicina, alla danza, alla storia o, come insegnano i bravi maestri, anche alla matematica. Attraverso il corpo si conosce e nel corpo si esiste e si fa esperienza del mondo. Scienza del corpo, arte della memoria; nel corpo c’è il presente e il suo trasformarsi nel tempo, ci sono le dita che premono le lettere sulla tastiera del computer, c’è il silenzio, l’ombra, l’hybris, l’esperienza della gioia, l’individualità del dolore.

Scienza dell’Informazione, o Informatica. Forse non si tratta di una vera e propria scienza, infatti i suoi paradigmi sono desunti dalla matematica e dalla logica, ma di fatto quella della scienza dell’informatica è una vera e propria rivoluzione paragonabile alla scoperta del fuoco, del ferro o dell’atomo. Il suo utilizzo strumentale, soprattutto per la didattica, è fondamentale e sta sostituendo le forme tradizionali di trasmissione del sapere e di memoria delle conoscenze.

La Storia, la Geografia, il Diritto, le Scienze come l’Antropologia, la Sociologia, la Psicologia nascono dall’osservazione dell’Alterità nel corso del Tempo e nello Spazio. Esse sono impregnate del pensiero filosofico, degli enigmi della storia umana, ma ci sono anche tradizioni di pensiero che le associano ai metodi delle scienze cosiddette esatte.

Discipline che si fondano sull’imitazione altrui sono quelle arti che comportano la presenza di un maestro e di un discente, sono le botteghe artigianali in cui l’acquisizione di un mestiere passa attraverso l’imitazione e le ripetizione di gesti e metodi. L’imitazione, in genere, è a fondamento dell’apprendere, è una fonte primaria di conoscenza, ma in quest’area si vogliono tuttavia definire quei saperi artigianali che passano attraverso la ripetizione e la conseguente acquisizione di metodi e tecniche spendibili nella vita pratica di ogni giorno.Come detto, codesti sono gli ambiti elementari, fondamentali, primari del percorso di formazione. Per superare il ciclo secondario e così accedere all’Università bisognerà averli frequentati e certificati tutti. Ad essi si aggiungeranno gli insegnamenti secondari che saranno composti dalla interrelazione degli elementi primari e verranno declinati nelle specifiche singolarità delle professioni e attività umane. Anche gli elementi secondari saranno necessari al nostro profilo formativo e il loro numero dipenderà dall’indirizzo scelto. Codesto indirizzo tuttavia non sarà definito tassativamente come nella scuola attuale (Classico, scientifico, linguistico, tecnico, professionale, commerciale…) ma sarà lasciato alla libertà e alla creatività del singolo. Nella nostra scuola si studierà di più, si studierà sempre e le vacanze, come nel mondo del lavoro, avranno uno spazio più breve. Gli attuali tre mesi di vacanza sono uno spazio eccessivo lasciato a quel tipo di formazione che viene definita non formale e informale. Le tre possibilità (formale, non formale e informale) vanno reintegrate all’interno della Didattica e l’estate, o l’inverno per chi lo preferisce, dovranno restare possibilità di distacco pieno dagli obiettivi di formazione (anche se di fatto non lo sono).

 

CAPITOLO IV

 

Quando? Non stop learning

Il nostro progetto, essendo rivolto principalmente alla scuola secondaria superiore, non cambia sostanzialmente l’ordine precedente né quello successivo, vale a dire scuola dell’obbligo e università. La scuola dell’obbligo, tuttavia, potrebbe avere un percorso che va dai 4 anni ai 14, anticipando cioè l’obbligo scolastico di un anno in entrata e di due in uscita. Il primo significa portare l’esperienza della scuola primaria anticipando “l’entrata in società” che questa scelta richiede; il secondo significa liberare i giovani dall’obbligo scolastico, liberare cioè coloro che sono fortemente motivati al lavoro o perché hanno avuto un incontro disastroso con l’ambiente di apprendimento, oppure perché le esigenze delle famiglie, soprattutto quelle più povere, si fanno particolarmente stringenti a cominciare proprio da questa età, un età in cui si chiude quella che può essere definita come la prima adolescenza.

Anticipare di due anni l’obbligo scolastico significa disattendere l’orientamento dei principali paesi europei e di molti dei sistemi mondiali23. Forse solo un paese a vocazione liberista come l’ Inghilterra presenta una prospettiva assimilabile alla nostra. Eventualmente si potrebbe estendere l’obbligo anche al ciclo secondario, limitando per alcuni il percorso agli insegnamenti strettamente professionali, e consentendo loro la possibilità di guadagnare denaro, un salario, da percorsi paralleli di lavoro.

All’Università si accederebbe non prima dei diciotto anni dopo aver frequentato un numero congruo di insegnamenti fondamentali e uno stesso di insegnamenti secondari. La definizione della congruità è, ovviamente, come detto, ancora in fieri nel nostro esercizio ipotetico. In generale, per la scuola dell’Obbligo, ci sono queste linee di indirizzo europeo circa i tempi di apprendimento, il tempo passato a scuola, il tempo per l’istruzione. Il nostro Paese è così rappresentato nella ricerca Eurydice 24: “Italy

In grades 1-5 (ISCED 1), the reported instruction time corresponds to the weekly timetable of 27 hours for 33 weeks (891 hours), which is followed by 36.26 % of the students. The other possible timetables are 24 hours per week (0.6 % students), 28-30 hours (28.2 %) and 40 hours (34.9 %).

In grades 6-8 (ISCED 24), the reported instruction time corresponds to the 30 hours weekly timetable, which covers almost 80 % of the students at this ISCED level. 'Social studies' are integrated in 'reading, writing and literature', and 'natural sciences' are integrated in 'mathematics'. Instruction time for the second foreign language (language 3) can be used for teaching the first foreign language. 6.7 % of the students attend the music branch, where there is one more hour per week for each musical instrument (up to a maximum of 3 instruments). Therefore the weekly timetable in the music branch can go from 31 to 33 hours per week.

In grades 9-10 (ISCED 34), there are six licei: arts subjects, classical studies, scientific studies, foreign languages, music and dance, human sciences. Information reported for grade 9 and grade 10 concerns the liceo scientifico (which has the highest percentage of students enrolled in all licei, i.e. 31.7 %). In these grades, ICT is taught integrated into 'mathematics' (but it is taught as an independent subject in the applied sciences option of the liceo scientifico). The 'other subjects' include Latin language and literature.

At all ISCED levels, schools have the autonomy to modify the reported curriculum up to 20 % of the annual timetable, changing the allocation of instruction time across subjects, or introducing new subjects. “

A nostro avviso, soprattutto in uscita dall’obbligo, questi tempi andrebbero incrementati per fare dell’apprendimento un’esperienza a tempo pieno.

C’è poi da sottolineare l’importanza della formazione continua, della formazione permanente. La Life Long Learning 25 è parte integrante della nostra impostazione.

“Le riflessioni che svilupperò partono da una lettura del concetto di apprendimento permanente (lifelong learning), che lo interpreta come metodo necessario allo sviluppo umano, individuale e collettivo e che considera lo sviluppo della potenzialità apprenditiva e delle competenze di secondo livello, strategiche e riflessive, in particolare quella dell’apprendere ad apprendere, come motore, energia umana necessaria alle trasformazioni sociali, economiche, culturali, nelle moderne società complesse.”26

Nel progetto che stiamo illustrando l’accesso al ciclo secondario è aperto, si integra perfettamente con questa dimensione educativa e didattica anche da un punto di vista organizzativo. Il ciclo secondario nella nostra opinione va aperto alle istanze della società e va integrato con le innumerevoli iniziative esistenti.

L’Università intesa come scuola specialistica resterebbe invariata. L’unico problema dell’Università pensiamo sia, anche a giudizio di molti docenti, quello della Didattica. Molti infatti non hanno idea di cosa significhi la Didattica innovativa e fanno noiose lezioni frontali e faticose interrogazioni sulle fonti del nulla, mentre andrebbero aggiornati o almeno occorrerebbe riportare la loro didattica entro la sfera degli interessi delle nuove generazioni, che, spesso, si trovano a disagio davanti ad insegnamenti astratti o non collegati con le reali condizioni di apprendimento, col reale orizzonte delle loro volontà e possibilità cognitive. Il problema metodologico è la chiave di volta di ogni desiderio di conoscenza, è la razionalizzazione del desiderio di conoscenza e della sua utilità.

 


Capitolo V

 

 

Chi? La scuola è aperta a tutti, belli e brutti

La scuola è aperta a tutti. Il sapere lo è come la conoscenza, la scienza e le arti. Principio costituzionale, fondamento civile e anche pedagogico, la democrazia e il libero scambio delle opinioni sostengono l’architrave della nostra scuola. Opera aperta, in continua trasformazione, sempre rivoluzionaria e sempre ripiegata su se stessa, la Scuola è in ascolto della polifonia dei pensieri e delle voci che scandiscono il nostro tempo, delle mille luci del presente, delle varietà degli individui che la compongono, delle forme che strutturano il volto della società di cui è prima rappresentazione. La scuola è laboratorio di interculturalità27 ed è sempre aperta nelle sue strutture fisiche. Di notte lavorano gli astronomi, i panificatori, gli attori, gli studenti amici della Luna e gli amanti delle ombre e i pirati informatici. Di notte si può aver voglia di visitare un museo o di ascoltare una sinfonia di Arvo Parth, mentre il giorno attrae i cultori della luce e delle scienze che si fondano sulla Ragione. Certo, dal punto di vista organizzativo i costi materiali non consentono ipotesi di questo tipo. Ci stiamo esprimendo in termini paradossali semplicemente per osservare come occorra ripensare il tempo-scuola, come occorra aprire l’orario degli insegnamenti, anche per venire incontro alle varie richieste che possono scaturire dagli studenti o dalla società.

Il ciclo secondario è aperto a tutti coloro che abbiano conseguito il percorso dell’obbligo. Dunque si potrà andare a scuola dai 15 ai 100 anni. Del resto, è la Dichiarazione di Copenaghen del novembre del 2002 a insistere su questo punto: “Le strategie di apprendimento permanente e di mobilità sono essenziali per promuovere l’occupabilità, la cittadinanza attiva, l’integrazione sociale e la realizzazione personale. Costruire un’Europa basata sulla conoscenza e assicurare un mercato del lavoro europeo aperto a tutti sono due sfide fondamentali per i sistemi di istruzione e formazione professionale europei e per tutte le parti coinvolte. Lo stesso può dirsi circa la necessità, per tali sistemi, di adattarsi continuamente alle evoluzioni e alle richieste mutevoli della società. Intensificare la cooperazione nell’istruzione e formazione professionale sarà un valido contributo, sia per realizzare con successo l’allargamento dell’Unione europea, sia per conseguire gli obiettivi fissati dal Consiglio europeo di Lisbona.”28

La divisone per classi d’età caratteristica del sistema d’Istruzione attuale ci sembra un limite. Volendo guardare al problema in termini psicologici, ci si rende conto come l’apprendimento in sé non avvenga che attraverso la costruzione di strati successivi di cognizioni e sinapsi ed esse non sono collegate necessariamente con il dato anagrafico. Si possono avere come compagni di studi i propri coetanei e che si possa trarre profitto da siffatta compagnia è indubbio, i dati stanno a indicarcelo. Ma perché non apprendere assieme ai genitori, ai nonni, agli illustri sconosciuti che vogliono accrescere il loro sapere per il piacere di farlo, per il bisogno di farlo, per il gusto e l’amore della sapienza? Oltretutto questo scambio generazionale potrebbe apportare un nuovo contributo epistemologico alla stessa Scienza. Il Sapere stesso, in questo modo, non sarà più chiuso nel dilemma del prima e del poi, o del conflitto tra i vecchi e i giovani, ma potrà aprirsi alla pluralità dei possibili, alla consecutività che è nelle trasformazioni e nelle rivoluzioni epocali, allo slittamento dei paradigmi conoscitivi e dei movimenti di riforma in genere. Ogni momento della vita dell’uomo può e deve avere le sue richieste, le sue esigenze conoscitive. Nel nostro progetto chiunque potrà avere le possibilità di soddisfarle in modo compiuto, a qualsiasi età si avrà la possibilità di andare oltre il puro dato informativo, che qualsiasi agenzia è in grado di proporre, per iniziare a studiare. Liberata dal valore legale del titolo di studio, se non per quei percorsi che sono richiesti necessariamente dalla società, una scuola di questo tipo si fonda sulla bellezza, sulla meraviglia del sapere e sui bisogni che essa convoglia.

Una nuova dimensione dell’individuo aspira a definire la nostra Scuola attraverso una prospettiva, una tensione conoscitiva che non si chiuda nelle estetiche narcisistiche e solitarie della mass-mediazione contemporanea, ma si apra alle trasformazioni che le nuove generazioni sapranno apportare, creando ed esplorando significati possibili per l’essere.


CONCLUSIONI

 

Nessuna isola è un’isola. Il senso del nostro percorso di ricerca è dunque riassumibile in ciò: nessuna isola è un’isola. Tutto sta assieme e tutto si oppone in un sistema sociale, in un sistema “naturale”, o umanista come la scuola. La coscienza di ciò è il fondamento della nostra ipotesi operativa, del nostro modello ipotetico.

Nato a Scuola, dai banchi ancora allineati degli alunni come nella scuola dell’800, da certe frustranti esperienze di insegnamento, chiuse da noiosi rituali e fastidiosi comportamenti valutativi, esso aspira alla definizione di modelli innovativi per l’apprendimento, o meglio, alla messa in opera di soluzioni che, in fondo, sono ben presenti nel dibattito contemporaneo e, soprattutto, nella riflessione di un movimento come quello di Avanguardie educative.

Abbiamo visto come dal punto di vista organizzativo sia relativamente agile e semplificata la nostra scuola. Non occorre propriamente un luogo fisico per il nostro progetto se non per gli uffici del Dirigente scolastico. La Scuola è completamente inserita nella realtà sociale, fisica, professionale, civile, culturale, commerciale, sportiva del territorio di riferimento. O, forse ancora meglio, è la realtà, il presente in tutte le sue molteplici rappresentazioni a raffigurarsi come Scuola. E’ una Scuola mimetica dell’ambiente, è un progetto che proietta nel presente e nell’individuo qui e ora presente un bisogno, il bisogno di sapere, di apprendere. E’ la rappresentazione di un pensiero, di un’idea di scuola.

Questo testo deve al Master sulla Dirigenza scolastica di IUL e al sito di INDIRE i suoi elementi compositivi. Soprattutto l’insegnamento e il sito relativo sulla Didattica d’avanguardia innovativa hanno guidato le nostre ali del desiderio, il nostro turbine intelligente, per dirla con il grande Glenn Gould. E’ la riflessione sulle istanze culturali, raccordo di epistemologia pedagogica italiana e internazionale, proposte da INDIRE a costituire il paradigma culturale che sta a fondamento di questo testo. Nella nostra interpretazione abbiamo voluto edificare un progetto di Scuola che fosse coerente e, come dire, desse forma al gran lavoro di riflessione che attraversa quelle pagine. Non sappiamo se il tentativo sia riuscito; forse, come sovente accade nella ricostruzione delle rappresentazioni oniriche quando le parole faticano a ricostruire la natura della visione e la carica soggettiva del sogno, così noi abbiamo provato a definire i confini di un paesaggio mobile e affascinante come quello della ricerca e dell’innovazione e a raccontarlo nelle pagine di questo saggio scolastico.

 

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URL: http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/index_en.php

URL: http://unibz.it/de/organisation/organisation/administration/didacticsresearch/Documents/Relazione_Alberici.pdf

In conclusione un ringraziamento particolare va agli insegnanti e ai tutori del Master sulla Dirigenza scolastica, una risorsa per l’innovazione di IUL, in particolare alle dottoresse Elena Mosa e Chiara Laici, cortesi relatrici di questo testo e generose dispensatrici di suggerimenti, idee, riflessioni senza le quali esso non avrebbe preso forma.

 

1 Martin Heidegger, Seminari, Traduzione di Massimo Bonola, Piccola Biblioteca Adelphi, 1992, 2ª ediz., pp. 229
2 Giorgio Colli, La sapienza greca, I, Dioniso - Apollo - Eleusi - Orfeo - Museo - Iperborei – Enigma, gli Adelphi

1990, 6ª ediz., pp. 469
3 Pierre Bourdieu con J.-C. Passeron, La reproduction. Eléments pour une théorie du système d'enseignement, Minuit, Paris, 1970
4 Ivan Ilich, Descolarizzare la scuola, Milano Mondadori, 2002
5 Ivan Ilich, op.cit. Introduzione
6 Ivan Ilich, op.cit. Cap.1. Perché dobbiamo abolire l’istituzione scolastica
7 Volontà in senso Schopenhaueriano, anche se il grande filosofo ne riconosceva la presenza solo nella musica
8 Da una video lezione per il Master sulla Dirigenza Scolastica del Prof. Franco Cambi
9 Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, Milano, Garzanti, 1986
10 E’ forse questo, in estrema sintesi, il nucleo centrale della riflessione filosofica di Emanuele Severino, a cominciare da La struttura originaria. Emanuele Severino, (1982) La struttura originaria, Adelphi, Milano
11 Francesco Antinucci, La scuola si è rotta, Editori Laterza, Roma-Bari, 2001
12 “ Il concetto di ambiente educativo si propone esplicitamente di coniugare i due poli fondamentali della didattica scolastica, quello dell’Istruzione, relativo all’apprendimento di saperi, capacità e competenze, e quello dell’educazione, inerente la formazione di abitudini mentali, atteggiamenti e comportamenti individualmente e socialmente desiderabili. L’obiettivo di fondo di un ambiente educativo di apprendimento è infatti quello di formare un soggetto competente e nel contempo solidale, preparato nell’ambito dei contenuti e dei linguaggi culturali e professionali contemporanei, attento alle relazioni con l’altro, disponibile all’interazione sociale e non solo cooperativa, cioè caratterizzata da un reciproco scambio, ma anche autenticamente solidale, di aiuto, di cura, di riconoscimento nei confronti dell’altro. I due aspetti, grossolanamente distinguibili nei concetti di educazione ed istruzione, sono nella pratica indistinguibili sebbene rappresentino fenomeni qualitativamente diversi, ovvero che funzionano in modo diverso e che pertanto richiedono modalità di analisi e di intervento differenziate” Giuliano Franceschini, Scuola e didattica tra educazione e istruzione, (Pdf) Master IUL sulla Dirigenza scolastica
13 Antinucci, op.cit. pag. 23
14 AAVV, Modelli di città, a cura di Pietro Rossi, Edizioni di Comunità, Torino, 2001
15 Per altro, studi di fisiologia hanno rivelato come l’apprendimento sfrutti la cinetica per fissare nel cervello i suoi dati.
16 Ad eccezione di IUL, naturalmente.
17 Carla Morazzoni, Insegnare al Principe di Danimarca, Sellerio edizioni
18 Zygmunt Bauman (2006) Vita liquida, Ed. Laterza, Roma-Bari
19 You Tube, Lizanne Foster e il sito relativo
20 http://avanguardieeducative.indire.it/wp-content/uploads/2014/10/Manifesto-AE.pdf

 21 (a cura di) Romina Nesti, Didattica nella Primaria, con un testo di Giuliano Franceschini La didattica scolastica: verso un curricolo come ambiente educativo di apprendimento. (Pdf) Master IUL sulla Dirigenza scolastica.
22 ‪Thomas S. Kuhn‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‪‬ (2009) La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino.‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬‬

23 Si a tal proposito il sito di Eurydice: http://eacea.ec.europa.eu/education/eurydice/index_en.php

24 Instruction-Time-2015-16-Final-report-Italy
25 Al riguardo l’interessante documento di Aureliana Alberici, La possibilità di cambiare. L’apprendimento permanente. La possibilità di cambiare come risorsa strategica per la vita. all’ URL: http://unibz.it/de/organisation/organisation/administration/didacticsresearch/Documents/Relazione_Alberici.pdf
26 Alberici, op.cit. pag. 2
27 Antonio Genovese, (2003) Per una pedagogia interculturale, Bononia University Press
28 Dichiarazione dei Ministri europei dell’istruzione e formazione professionale
e della Commissione europea,
riuniti a Copenaghen il 29 e 30 novembre 2002,
su una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale. La cosiddetta Dichiarazione di Copenaghen.